venerdì 14 marzo 2025

AUTORI E VALORI on line di martedì dal 25 marzo al 13 maggio 2025



La Pastorale universitaria della Diocesi di Vercelli, con la compartecipazione dell’Università del Piemonte Orientale e il contributo di numerosi docenti, torna a proporre AUTORI E VALORI, il ciclo di incontri online dedicato agli studenti universitari e a chiunque ami la lettura e la riflessione sui grandi temi dell’esistenza. L’idea — grazie soprattutto alla partecipazione di docenti, dottorandi e studenti universitari, oltre che di studiosi di varie discipline — è proporre la letteratura e la lettura come vie di riflessione, di ricerca, di trascendenza.

Gli appuntamenti serali cadenzati settimanalmente (ogni martedì dal 25 marzo al 13 maggio) consentiranno ai partecipanti di condividere e approfondire interessi e aspirazioni, a partire dalla riscoperta della dimensione etica di testi scelti dall’opera degli autori selezionati. In questa edizione, insieme a grandi classici del calibro di Beccaria e Dostoevskij, verranno proposti saggi di estrema attualità. È d’altra parte il tema scelto a richiedere tali approfondimenti: l’intento è di presentare il dibattito contemporaneo e la sensibilità crescente sulle misure detentive, sulla necessità del reinserimento sociale di chi compie reati e sull’autentico riconoscimento dei suoi diritti, della sua dignità e della possibilità di cambiamento. A parlarne sono dunque stati invitati anche illustri personalità del panorama italiano, tra cui padre Guido Bertagna, tra gli iniziatori della giustizia riparativa. La rassegna online, la cui partecipazione consente agli studenti riconoscimento di crediti formativi, segue un’esperienza particolarmente significativa: un gruppo di docenti, insieme ad alcuni studenti invitati dagli stessi e dalla Pastorale universitaria, si è recentemente recato in visita alla casa circondariale, come primo passo di una progettualità più estesa di rafforzamento del legame culturale  e sociale con il carcere.


per collegarti: 

martedì 18 febbraio 2025

Poesie che attraversano la realtà

pillola di Enrica Musio



Nel libro di Dante Zamperini Di un respiro sospeso pubblicato da Fara editore, troviamo poesie di ringraziamento alla gioia, alla esistenza, a tutto ciò che ci circonda, all’essenza della vita personale; alla natura, a Dio nella sua grande immensità, nella sua grande luce benefica e curativa, poesie che attraversano la realtà, poesie che ci portano in un viaggio attraverso i pensieri più intimi di un’anima che si scontra con la fede di Gesù, col messaggio cristiano, come ce lo porta papa Francesco.

Un buon libro da leggere che dà da pensare e da riflettere.

Belle le immagini dentro al libro, mi sembra di vedere delle dimensioni pittoriche un po’ alla Dalì e un po’ di stile metafisico italiano.

lunedì 3 febbraio 2025

Su critica, scrittura e cultura

grazie di cuore ad Enrico Macioci e complimenti ad Andrea Temporelli

Sono felice di avere dedicato buona parte di questa domenica casalinga alla lettura di Assist, rovesciate e autogol. La letteratura presa a calci, di Andrea Temporelli (FaraEditore). È un testo che, d’ora in poi, porterò sempre nella mia metaforica tasca, e che rileggerò spesso.

