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mercoledì 17 gennaio 2024

Il Gepe: Una storia d’amore

di Giuseppe Callegari


Mi chiamo Giuseppe, ma sono conosciuto come “il Gepe”. La mia vita si è snodata sulla strada fra escavatrici, bitumi e asfalti. Ho fatto solo la Terza Media, ma le conoscenze che ho del mio lavoro avrebbero meritato, non dico la laurea honoris causa, ma almeno un diploma pergamenato con lode.  Infatti non ho lavorato per vivere, ma ho vissuto per il lavoro. 

Avevo una piccola impresa e quando l’ho chiusa per raggiunti limiti di età le mie conoscenze hanno attratto una grossa ditta del settore che ha richiesto la mia collaborazione. Il boccone era troppo ghiotto e non ho potuto esimermi dal commettere un peccato di gola.

Questo non significa che abbia trascurato la mia vita privata e soprattutto la donna che amo: un raggio di sole che da cinquant’anni illumina il mio cammino quotidiano e, lo dico senza pudore, indirizza la mia vita. L’ho conosciuta che aveva 17 anni e abbiamo fatto le cose in fretta perché è rimasta incinta e pochi mesi dopo il matrimonio è nato un figlio che ha completato il nostro progetto di vita. Insieme partecipavamo alla sua crescita e lui ci ripagava fondendosi con noi. Non amava particolarmente lo studio ed era attratto dal mio lavoro. Aveva solo 14 anni, quando ho cominciato a poter contare su di un bravo assistente pagato con l’affetto.

Però la nostra favola non prevedeva il lieto fine e una sera, all’alba dei suoi 18 anni, il motorino, un “Ciao”, per una tragica ironia della sorte, diventa il suo addio.  

Consapevoli della sua generosità abbiamo donato gli organi e poi le nostre mani hanno cominciato a stringere solo lo strazio del ricordo e l’impotente rabbia di chi viene sadicamente derubato del frutto del suo amore.

Un amore che non è stato scalfito perché non abbiamo vissuto il dolore isolandoci, ma l’abbiamo messo in comune, l’unico modo per dare un senso all’incomprensibile e fornire nuova linfa a gesti che sembrano aver perso ogni significato.

Lei si dedica alla casa, io continuo col mio lavoro e questi due momenti non sono diventati isole non comunicanti, sovrastate da un insormontabile iceberg, ma costituiscono due barchette fluttuanti sulle onde del mare che però si ritrovano puntualmente nella baia di una condivisa quotidianità.

Lei è maniaca della pulizia , ma questo non mi disturba perché sono spesso fuori. Infatti, oltre il lavoro, amo andare al bar e ad uscire con gli amici. Lei non mi chiede spiegazioni, né esprime petulanti pretese perché è consapevole che l’amore non è un nido inaccessibile e non si può imprigionare. Addirittura per realizzarsi pienamente  deve entrare in comunicazione col mondo attraverso l’apertura di strade che ci trasforma in esploratori capaci di navigare in una ragnatela di relazioni ed emozioni.

Sappiamo che l’amore non è quello dei baci, delle carezze, delle moine, ma si esprime nel potersi fidare dell’altro e nel mantenere in vita il gioco della complicità fra “l’uno e l’altro”. Ad esempio, se mi alzo all’alba per andare in bagno devo comunicarglielo perché, se mi dimentico, rischio di trovare il letto rifatto e le finestre aperte.  

Fin dal primo momento in cui ci siamo conosciuti “l’uno e l’altro” si sono   trasformati nel “noi”, un passaggio che ci ha permesso di affrontare l’innaturale perdita di chi avrebbe dovuto custodire il nostro ricordo.

E continuiamo ad amarci: lei con lo straccio per sconfiggere una impercettibile polvere e io con l’utopica missione di rendere meglio percorribili le strade.



Giuseppe Callegari

Grazie di Curtatone (MN)

capogiuseppe18@gmail.com

giovedì 9 novembre 2023

Un sabato di novembre

di Giuseppe Callegari


Un giorno di inizio novembre, maledicendo mentalmente chi mi aveva rubato l’originale fanale posteriore della mia bicicletta, vado al supermercato dove era avvenuto il misfatto. Gironzolo per le corsie e poi stacco il biglietto e mi metto in fila con il numero 26 per essere servito al banco. È quasi mezzogiorno di un sabato e naturalmente l’attesa si prolunga. I numeri scorrono e il display luminoso mi avverte che sta arrivando il mio momento. Ad un certo punto si avvicina una persona e mi chiede quale sia il mio numero. Avuta la risposta dichiara testualmente: “Signore, io ho il numero 24, l’ho trovato per terra, ma ho visto che lei c’era prima di me, quindi, se è d’accordo, mi dia il 26 e prenda il mio” - Lì per lì riesco solo a bofonchiare un sentito grazie e a guardare con stupore quell’uomo, alto e ben piantato, sui 25-30 anni, che mi ha appena comunicato che il nostro mondo non è popolato di sole persone, ma ci sono anche gli esseri umani.
E questa riscoperta nasce da un gesto apparentemente insignificante, ma che ha l’inestimabile valore della gratuità. Infatti, da un punto di vista formale, avrebbe potuto benissimo farsi servire prima di me, ma in questo caso è intervenuto il contenuto, cioè la consapevolezza che esiste, non anche l’altro, ma l’altro con la A maiuscola, senza se e senza ma.
Mi rendo conto che coloro che si spellano le mani per i supereroi, il più delle volte inventati o millantatori, banalizzeranno il gesto e lo declasseranno a fatto marginale. Invece sono proprio gli eventi ai margini che hanno prodotto i cambiamenti nella storia, una storia che ci viene ingiustamente raccontata come il frutto di capi carismatici capaci di mutare il corso delle cose. Infatti costoro non sarebbero esistiti se tante piccole e quasi invisibili formiche non avessero creato le condizioni, con il loro comportamento, per far sorgere un’alba diversa.
Ad esempio, la Rivoluzione Francese non sarebbe probabilmente avvenuta se le insignificanti formiche avessero proseguito con la logica del “mors tua vita mea”, che si concretizzava nella speranza di avere un trattamento speciale dal nobile padrone, fregandosene assolutamente dei propri simili. È stata la presa di coscienza della presenza dell’altro che germogliando ha dato origine a cambiamenti epocali.
Nel Duemila avanzato, in cui vincono l’apparenza, la furbizia, il luogo comune ed impera lo strapotere utilitaristico del benpensante, il gesto di cui sono stato protagonista involontario, costituisce un significativo esempio della strada che occorre intraprendere per sradicare la logica del cinico egocentrismo.
Da un punto di vista antropologico si sostiene che l’uomo sia un animale che deve vivere in gruppo, ma questo assioma può essere sviluppato in due modi radicalmente opposti: accettare la logica imposta dal capo che si manifesta nel chinare la testa di fronte ai potenti e diventare i carnefici dei più deboli, oppure nell’abbracciare il più umile e ribaltare la scala gerarchica.
In lapidaria sintesi, un sabato di inizio novembre, in un affollato supermercato, un semplice gesto ha sintetizzato ed esemplificato il concetto di pace.