Io non sono un critico bensì un narratore, e Temporelli si rivolge (perlopiù) ai critici e all’atto critico, ma credo che tutti noi che leggiamo/scriviamo dovremmo conoscere questo ardente libriccino, che si fa carico con impudenza e anzi con imprudenza di questioni ciclopiche e perciò spessissimo ignorate.
Qualche giorno fa Richard Ford ha dichiarato di non avere, né lui né nessun altro scrittore americano, la benché minima influenza sulla politica e la vita quotidiana americane. Se non ce l’ha lui, figuriamoci io su quelle italiane. Pure, per circa un anno mi sono sentito in dovere - sbagliando, ma che importa? - di denunciare quella che mi sembrava la palese ingiustizia e incostituzionalità delle misure anti-covid, e specialmente del mitologico green pass.
Faccio questo esempio per dire che, nell’ambito umanistico inteso in senso lato, la logica vale il giusto. A rigor di logica, quasi nessuna delle persone che scrivono dovrebbe scrivere, sia per motivi economici sia per motivi di talento. Eppure le persone scrivono; investono speranze ed energie; sfidano, ciascuno a modo proprio, il successo e il fallimento; bordeggiano con tenacia il senso d'inutilità che la letteratura si porta dietro. La logica, nel nostro ambito, vale come il due di briscola.
Il mio post precedente sul libro di Temporelli ha ottenuto finora sei like e questo non andrà meglio, temo. È vero, non è certo facebook il luogo per imbastire simili discorsi (o forse qualunque discorso); ma per chi, come me e tantissimi altri, non ha molto altro, quale sarebbe in nome di Dio il luogo deputato? E se scrivessi queste note sulla pagina di un giornale esse otterrebbero un credito e una visibilità tanto maggiori? Siamo o non siamo, in effetti, nel tempo della nebulizzazione, dell’atomizzazione e della dispersione? Chi è che oggi possiede una chiara autorità? Per echeggiare Shoshana Zuboff, chi decide chi decide?
Bisogna rassegnarsi, come spiega Temporelli: è un tempo micidiale per esistere in quanto scrittori (e non solo). Ma scrivere è anzitutto una vocazione, più che una scelta. La scelta attiene, in seguito, al tipo di scrittore che vogliamo diventare - e nemmeno sempre.
Forse ciò che davvero oggi manca, dell'esercizio critico, è la funzione di collante fra scrittori e lettori, fra scrittori e scrittori, fra scrittori e scrittori morti (la famosa tradizione). Ma se la critica langue non è tutta colpa dei critici; la colpa è anche dei lettori, anche degli scrittori, anche degli editori. Il sistema viene alimentato ed approvato da tutte le sue componenti, tutti collaborano alla direzione in cui scorre l'acqua e però nessuno, da solo, può minimamente cambiarne il corso.
Qui si annida la trappola, temo. In questo senso di vacuità cosmica, di affollamento e affogamento. È vero, le cose stanno così e cosà, ma io che posso fare? Che posso cambiare? Vale la pena crucciarmi per problemi troppo più grandi di me?
Allora chiudo con un’altra domanda: che cos’è la cultura? La cultura è una visione del mondo, con tutto ciò che essa comporta in termini di frustrazione e difficoltà; forse, risponderebbe Temporelli, la cultura è perfino un autogol.

mercoledì 22 gennaio 2025

Ecco i vincitori del Narrapoetando 2025

Grazie di cuore ai giurati Fabio Orrico, Francesco Di Sibio, Giovanna Passigato, Stefano Martello della sezione Narrativa/saggio (per la Poesia v. qui) del concorso Narrapoetando 2025 per l’attento e appassionato lavoro di valutazione e complimenti ai vincitori!

I class.

TRA QUI E ALTROVE
di Francesco Randazzo (Ronciglione, VT)


Francesco Randazzo, laureato in Regia all’Accademia Nazionale d’Arte Drammatica “Silvio D’Amico” di Roma e in Filologia e Letterature Moderne all’Università “Guglielmo Marconi” di Roma, lavora in Italia e all’estero come regista e autore. Ha pubblicato testi teatrali, poesie (con Fara, Itaca deserta ruggine, 2020, E fu sera e fu mattina, 2024), racconti e quattro romanzi. Numerosi i premi di drammaturgia e letteratura nazionali e internazionali. Sue pièces sono state tradotte in spagnolo, ceco, francese e inglese. Con Graphofeel, negli ultimi anni, sono usciti: I duellanti di Algeri (2019), Il vero amore è una quiete accesa (2021) e Freme la vita. I sogni di Goffredo Mameli (2024).

«Il fantastico sembra essere il sottofondo morale scelto dall’autore per le sue storie, inteso nel senso più ampio del termine. Si va dalla fantascienza propriamente detta all’utopia passando per fiabe dal tono gentile e moraleggiante. Purtroppo, la tendenza a chiudere (ma spesso anche ad aprire) con una nota decisamente patetica inibisce le potenzialità di diversi racconti.» (Fabio Orrico)

«Ironia, tensione, partecipazione all’avventura umana, anticipazione del futuro. Anche nei suoi aspetti più feroci o più inverosimili.
“Ogni vita nasconde una catabasi, immaginata, sognata, temuta, desiderata, è forse un impulso segreto (…) che può essere un’epifania, un richiamo sia alla maturità da raggiungere che al fremito irrequieto della volontà di compiere la propria impresa esistenziale.”
Racconti di solitudine estrema, e, coraggiosamente, anche nell’abisso dell’Alzheimer: forse questo dissolversi nella realtà che conosciamo è uno sfumare verso un’altra, altrettanto reale, seppure sconosciuta.
Racconti anticipatori, come 2063, e per questo terribili.
Racconti ironici come Prima i lombrichi.
Racconti di una predisposizione all’amore: “Vedo soltanto un mare d’argento, nitido e freddo. La barca del mio corpo vuoto scivola e va verso il suo orizzonte del nulla”. E poi la vecchiaia. E altro. Il tutto raccontato con un linguaggio semplice e alto insieme, di una precisione scientifica, in grado di penetrare, coinvolgere e sconvolgere.» (Giovanna Passigato)