Infatti, i conflitti, piccoli o grandi che siano, nascono dalla logica per la quale “tu sei meno di me, io sono più di te”. Certo, un singolo atto non ferma la guerra, ma aiuta a comprendere che solo la moltiplicazione di comportamenti solidali producono l’unico vero e potente antidoto ad essa, assolutamente privo di effetti collaterali.


Giuseppe Callegari

Via Francesco I Gonzaga, 12

Grazie di Curtatone (MN)

capogiuseppe18@gmail.com

sabato 17 febbraio 2024

All'Istituto Alberto Marvelli a Dario Nardella, all'Arcivescovo Giuseppe Betori, al Cardinale Parolin e allo stesso Bergoglio  e persino a Giuseppe Callegari  - CROLLO INDIFFERENTE Tutto intorno crolla, sotto gli sguardi indifferenti dei telespettatori che vedono crollare con i piloni di cemento anche le speranze, che ci sia un posto di lavoro sicuro, che ci siano controlli sulla regolarità del lavoro, che coloro  che hanno responsabilità paghino e che ci sia una evoluzione della tutela degli incidenti sul lavoro perché l'impatto produce violenza, toglie il respiro, soffoca e provoca ansietà ed incubo. Pare che per motivi diversi caro Paolo Manzelli avvocato dei sindacati sia dubitabile che l'assicurazione obbligatoria attui pienamente i principi costituzionali: e in particolare tale forma di tutela previdenziale è, tutt'ora, rispetto alle altre, quella maggiormente ancorata alla tradizione e ci si domanda perché mai non stabilire uno sgravio fiscale per coloro che prevedono presso i privati una assicurazione INTEGRATIVA contro gli infortuni sul lavoro?? Anzitutto si prevede ciò solo dove c'è un apprezzabile rischio di incidenti ed il campo edilizio è il primo, insieme alle industrie chimiche e metallurgiche, inoltre coesistono numerosi forse troppi regimi differenziati e forse bisognerebbe semplificare se no la burocrazia al riguardo è veramente complicata da compilare per il risarcimento delle vittime. Si propone quindi di fare un consulto ed una riunione con i dirigenti e impiegati amministrativi e tecnici di aziende agricole e forestali, con le Casse Marittime, con le FFSS nonché con gli operanti nel settore del pubblico impiego per sottoporre la proposta di INTEGRAZIONE privata sgravata come per quella INPS al 19% proposto in quanto in base ad una statistica gli infortuni oscillano tra gli 800.000 ed il milione annuo con le punte di alcuni settori produttivi e quindi se anche solo l'infortunio costa 1.000 euro x 800.000 sono 800.000.000 di euro x 19% = 152.000.00 di euro da restituire su 730 Unico a chi esegue come investimento tale integrazione assicurativa contro gli infortuni/21 regioni sono 7.238 euro di sgravio al mese x 12 mesi = 86.856 x 5 operai morti al giorno = 434.280 al mese di cui ha diritto la regione Toscana a cui si associa Bonaccini e Toti (si spera) ed in pratica sono x 12 mesi = 5.211.360 di sgravio concesso per poter potenziare l'assicurazione sul lavoro e ciò per modifiche di integrazione cara Schlein al d.lgs 19/03/1996 n. 242 che in base alla direttiva comunitaria europea con quella quadro n. 391/1989 OBBLIGA caro Francesco Ramberti TUTTI i datori di lavoro NOI compresi ed anche i normali cittadini nell'obbligo della trasparenza di informarsi continuamente e di aggiornarsi e di formare i lavoratori maggiormente nella maggiore interazione responsabile alla sicurezza nei luoghi di lavoro. Crolla non solo il pilone, ma crolla anche la Speranza di fronte al delirio della guerra, di fronte al dolore ed alla sofferenza. Dove trovare un oasi mio Dio? Dove trovare un piccolo fiore nel deserto delle anime sopite? Io ho sete del Tuo amore, mio Dio, ho sete della tua Presenza e non riesco a rimanere indifferente di fronte alla scena tragica dove fra la polvere e le lacrime non si trovano che risposte "Meno male non è toccato a me", non si trovano che risposte "Non ce la faccio più a vedere cose simili e quindi cambio canale!" Fammi diventare respiro, dello stesso respiro delle vittime. Crolla il desiderio di sentimento e si preferisce restare asettici, privi di un valore, addormentati, spenti, vuoti che non vengono resi che al vento che sparge tutto nell'oblio. Crolla ogni desiderio e tutto giace fra il marmo freddo e la terra riarsa. Dove sei mio Dio, dove sei? Io ti chiamo e non rispondi? Alzo le mani e gli occhi e chiedo "Da dove mi verrà il soccorso?". Il soccorso viene dal Cielo, dal mare e dalla terra e dalla Parola madre che culla, che consola, che rinvigorisce e che dona sostegno di Pace, ancora un giorno, ancora un altro, fra le mani dona Pace. 

martedì 9 gennaio 2024

Stalingrado: Premessa




Vasilij Grossman con Stalingrado mette in scena un romanzo storico. Ma non è il solito pamphlet in cui si esaltano le gesta di grandi uomini che cambiano i destini del mondo. In effetti non si tratta di un libricino di poche pagine, ma di un “tomo” di oltre ottocento ed i protagonisti  sono i piccoli uomini che insieme riescono a ribaltare la storia e a sconfiggere la belva nazista. Non a caso un passo del libro recita: “E in questo risiede la speranza del genere umano: sono le persone semplici a compiere le grandi imprese”.

Il tema di fondo rappresentato dall’invasione tedesca non viene sviluppato attraverso la descrizione delle battaglie, ma raccontando il prima e il dopo. E questi due tempi sono popolati da persone, cose e ambienti.

Ecco allora che appare Vavilov che riceve la lettera di chiamata alle armi e dichiara: “Finito”. “E non si riferiva alla sua firma sul registro, ma alla sua vita familiare, che era finita, che era stata stroncata in quel momento esatto”. Diventa di una parusiaca tristezza il momento in cui si accomiata dalla figlia: “Nastja lo guardava con occhi diversi, indagatori. In quei pochi attimi era diventato un altro, per lei, e fra di loro sembrava essere caduto un velo invisibile”.

E la naturale conseguenza della guerra è la produzione di orfani. Ecco allora che appare Griša, un bambino poverissimo, i genitori ammalati e la casa che è un tugurio, ma tutto questo non gli impedisce di essere felice.  Per lui: “Quella casetta era meglio di tutti i palazzi e le chiese del mondo. Perché lì dentro lo amavano, lui, la sua timidezza e le sue orecchie grandi”. E alla festa del Primo Maggio dice ai genitori: “Mamma, papà, come siete belli, come siete eleganti”. È il suo ultimo saluto, perché poco dopo le bombe mettono fine alla sua felicità che non chiedeva niente, ma soprattutto ad una storia d’amore, con un epilogo straziante: Nessuno sapeva quanto li amasse, quanto fosse strenuo, dolce il suo amore per loro. Griša li aveva visti dopo il bombardamento, riversi, coperti con un panno grezzo e bruciato: il naso aguzzo del padre, l’orecchino a cerchio della madre, una ciocca dei suoi pochi capelli biondi…”.  

Grossman non presenta solo il singolo individuo nelle sue interazioni, ma visualizza il gruppo, ci fa partecipi della comunità, non come entità grigia, inestricabile, informe, ma come una forza viva, un coro che trasforma le difformità in un suono armonico. “In quei giorni fu come se la differenza di età, professione e stato sociale che talvolta impediscono alle persone di avvicinarsi scomparissero, e chiunque lavorava alla Centrale elettrica sentì forte i legami veri umani   della vita e si sentì parte di un’unica grande famiglia unita”.

In uno scenario apocalittico come l’assedio di Stalingrado c’è posto per alcune riflessioni sull’arte, alla quale non ci si accosta intimoriti, senza alcuna gioia ed emozione e che diventa “un’inferriata ruvida fra l’uomo e il mondo”. Di fronte ad una espressione artistica ci si scopre a gridare: “Anch’io ho pensato e provato qualcosa di simile e lo provo ancora; anch’io l’ho vissuto sulla mia pelle!”.

Infatti: “L’arte di questo tipo non separa l’uomo dal mondo, ma al mondo, alla vita, agli altri uomini lo unisce. L’arte di questo tipo non usa lenti colorate e «astruse» per guardare alla sua esistenza”. In pratica: “È come se la vita entrasse dentro di noi, come se accogliessimo nel nostro sangue, nella nostra mente e nel nostro respiro tutta l’immensità e la complessità della vita umana”.

La guerra, crudele e distruttiva, non può prescindere dal lavoro e dalla famiglia, due   entità di pace che non entrano direttamente in contatto con il conflitto, ma rappresentano  microcosmi   con i quali si certifica l’appartenenza al mondo attraverso una singolare e creativa partecipazione. Infatti Andreev: “Fondeva l’acciaio secondo le sue personalissime regole e misure, aveva una sua percezione del tempo, della temperatura e delle proporzioni della carica fra ghisa e ferro di risulta. E siccome la tabella di marcia e le specifiche tecniche non sempre coincidevano con le sue, per rispetto per l’ordine e per la scienza Andreev le rimpiazzava con quelle richieste dal manuale, ma lo faceva dopo aver prodotto e consegnato ai reparti di forgiatura il suo ottimo acciaio”.

E Andreev aveva anche una sua particolare ideologia per quanto riguarda la famiglia: “Per lui i rapporti fra suocera e nuora dovevano essere come quelli che vigevano all’interno di uno Stato e fra gli Stati. E i rapporti fra suocera e nuora erano la spiegazione esemplare di quanto accadeva fuori: le imperfezioni di casa erano le imperfezioni del mondo. «In più stare stretti è una disgrazia» pensava. «Ad averci spazio andrebbe meglio, ma mancano i soldi». E la mancanza di soldi e spazio era anche il primo motivo delle guerre fra Stati. 

A casa Andreev era severo fino alla cattiveria, irascibile ed esigentissimo. In fabbrica, invece, si riposava dalle imperfezioni del mondo. In fabbrica la gente non cercava il potere sul prossimo, ma sulla ghisa e sull’acciaio. Ed era un potere che generava libertà, non schiavitù”.

Naturalmente esiste anche la ricerca di una spiegazione per la guerra in atto attraverso percorsi che spesso non collimano: “Il nazismo è forte, ma c’è un limite al suo potere. E dobbiamo tenerlo a mente. Il potere del nazismo sulle persone non è illimitato! Nella sostanza, in generale, Hitler non ha modificato la proporzione fra gli ingredienti dell’impasto tedesco, di quella loro pasta lievitata, bensì l’ordine. La feccia in cui vive il popolo, che è inevitabile nel capitalismo, il lerciume, ogni nefandezza che veniva taciuta, celata, tutte queste cose il nazismo le ha portate a galla, le ha fatte affiorare, le ha messe sotto gli occhi di tutti, mentre le cose buone, il buonsenso, la saggezza popolare che sono il pane della vita – si sono depositate sul fondo, sono diventate invisibili, ma continuano a vivere e a esistere. Certamente il nazismo ha deformato e insozzato molti cuori, ma il popolo c’è. E ci sarà sempre”. 

“No, non è così che si spiega quant’è accaduto in Germania! Lei sostiene che un manipolo di delinquenti con Hitler in testa ha fatto irruzione nella vita tedesca. Quante volte, però, nei momenti decisivi della sua storia, la Germania ha visto trionfare le forze reazionarie? Se non era un Friedrich era un Wilhelm Friedrich o un Wilhelm e basta. Dunque il punto non è il manipolo di scellerati con Hitler in testa; il punto sono i tratti salienti del militarismo prussiano, che sa sempre cavare dal cappello delinquenti e Überdelinquenti”.

E non può mancare l’amore, che mette in gioco quell’inestricabile miscuglio di ragione e sentimento, di cuore e di cervello che sancisce la relazione con l’altro attraverso la realizzazione di ciascuno di noi. “Rischiarati dai bagliori lontani, i suoi occhi brillavano; era davvero bellissima in quella luce tremolante, ora lugubre ora dolce. Anche lei doveva aver sentito, non con la mente né col cuore, ma con la pelle, le braccia, il collo, che lui respirava il suo odore, che le guardava la bella treccia che ricadeva sulle ginocchia, le braccia nude fino sopra il gomito, le gambe robuste. Ma non disse niente: sapeva che non c’erano parole per descrivere quello che stava nascendo fra di loro”.