«Ci sono temi e generi, tra queste parole, che meriterebbero più rispetto. Più riconoscimento. Non per buonismo letterario ma solo per la stretta contingenza con il presente. Magari questi racconti, questi inizi, non mi sono nemmeno piaciuti, ma meritano una spinta vigorosa in avanti. Soprattutto oggi.» (Stefano Martello)


II class. ex aequo

LA SCUOLA POSSIBILE
di Simone Mazza (Parma)


Simone Mazza vive e lavora a Parma. Insegnante e formatore, coltiva variegate passioni, tra cui scrivere. Ha redatto numerosi articoli per riviste di tecnologia didattica e diversi manuali, fra i quali: The digital storytelling (2018). In ambito narrativo, dopo due raccolte di racconti, ha pubblicato in varie antologie molti testi premiati in concorsi letterari (es. “Il passaggio a livello” in Creare Mondi, Fara 2011) e due romanzi: Memorie di fango (Prospero 2017) e Ci vediamo dopo (Calibano 2021). Nel 2020 pubblica con Fara, Storie con un’altra morale e nel 2023 Se in cielo non ci sono stelle.

«Testo molto interessante, che offre uno sguardo sull’istituzione scolastica negli ultimi anni del XX secolo, e ancora nei primi del XXI, attraverso le esperienze di due modelli innovativi, la scuola di Summerhill, e la Sezione Sperimentale della Scuola Montebello, i quali mostrano il valore di un’educazione che metta al centro la felicità, l’autonomia e la socialità.
Tuttavia, entrambe evidenziano anche la necessità di un equilibrio tra libertà e struttura, tra spontaneità e progettazione. Temi molto sentiti all’epoca. Scritto in modo semplice, chiaro, coinvolgente.» (Giovanna Passigato)

«Saggio elegante, basato sull’esperienza personale di un ex allievo della sezione sperimentale di una scuola elementare. Aiuta il parallelo con l’esperienza anglosassone da cui la sperimentazione prende più che le mosse. Con onestà intellettuale, non vengono taciuti i pregi né i difetti. Tutti siamo stati bambini, quindi chiunque può accostarsi, capirlo e farsi delle domande.» (Francesco Di Sibio)


TRE RACCONTI INQUIETI
di William Protti (Santarcangelo)


William Protti, nato a San Marino, vive a Santarcangelo di Romagna. È appassionato di fumetti e ha impaginato alcuni libri, ultimo dei quali Lo splendore della Verità (Pazzini, Villa Verucchio 2022). Fra il 2015 e il 2018, i racconti Un giorno di follia, La minaccia, Kronin: visioni del futuro e Vera sono stati premiati dai concorsi indetti da Fara. Con Eghena ha vinto il Faraexceslior 2024.

«Nella cornice del genere horror, modulato tante volte quanto è il numero dei racconti trovano posto ipotesi e tendenze legate al genere: dal folk horror al gotico, accostati a temi sociali di bruciante attualità (la violenza sulle donne, per esempio). L’autore è capace di amministrare il citazionismo con grande intelligenza, integrandolo nel racconto e non usandolo come sfoggio di erudizione né come strizzatina d’occhio postmoderna.» (Fabio Orrico)

«Un gioco di specchi coinvolge il lettore immerso nelle pagine del primo racconto. Il filo va tenuto ben stretto per non perdere l’aquilone della storia. Seguono altri due racconti inquieti, da leggere. Bisogna lasciare spazio alla fantasia, per farsi catturare totalmente.» (Francesco Di Sibio)


III class. ex aequo

DIARIO
di Marco Bottoni (Castelmassa, RO)


Marco Bottoni è nato nel 1958 a Castelmassa (RO). Medico di Medicina Generale, scrive per passione dal 1999 racconti, poesie e testi per il teatro. Ha pubblicato il romanzo: Io e Marcellino. Con Fara raccolte di racconti e il testo teatrale Con il titolo in coda (2011) vincitore del premio Martucci Valenzano. È fondatore della Compagnia Buoni e Cattivi che mette in scena i suoi testi teatrali. Ha vinto vari premi (nel 2014 il concorso Insanamente con Tratto da una storia vera (medaglia del Presidente della Repubblica) e il Pubblica con noi 2016 con “Vite in viaggio”). È inserito in molte antologie.