Tuttavia l’amore può esplicitarsi anche con il “tradimento”. Infatti l’amore  fecondo sparge i sui frutti che, a loro volta, produrranno i semi per un’ampia condivisione di questo sentimento. Per fare questo occorre uscire dagli schemi “piccolo borghesi” del tradimento e della scappatella e avventurarsi fuori da questa logica con tutti i rischi che ne conseguono. E Grossman lo fa con Štrum,  che la sera del sabato partì per la dacia: “Sul treno pensò a quanto era accaduto nei giorni appena trascorsi. Era un peccato che Čepyžin  se ne fosse andato. Novikov, il colonnello che era passato da lui la sera prima, gli era piaciuto molto. Era contento di averlo conosciuto. Certo, meglio sarebbe stato  conoscerlo una mezz’oretta dopo, così  avrebbe potuto salutare Nina diversamente… Ma poco importava. Sarebbe ritornata il martedì seguente. E lui avrebbe di nuovo visto quella creatura splendida, giovane, adorabile.

Al pensiero di Nina si aggiungeva, altrettanto ostinato, quello per sua moglie. Se la immaginò sola e preoccupata per Tolja e ripensò ai tanti anni passati insieme”.

In questo coacervo di dubbi e incertezze, l’attrazione di Nina  porta  a costruire un castello di accuse contro la moglie Ljudmila anche se sa che ”Nel profondo della coscienza la logica di quelle accuse era sbagliata e di parte, menzognera e mendace. E vedere che la menzogna, che aveva sempre detestato, non solo si era insinuata nei rapporti con amici e parenti, ma aveva intorpidito le acque di fonte della sua ragione. Tuttavia, scendendo dalla banchina, si scoprì a domandarsi: «Ma perché la menzogna deve essere il male? In che cosa è peggiore della verità?»”.

Gli uomini, le cose, i sentimenti, il tempo che scorre hanno come palcoscenico il paesaggio, e la steppa diventa sia un testimone oculare degli accadimenti, sia l’attore protagonista da ammirare. “Quell’estate i tramonti della steppa erano particolarmente maestosi e sontuosi. Sulla steppa incombeva la polvere di milioni di piedi, ruote e cingolati, la polvere delle bombe che esplodevano, sospesa come un velo negli strati più alti e cristallini dell’aria insieme al respiro freddo dello spazio cosmico”.

La steppa si esprime con i colori, gli odori e i suoni che “non arrivano distinti all’orecchio umano, né vanno ascoltati uno per uno. I suoni della steppa sfiorano l’orecchio e arrivano diritti al cuore, riempiendolo di pace e serenità, ma anche di tristezza e angoscia”.

I suoni della steppa avvolgono e cullano i colori di un territorio che si veste in modo   diverso a seconda del momento della giornata: “È enorme, la steppa. E come il cielo e il mare prendono colore al tramonto, così la terra dura e riarsa della steppa, grigiastra e giallognola durante il giorno, la sera cambia colore. […] La sera la steppa diventa rosa, poi blu, poi di un nero violastro”.

La trilogia della steppa si completa con gli odori che nascono dai colori e si accordano con i suoni: “Il calore del sole scalda le essenze racchiuse nella linfa delle varie erbe, di fiori e cespugli, che si posano come una nube sul fresco della terra, senza impregnarla, ma librandosi su di essa in volute piccole e lente”.

“Su tutto, poi, incombe il cielo della sera, con la terra che ci si riflette o col cielo che si riflette sulla terra, o con la terra e il cielo che si riflettono a vicenda come due enormi specchi, arricchendosi l’una con l’altro grazie al miracolo del duello fra buio e luce”.








sabato 27 gennaio 2024

Gino


1943: sono un soldato italiano in Montenegro, il rumore degli spari copre le grida dei miei pensieri fino a quanto sento un cupo boato e, subito dopo, un insopportabile caldo al collo. Me lo tocco e, quando guardo, la mia mano è piena di sangue. Mi fasciano e mi trasportano in un’improvvisata infermeria, dove un dottore alto e asettico dichiara che non si possono estrarre le schegge e che me le dovrò tenere come ricordo del servizio alla Patria. Passano i giorni, arriva la notizia che il maresciallo Badoglio ha firmato l’armistizio, ma il mio sospiro di sollievo si trasforma in un groppo in gola quando un capitano tedesco ci chiede di continuare a combattere con loro. Pochi accettano, io e molti altri siamo caricati in vagoni per il bestiame e viaggiamo per giorni e notti. Qualche volta ci fanno scendere per i nostri bisogni, ma la maggior parte ha già provveduto nei vagoni stessi.  Poca roba, visto che non ci danno né da mangiare, né da bere. Un sole pallido ci accoglie quando arriva l’ordine di scendere e veniamo convogliati in baracche di legno che non hanno le finestre. Credo di essere in Germania, ma non ne sono sicuro, vedo solo il nero della miniera di carbone in cui lavoriamo diciotto ore al giorno e il buio della baracca. Vedo i miei compagni morire di fame e di stenti, assaggio una brodaglia schifosa chiamata rancio e le mie mani scavano nelle immondizie alla famelica ricerca di bucce di patate. Chiamo la morte, come feroce giustiziera dell’annientamento dell’uomo, cerco addirittura di darle una mano, ma è troppo impegnata e non riesce a esaudire il mio desiderio.


di Giuseppe Callegarifiglio di  Luigi, detto Gino, deportato in  Germania dal Montenegro


giovedì 11 gennaio 2024

 OBIETTIVO AREA ESPRESSA. Non è facile prendersi cura delle persone, bisogna conoscere l'altruismo di un agente economico che persegue l'utilità o il benessere di altri agenti che come lui vogliano raggiungere lo stesso obiettivo. La soluzione del dilemma del prigioniero di una zona di confort, ma invece l'obiettivo del protagonismo è quello di competere a raggiungere per primo il podio. Il personaggio che vuole ridurre i consumi energetici; diminuire o eliminare le sostanze tossiche, massimizzare l'impiego di sostanze rinnovabili; aumentare la biodegradabilità dei materiali ed incrementare la componente immateriale di prodotti e servizi in realtà non sa come fare e tanto meno gli importa in quanto a lui interessa vendere la cultura delle sue abitudini ideali di Bukowski anticonformista che emargina la cultura della matematica e della logica per incentrarsi sull'exhibitions and general tales of ordinary madness, a lui interessa solo immergersi in evocazioni tolstojane di guerra e pace che condensano i problemi sociali e politici della guerra in Russia e di sopravvivere alla censura che impone un irreprensibile comportamento da valido soldatino, quando lui essendo un editore dovrenbbe conoscere il termine strutturalismo che serve a designare (Giovanna Scarca lo sa sicuro, sicuro, sicuro) alcune tendenze moderne operanti discipline molto varie fra cui anche la cultura matematica: Questo indirizzo è fondamentale per la linguistica e si ritrova in Ferdinand de Saussure dove c'è la comparsa di una grammatica generativa e la tendenza a rifiutare l'atomismo positivista in nome di una descrizione della lingua come struttura, ossia come sistema di relazioni (più precisamente insieme di sistemi interattivi) i cui elementi come suoni e parole non hanno alcun valore al di fuori delle relazioni di equivalenza e di contrasto che esistono fra di loro. In questo ambito c'è una distinzione fra ciò che appartiene alla natura della lingua come tale e ciò che si riferisce al suo uso; la tendenza a svalutare lo studio di quest'ultimo, e quindi degli atti linguistico logici da parte di un editore che si dichiari tale è da abolire, in quanto la lingua logica è una vera e propria arte per i parlanti in relazione con le situazioni reali, con i contesti e soprattutto con la giusta e più corretta impostazione della ricerca storica che evidentemente l'editore ospitante non si impegna mai a fare anzi la rifugge seppure invece molti colleghi (ne sono convinta) ne abbiano pieno rispetto. Le tendenze strutturali hanno avuto ampio sviluppo anche nella teoria della letteratura e nella critica letteraria e per giunta caro Callegari già i formalisti russi (formalismo) avevano rifiutato le analisi psicologiche storico genetiche contenutistiche dell'opera letteraria, concentrandosi nell'attenzione sulla letteralità, ossia ciò che fa di una data opera l'opera prima letteraria. Con le tesi del Circolo linguistico di Praga si testimonia l'esigenza di includere la lingua poetica e pure quella logica dal dominio della nuova linguistica, definendola come un luogo, una casa e difendendola da quei procedimenti automatici e meccanici, banali, monotoni delle proposte di comunicazione per simboli e sostenendo la mistica dei rapporti di casualità tra sistemi eterogenei di cui bisogna che una casa editrice che si dica tale studi a fondo la lingua poetica stessa nella sua evoluzione nella logica e nella metrica matematica (una vera innovazione MAI, MAI proposta|!!). Il massimo esponente (che lo si metta agli atti pure di Ramberti e C. è R. Jakobson che studiò il tema di 6 fattori costitutivi dei processi linguistici (emittente, destinatario, codice, messaggio, contesto e soprattutto CONTATTO UMANISTICO) che evidentemente questa casa editrice NON conosce per funzione poetica che consiste nell'accentuazione del linguaggio nel fattore messaggio profondo mediante (Zamparetti Marco per favore ti supplico) SPOSTAMENTO SULL'ASSE DELLA COMBINAZIONE DI LINGUISTICA COMPLESSA MATEMATICA   ah ,ah , ah però!!) nei principi che regolano la selezione di unità e di equivalenza, similarità e di analisi che mirano alla ricerca dei parallelismi che ne costituiscono l'architettura ed il Marilù che scrivo qui su questo blog credo di esserci riuscita per buoni riflessi su seri impegnati e responsabili studi letterari che possono pressoché identificarsi con un certo Saussure di identità razionale e non puramente materiale dei componenti del sistema linguistico. Certo non sono un mito ma posso essere un attante cioè una funzione effettivamente reperibile nel circostante mondo affidata ad attori che sappiano elaborare nel reading una rigorosa ed ardua (lo ammetto ed oso) linguistica di impatto dove la forma ha una svolta di distinzione fra contenuto ed espressione del significante e diventa gesto e gestualità dei modi ed insomma il primo tentativo con "L'ho scritto sui muri" è stato fatto e noi siamo i primi a proporlo e sono convinta che Giovanna Scarca ne sarebbe orgogliosa e fiera di portare avanti questo stendardo femminile. Coraggio vinciamo la paranoia e portiamo in alto il valore strutturalista moderno se no qui diviene tutto cenere dell'incenerita poestica servente e serbante e poi ci si dimentica pure di Dante e della sua continua rivoluzione ancor oggi di volgare eloquenza di cui i veri intellettuali non riescono a fare davvero senza. 

mercoledì 30 marzo 2011

Su Messa a fuoco manuale di Giuseppe Callegari

recensione pubblicata su «Notiziario del Centro di Documentazione di Pistoia» n. 216, p. 28

Questo libro affronta le questioni cruciali dei nostri giorni in materia di politica, economia, ambiente, valori morali, bioetica, guerre, conflitti, tecnica, progresso, media, ecc.
In queste pagine l'autore espone “la visione del mondo di uno qualunque, che non è dipsonibile a consegnarsi supinamente alla società dei consumi, dello spettacolo e alla tirannia della comunicazione di massa”, con parole forti, provocatorie, per richiamarci alle nostre responsabilità, per scuoterci dalla nostra apatia, per gettare lo sguardo un po' più in là del nostro naso.
L'autore lancia una sfida affinché si recuperi il senso critico, per costruire quelle mille verità che diventeranno, insieme, una verità comune.

sabato 4 maggio 2024

Poi improvvisamente



Mi sembra di arrivare dal nulla. Intorno a me è tutto buio, ma comincio a sentire. Cerco le parole per descrivere l’ambiente ovattato in cui sono e soprattutto tento di comprendere chi sono.
Non conosco ancora la felicità e il dolore perché non possiedo ancora l’alfabeto della relazione. Ci sono, ma non sono in grado di comprenderne il motivo.
Nell’attesa mi nutro e comincio a prendere forma. E tra una capriola e una giravolta inizio a sentire suoni e voci che provengono da un’altra dimensione.
Poi improvvisamente riaffiora il passato. E vedo un bambino abbandonato nel cassonetto delle immondizie e poi la casa famiglia e poi il giudice tutelare e la scuola e l’insegnante di sostegno, il riformatorio, umiliazioni e scherni e infine una dose corroborante, ma eccessiva di “accettavita” che cancella tutto.
Poi improvvisamente riaffiora il passato. E vedo un bambino che lavora dodici ore al giorno, un letto di fortuna, improvvisati pasti e poi lavoro, lavoro e lavoro e infine un macchinario pietoso che cancella tutto.
Poi improvvisamente riaffiora il passato. E vedo un bambino con il fucile in mano che è costretto ad uccidere senza capire perché. E infine una salvifica granata che lo squarcia e cancella tutto.
Poi improvvisamente riaffiora il passato. E vedo un bambino tetraplegico, muto e cieco, attaccato ad una macchina che lo costringe a vivere e infine una mano misericordiosa che schiaccia un bottone e cancella tutto.
Poi improvvisamente riaffiora il passato e vedo un bambino con la pancia gonfia perché non ha da mangiare e poi un viaggio nel deserto e un barcone che solca il mare le cui onde lo travolgono cancellando tutto.
Poi improvvisamente riaffiora il passato. E vedo la mano di un bambino che corre allacciato alla madre per sfuggire alle bombe. E le sue grida disperate quando si ritrova senza guida. Infine il colpo di un cecchino cancella tutto.
Poi improvvisamente riaffiora il passato. E vedo un incastro di genitali, non voluto, violento, prevaricatore, da cui prende forma un frutto che non ha conosciuto la fioritura e chiede di essere cancellato.
Poi improvvisamente riaffiora il passato. E vedo un cucciolo che viene strappato dal ventre materno e consegnato a gelide acque affinché cancellino tutto.
Poi improvvisamente riaffiora il passato. E vedo un cagnolino che cresce nel piccolo box di un canile e non conosce affetti e passeggiate fino a quando il cuore ingrossa fino a cancellare tutto.
Poi improvvisamente riaffiora il passato. E vedo un cane che passa da una famiglia all’altra senza mai riuscire a superare l’esame di ammissione fino a quando una provvidenziale automobile cancella tutto.
E allora decido di non uscire dal mio bozzolo protettivo, di ritornare nel nulla da cui provengo, sperando che qualcuno mi aiuti. Da fuori sento però grida e strepitii che urlano “assassino”.
Poi vedo un uomo, alto e robusto, che con una voce stentorea proclama: “Meglio mille aborti che una vita certa di sofferenza, lo dice il Qoelet, lo dice la Bibbia!”