«Bel testo sperimentale, formalmente rigoroso ma narrativamente libero. Dal titolo si evince tono e struttura ma numerose ipotesi narrative vengono parcellizzate all’interno del dettato e restituite prismaticamente, come volti riflessi in uno specchio rotto.» (Fabio Orrico)


Appartengo a te
di Arianna Biscotto (Cervia, RA)


Arianna Biscotto è nata a Campo San Martino (PD) 55 anni fa, sapeva scrivere il suo nome a 3 anni e l’amore per la scrittura e i libri le appartiene da sempre. Lavora in un’azienda che offre servizi alla persona e che le permette di rimanere a contatto con ogni realtà umana. Ha un diploma in ragioneria, ma i numeri non fanno proprio parte del suo mondo, le parole sì.

«Il romanzo breve appassiona fin dalle prime battute, il lettore nuota tra i flutti narrativi e si immerge nei luoghi dove si sposta l’azione. Una fotografa di fama fugge dal suo passato doloroso e incontra il bell’attore turco. La Hollywood turca contagia pure la narrativa. Ce ne faremo una ragione.» (Francesco Di Sibio)


Noir. Dieci racconti
di Robi Cottoman


Robi Cottoman tiene molto alla sua privacy, scrive per passione dalla sua nascita di scrittore che si stima sia da datare attorno all’anno 1999.
Nel mondo letterario è pressoché sconosciuto; nella professione si occupa di termodinamica applicata, circuiti idrodinamici a pressione variabile, pompe aspiranti e prementi, scambi gassosi, microcircuiti ipercomplessi a bassissimo potenziale (non produzione, solo manutenzione). Ha vissuto anche in Nicaragua (brevemente) e in Svezia (più a lungo); parla, legge, scrive e sogna correntemente in italiano, inglese e spagnolo. Nessuno è mai riuscito a scattargli una fotografia e, fortunatamente, non ha mai avuto un incidente mortale. Gli piacerebbe molto riuscire a pubblicare un libro.

«Saranno i tempi che corrono ma "Noir" non indica più solo un genere. Piuttosto uno stile comportamentale. Un timbro operativo. Dieci racconti che parlano di un oggi particolarmente scadente ma non per questo meno seguito.» (Stefano Martello)


Opere votate

Il Gepe e altro
di Giuseppe Callegari (Grazie, MN)


Giuseppe Callegari, nato a Voghera (PV) nel1951, residente a Grazie di Curtatone (MN). Ha tentato di fare il giornalista (iscritto all’Albo dei pubblicisti dal 1979), ma dopo aver scoperto che lavorare per i giornaloni e la tv implicava avere la targa giusta, ha scritto qua e là (anche qualche libro) e ha finito la carriera facendo Il Topone (un tri-settimanale autoprodotto e auto-distribuito). Con la vecchiaia è stato promosso da giornalista e giornalaio. Infatti distribuisce i giornali alle persone che hanno difficoltà ad andare in edicola. Si è guadagnato la pagnotta quotidiana facendo l’insegnante nelle scuole professionali e il più bel voto che ha ricevuto è stato: “mi hai preso la mano quando non la sentivo e non l’hai più lasciata”, una frase detta da una allieva dopo che aveva finito il suo percorso scolastico da più di vent’anni.

«Un po’ sconclusionato e, forse, proprio per questo accattivante nei rimandi caotici per periodo, tematica o riferimento. L’intervista a metà del guado è semplicemente dolce.» (Stefano Martello)


UOMO DI MONDO
di Cristiana Veneri (Urbino)


Cristiana Veneri è nata a Urbino il 1 Aprile 1995, qualche minuto dopo la sua gemella… no, non è un pesce d’Aprile. Cresce, circondata dalle colline del Montefeltro, in un forte connubio tra arte e natura. Studia lettere all’Università di Urbino e poi si specializza in Archeologia all’Università Sapienza di Roma. Due sono sempre stati i sogni nel cassetto: 1. fare la scrittrice, 2. diventare guardia forestale. Questo scritto è, forse, l’incontro di quelle due anime.