capogiuseppe18@gmail.com

lunedì 29 novembre 2010

Su Profili critici di Vincenzo D'Alessio

con presentazione di Alessandro Ramberti e postfazione di Massimo Sannelli, Fara Editore, Rimini, 2010, pag. 233, Euro 12.

recensione di Alessandro Di Napoli pubblicata su «Sìlarus» rassegna bimestrale di cultura, n, 272, novembre-dicembre 2010, pp. 83-84

Vincenzo D’Alessio, oltre che poeta fortemente ispirato e fecondo, come testimoniano le sue sillogi pubblicate dal 1975 (La valigia del meridionale. Omaggio al paese natio, Casa Editrice Verso il Futuro, Avellino) ad oggi (Figli, con introduzione di Emilia Dente, Edizioni G.C. “F. Guarini”, Montoro Inferiore (AV), 2009), è anche un critico letterario particolarmente attento alla produzione poetica e non solo di questi anni.
Questo suo ultimo libro contiene numerosissime recensioni a libri di diversa natura (poesie, romanzi, racconti, riviste, antologie, eventi). Fra i tanti, si è occupato di Domenico Cipriano (L’enigma della macchina, L’Arca Felice, Salerno, 2008), di Emilia Dente (È luce il tarassaco, poi Tarassaco e viole, in Legenda, Fara Editore, Rimini, 2009), di Luigi Fontanella (Azul, Archinto, Milano, 2001), di Mario Fresa (Alluminio, LietoColle, Faloppio, 2008), di Antonietta Gnerre (Fiori di vetro: restauri di solitudine, Fara Editore, Rimini, 2007; Preghiere di una poetessa, in Lo spirito della poesia, Fara Editore, Rimini, 2008; PigmenTi, Edizioni L’Arca Felice, Salerno, 2010), di Michele Luongo (Irpinia terra del Sud, Tracce, Pescara, 2003), di Paolo Saggese (Poeti del Sud 3, Elio Sellino Editore, Avellino, 2007) di Giuseppe Iuliano e Paolo Saggese, a cura di, (Versi per il Formicoso, Centro di Documentazione sulla poesia del Sud, Nusco (AV), 2008), di Giovanni Taufer (Sciure e papagne, Domicella (AV), 2009), solo per fermarci agli irpini e ai salernitani Fontanella e Fresa. Vi sono poi una riflessione dello stesso D’Alessio, nella quale spiega le ragioni
della morte del Premio Nazionale di Poesia “Città di Solofra” fondato nel 1976 ed una lettura di “Poesia Meridiana”, organo del Centro di Documentazione sulla poesia del Sud, la rivista fondata e diretta da Giuseppe Iuliano e Paolo Saggese.
Le recensioni, così come di regola dovrebbe essere, sono brevi, essenziali, prive di questioni superflue o, peggio ancora, inutili. Il D’Alessio, definito da Alessandro Ramberti “impegnato fino in fondo”, parla dei libri e ne coglie sempre, senza le inutili scenate della demagogia letteraria, i significati più intimi e peculiari. Lettura attenta e scrupolosa quella del D’Alessio, che ci consegna il meglio di ogni singolo autore (poeta, scrittore o saggista che sia).
Essenziali e sicuri i giudizi su Domenico Cipriano (“Cipriano ci annuncia il futuro della
nuova scrittura poetica, inscritta in un pentagramma di settime, quinte e sedicesime (tanto per restare in tema jazz), che viene dal Sud ma è pronta per scalare le vette della poetica nazionale, a scritta nelle belle pagine della buona letteratura contemporanea”, p. 56), su Emilia Dente (“I versi di questa raccolta denunciano il dolore che promana dalla terra devastata, dai giovani invecchiati anzitempo, dalle forze sane che hanno molto da dare e che invece vengono paralizzate alla frontiera del fare, la forza costruttiva degli occhi del poeta è l’unica spiaggia nel mare del disinteresse”, p. 78), su Luigi Fontanella (“La raccolta Azul di Luigi Fontanella nasce così complessa e variegata da essere sul serio un intricato orto botanico, una sospesa serra, nel plasmabile mondo del viaggio”, p. 99), su Mario Fresa (“Le diciannove poesie (…) sono pervase da una musicalità che bene conosciamo: il verso disposto alle analogie e al suo correlativo oggettivo: lezione che Luciano Anceschi ha dettato per il filone poetico dell’Ermetismo”, p. 103), su Antonietta Gnerre (“La poesia
di Antonietta Gnerre copre dieci anni di studi e di sofferta originalità meditata, ricercata, accettata, rifiutata, all’ombra di una Natura ancora amica ma che sfuma in una realtà ben diversa che si tarda ad accettare”, pp. 125-126), su Michele Luongo (“Irpinia terra del Sud è un miracolo di semplicità, un libro che non possiede filtri di scrittura, né ricorre a strategie romanzate”, p. 141), su Paolo Saggese (“… egli è un critico che crede nella fede della parola che sopravvive all’uomo: l’opera Poeti del Sud, iniziata nel 2003, proseguirà il suo compito di lievito, in terra arsa ma capace di svincolare la Poesia Meridionale dalle conclusioni provvisorie”, p. 197) e su Giovanni Taufer (“Tutta la raccolta contribuisce a trattenere nella memoria del lettore, e anche in quella collettiva, il dialetto napoletano che resiste alla lingua italiana da più di cento anni per non sparire dalla parlata
comune”, p. 219).
Altrettanto puntuali e ricchi i profili di Carmine Abate, di Luca Ariano e Paci Luca, di
Gladys Basagoitia, di Gabriella Bianchi, di Stefano Bianchi, di Laura Bonalumi, di Daniele Borghi, di Roberta Borsani, di Marco Bottoni, di Brunella Bruschi, di Giuseppe Callegari, di Caterina Camporesi, di Paola Castagna, di Alex Celli, di Vincenzo Celli, di Maria Pina Ciancio, di Armando Conti, di Stefania Crozzoletti, di Carla De Angelis, di Carmine De Falco e Marini Leonardo, di Chiara De Luca, di Adele Desideri, di Andrea Di Consoli, di Nicola Di Paolo, di Fabbri Franca, di Subhaga Gaetana Failla, di Narda Fattori, di Giovanna Fozzer, di Enrico Gandolfini, di Andrea Garbin, di Sonia Gardini, di Mohamed Ghonim, di Bernardo F.M. Gianni, di Gezim Hajdari, di Leela Marampudi, di Marco Merlin, di Simone Molinaroli, di Ardea Montebelli, di Alberto Mori, di Enrica Musio, di Luca Nannipieri, di Andrea Parato, di Guido Passini, di Antonella Pizzo, di Alessandro Ramberti, di Michele Ricciardelli, di Zina Righi, di Patrizia Rigoni, di Barbara Rosenberg, di Benito Sablone, di Stefano Sanchini, di Massimo Sannelli, di William Stabile, di Guido Zanobbi e Marco Zavarini.
Un libro da leggere, da approfondire, da consultare e da conservare per ulteriori sviluppi sia per quanto riguarda la conoscenza dei singoli autori sia per gli argomenti, di volta in volta, affrontati. Profili critici, questi di D’Alessio costruiti con analisi puntuali e documentate di autori ingiustamente ritenuti minori, che hanno già dato un contributo notevole alle varie letterature regionali. Particolarmente significativi i profili di Domenico Cipriano, di Emilia Dente, di Luigi Fontanella, di Mario Fresa, di Antonietta Gnerre, di Alessandro Ramberti, di Benito Sablone, di Paolo Saggese e di Massimo Sannelli, solo per citarne alcuni.

mercoledì 22 gennaio 2025

Ecco i vincitori del Narrapoetando 2025

Grazie di cuore ai giurati Fabio Orrico, Francesco Di Sibio, Giovanna Passigato, Stefano Martello della sezione Narrativa/saggio (per la Poesia v. qui) del concorso Narrapoetando 2025 per l’attento e appassionato lavoro di valutazione e complimenti ai vincitori!

I class.

TRA QUI E ALTROVE
di Francesco Randazzo (Ronciglione, VT)


Francesco Randazzo, laureato in Regia all’Accademia Nazionale d’Arte Drammatica “Silvio D’Amico” di Roma e in Filologia e Letterature Moderne all’Università “Guglielmo Marconi” di Roma, lavora in Italia e all’estero come regista e autore. Ha pubblicato testi teatrali, poesie (con Fara, Itaca deserta ruggine, 2020, E fu sera e fu mattina, 2024), racconti e quattro romanzi. Numerosi i premi di drammaturgia e letteratura nazionali e internazionali. Sue pièces sono state tradotte in spagnolo, ceco, francese e inglese. Con Graphofeel, negli ultimi anni, sono usciti: I duellanti di Algeri (2019), Il vero amore è una quiete accesa (2021) e Freme la vita. I sogni di Goffredo Mameli (2024).

«Il fantastico sembra essere il sottofondo morale scelto dall’autore per le sue storie, inteso nel senso più ampio del termine. Si va dalla fantascienza propriamente detta all’utopia passando per fiabe dal tono gentile e moraleggiante. Purtroppo, la tendenza a chiudere (ma spesso anche ad aprire) con una nota decisamente patetica inibisce le potenzialità di diversi racconti.» (Fabio Orrico)

«Ironia, tensione, partecipazione all’avventura umana, anticipazione del futuro. Anche nei suoi aspetti più feroci o più inverosimili.
“Ogni vita nasconde una catabasi, immaginata, sognata, temuta, desiderata, è forse un impulso segreto (…) che può essere un’epifania, un richiamo sia alla maturità da raggiungere che al fremito irrequieto della volontà di compiere la propria impresa esistenziale.”
Racconti di solitudine estrema, e, coraggiosamente, anche nell’abisso dell’Alzheimer: forse questo dissolversi nella realtà che conosciamo è uno sfumare verso un’altra, altrettanto reale, seppure sconosciuta.
Racconti anticipatori, come 2063, e per questo terribili.
Racconti ironici come Prima i lombrichi.
Racconti di una predisposizione all’amore: “Vedo soltanto un mare d’argento, nitido e freddo. La barca del mio corpo vuoto scivola e va verso il suo orizzonte del nulla”. E poi la vecchiaia. E altro. Il tutto raccontato con un linguaggio semplice e alto insieme, di una precisione scientifica, in grado di penetrare, coinvolgere e sconvolgere.» (Giovanna Passigato)

«Ci sono temi e generi, tra queste parole, che meriterebbero più rispetto. Più riconoscimento. Non per buonismo letterario ma solo per la stretta contingenza con il presente. Magari questi racconti, questi inizi, non mi sono nemmeno piaciuti, ma meritano una spinta vigorosa in avanti. Soprattutto oggi.» (Stefano Martello)


II class. ex aequo

LA SCUOLA POSSIBILE
di Simone Mazza (Parma)


Simone Mazza vive e lavora a Parma. Insegnante e formatore, coltiva variegate passioni, tra cui scrivere. Ha redatto numerosi articoli per riviste di tecnologia didattica e diversi manuali, fra i quali: The digital storytelling (2018). In ambito narrativo, dopo due raccolte di racconti, ha pubblicato in varie antologie molti testi premiati in concorsi letterari (es. “Il passaggio a livello” in Creare Mondi, Fara 2011) e due romanzi: Memorie di fango (Prospero 2017) e Ci vediamo dopo (Calibano 2021). Nel 2020 pubblica con Fara, Storie con un’altra morale e nel 2023 Se in cielo non ci sono stelle.

«Testo molto interessante, che offre uno sguardo sull’istituzione scolastica negli ultimi anni del XX secolo, e ancora nei primi del XXI, attraverso le esperienze di due modelli innovativi, la scuola di Summerhill, e la Sezione Sperimentale della Scuola Montebello, i quali mostrano il valore di un’educazione che metta al centro la felicità, l’autonomia e la socialità.
Tuttavia, entrambe evidenziano anche la necessità di un equilibrio tra libertà e struttura, tra spontaneità e progettazione. Temi molto sentiti all’epoca. Scritto in modo semplice, chiaro, coinvolgente.» (Giovanna Passigato)

«Saggio elegante, basato sull’esperienza personale di un ex allievo della sezione sperimentale di una scuola elementare. Aiuta il parallelo con l’esperienza anglosassone da cui la sperimentazione prende più che le mosse. Con onestà intellettuale, non vengono taciuti i pregi né i difetti. Tutti siamo stati bambini, quindi chiunque può accostarsi, capirlo e farsi delle domande.» (Francesco Di Sibio)


TRE RACCONTI INQUIETI
di William Protti (Santarcangelo)


William Protti, nato a San Marino, vive a Santarcangelo di Romagna. È appassionato di fumetti e ha impaginato alcuni libri, ultimo dei quali Lo splendore della Verità (Pazzini, Villa Verucchio 2022). Fra il 2015 e il 2018, i racconti Un giorno di follia, La minaccia, Kronin: visioni del futuro e Vera sono stati premiati dai concorsi indetti da Fara. Con Eghena ha vinto il Faraexceslior 2024.

«Nella cornice del genere horror, modulato tante volte quanto è il numero dei racconti trovano posto ipotesi e tendenze legate al genere: dal folk horror al gotico, accostati a temi sociali di bruciante attualità (la violenza sulle donne, per esempio). L’autore è capace di amministrare il citazionismo con grande intelligenza, integrandolo nel racconto e non usandolo come sfoggio di erudizione né come strizzatina d’occhio postmoderna.» (Fabio Orrico)

«Un gioco di specchi coinvolge il lettore immerso nelle pagine del primo racconto. Il filo va tenuto ben stretto per non perdere l’aquilone della storia. Seguono altri due racconti inquieti, da leggere. Bisogna lasciare spazio alla fantasia, per farsi catturare totalmente.» (Francesco Di Sibio)


III class. ex aequo

DIARIO
di Marco Bottoni (Castelmassa, RO)


Marco Bottoni è nato nel 1958 a Castelmassa (RO). Medico di Medicina Generale, scrive per passione dal 1999 racconti, poesie e testi per il teatro. Ha pubblicato il romanzo: Io e Marcellino. Con Fara raccolte di racconti e il testo teatrale Con il titolo in coda (2011) vincitore del premio Martucci Valenzano. È fondatore della Compagnia Buoni e Cattivi che mette in scena i suoi testi teatrali. Ha vinto vari premi (nel 2014 il concorso Insanamente con Tratto da una storia vera (medaglia del Presidente della Repubblica) e il Pubblica con noi 2016 con “Vite in viaggio”). È inserito in molte antologie.

«Bel testo sperimentale, formalmente rigoroso ma narrativamente libero. Dal titolo si evince tono e struttura ma numerose ipotesi narrative vengono parcellizzate all’interno del dettato e restituite prismaticamente, come volti riflessi in uno specchio rotto.» (Fabio Orrico)


Appartengo a te
di Arianna Biscotto (Cervia, RA)


Arianna Biscotto è nata a Campo San Martino (PD) 55 anni fa, sapeva scrivere il suo nome a 3 anni e l’amore per la scrittura e i libri le appartiene da sempre. Lavora in un’azienda che offre servizi alla persona e che le permette di rimanere a contatto con ogni realtà umana. Ha un diploma in ragioneria, ma i numeri non fanno proprio parte del suo mondo, le parole sì.

«Il romanzo breve appassiona fin dalle prime battute, il lettore nuota tra i flutti narrativi e si immerge nei luoghi dove si sposta l’azione. Una fotografa di fama fugge dal suo passato doloroso e incontra il bell’attore turco. La Hollywood turca contagia pure la narrativa. Ce ne faremo una ragione.» (Francesco Di Sibio)


Noir. Dieci racconti
di Robi Cottoman


Robi Cottoman tiene molto alla sua privacy, scrive per passione dalla sua nascita di scrittore che si stima sia da datare attorno all’anno 1999.
Nel mondo letterario è pressoché sconosciuto; nella professione si occupa di termodinamica applicata, circuiti idrodinamici a pressione variabile, pompe aspiranti e prementi, scambi gassosi, microcircuiti ipercomplessi a bassissimo potenziale (non produzione, solo manutenzione). Ha vissuto anche in Nicaragua (brevemente) e in Svezia (più a lungo); parla, legge, scrive e sogna correntemente in italiano, inglese e spagnolo. Nessuno è mai riuscito a scattargli una fotografia e, fortunatamente, non ha mai avuto un incidente mortale. Gli piacerebbe molto riuscire a pubblicare un libro.

«Saranno i tempi che corrono ma "Noir" non indica più solo un genere. Piuttosto uno stile comportamentale. Un timbro operativo. Dieci racconti che parlano di un oggi particolarmente scadente ma non per questo meno seguito.» (Stefano Martello)


Opere votate

Il Gepe e altro
di Giuseppe Callegari (Grazie, MN)


Giuseppe Callegari, nato a Voghera (PV) nel 1951, residente a Grazie di Curtatone (MN). Ha tentato di fare il giornalista (iscritto all’Albo dei pubblicisti dal 1979), ma dopo aver scoperto che lavorare per i giornaloni e la tv implicava avere la targa giusta, ha scritto qua e là (anche qualche libro) e ha finito la carriera facendo Il Topone (un tri-settimanale autoprodotto e auto-distribuito). Con la vecchiaia è stato promosso da giornalista e giornalaio. Infatti distribuisce i giornali alle persone che hanno difficoltà ad andare in edicola. Si è guadagnato la pagnotta quotidiana facendo l’insegnante nelle scuole professionali e il più bel voto che ha ricevuto è stato: “mi hai preso la mano quando non la sentivo e non l’hai più lasciata”, una frase detta da una allieva dopo che aveva finito il suo percorso scolastico da più di vent’anni.

«Un po’ sconclusionato e, forse, proprio per questo accattivante nei rimandi caotici per periodo, tematica o riferimento. L’intervista a metà del guado è semplicemente dolce.» (Stefano Martello)


UOMO DI MONDO
di Cristiana Veneri (Urbino)


Cristiana Veneri è nata a Urbino il 1 Aprile 1995, qualche minuto dopo la sua gemella… no, non è un pesce d’Aprile. Cresce, circondata dalle colline del Montefeltro, in un forte connubio tra arte e natura. Studia lettere all’Università di Urbino e poi si specializza in Archeologia all’Università Sapienza di Roma. Due sono sempre stati i sogni nel cassetto: 1. fare la scrittrice, 2. diventare guardia forestale. Questo scritto è, forse, l’incontro di quelle due anime.

«Il titolo è piuttosto criptico (non utilizzato nella sua normale accezione). E poi, chi è Mondo? Lo strano individuo compagno di stanza e di dolori del protagonista? Suo amico? O forse solo protettore? Forse un alter ego?
Tra disquisizioni di cucina e sulla natura delle tempeste, pian piano la storia si dilata fino a comprendere l’universo, quel piccolo universo astronomico che rotea attorno alla Terra – o viceversa.» (Giovanna Passigato)