«Il titolo è piuttosto criptico (non utilizzato nella sua normale accezione). E poi, chi è Mondo? Lo strano individuo compagno di stanza e di dolori del protagonista? Suo amico? O forse solo protettore? Forse un alter ego?
Tra disquisizioni di cucina e sulla natura delle tempeste, pian piano la storia si dilata fino a comprendere l’universo, quel piccolo universo astronomico che rotea attorno alla Terra – o viceversa.» (Giovanna Passigato)

domenica 19 gennaio 2025

LA CASA DI LINO



All’amico Lino

La casa di Lino aveva qualcosa di sinistro, da palazzotto nobiliare un po’ decaduto. Da una via interna pedonale, in rapida discesa, si arriva a una piazzetta sbilenca, dal perimetro irregolare, lastricata da ciottoli levigati male assortiti. Gli edifici che vi si affacciano, apparivano tutti posti lì quasi a far la spia. Alcuni semiabbandonati, altri abitati ma con le vecchie persiane in legno sempre chiuse o accostate. In questi, la posta giungeva assai raramente. Quando pioveva, abbondantemente, l’acqua defluiva di corsa, a cascata nei gradoni sottostanti. D’estate non c’era vento in grado di rinfrescarla almeno un pochino e, perciò, attraversarla a piedi nudi era impossibile, sempre che non si volesse rischiare di ustionarsi.
Ebbene, dopo questa strana piazzetta, una piccola scala con gradini macchiati portava al pianerottolo della porta d’ingresso. Ora questa, di vecchio legno più che stagionato, recava, uno nell’anta di destra e l’altro in quella di sinistra, due grossi pomi in ottone così ben lucidati che ci si poteva specchiare. Non passava giorno, di qualsiasi stagione, che non fossero strofinati e ristrofinati. Se fosse accaduto un crimine e si cercassero delle orme digitali, sarebbe stato inutile, perché cancellate dallo strofinaccio di turno.
Sulla destra della porta, appesa alla bell’e meglio, una cassetta postale mezzo arrugginita recante uno stemma reale non identificabile. Varcata la porta, subito una ripida scala portava al piano superiore. I gradini, in marmo di Carrara, erano consumati dal tanto andirivieni, un tempo, su e giù e giù e su. La pedata era corta e l’alzata eccessiva, ma lo spazio era quello e, dunque, non si era potuto far di meglio. Però, un corrimano di ferro attorcigliato aiutava nell’impresa della scalata. Oltre un secolo fa i vecchi la facevano più volte in un giorno, senza mai e dopo mai lamentarsi. Erano più forti? Probabilmente sì! Dopo l’arrampicata, che poteva risultare più o meno salutare, a detta di qualcuno, si accedeva a un grande soggiorno a forma di elle. E qui, meraviglia! Sembrava d’essere entrati, come per magia, in una sorta di un museo misto tra una pinacoteca e una raccolta di porcellane e argenti. Le alte pareti erano quasi completamente tappezzate di quadri a olio e di stampe. Tutti i soggetti erano magnificamente incorniciati. Abili artigiani avevano ideato e scolpito pensando felicemente al quadro o alla stampa. La maggior parte dei quadri, di diverse dimensioni, erano veramente stupendi, e altrettanto poteva dirsi di alcune stampe. S’intuiva che non erano stati acquistati per caso e lì appesi senza una logica e un senso estetico raffinatissimo. Si potevano leggere firme importanti, di autori che avevano fatto scuola, per lo piò impressionisti insieme a qualcuno delle avanguardie di fine ‘800 e inizi ‘900. Molte stampe erano antiche, veri pezzi da museo.
Poi, sulle e dentro le credenze ottocentesche, dai pannelli finemente intagliati e istoriati, ogni ben di Dio in fatto di ceramiche, porcellane e argenti. A un primo e superficiale colpo d’occhio, appariva una raccolta tale da poter suscitare invidia al direttore del Victoria and Albert Museum di Londra. Facevano bella mostra di se: statuine, vasi, piatti, tazzine e teiere, insieme a: tabacchiere e portapillole d’argento, e sempre in argento: piattini, piccole caraffe, posate, porta candele, candelabri. C’era, dunque, da farsi e rifarsi gli occhi non dieci ma cento volte. Ovviamente, si poteva ben supporre che ogni oggetto aveva una sua storia personale. Tra l’altro, alcune erano molto interessanti e altre persino misteriose, legate com’erano a personaggi della storia locale e nazionale.
Nella casa di Lino non c’era oggetto, piccolo o grande, che non avesse la sua voce e, dunque, non parlasse, non avesse qualcosa da dire. Tutti erano parlanti, tutti erano da ascoltare.
Dalle finestre di questo soggiorno-museo, il Poeta avrebbe detto: “E quinci il mar da lungi”. Sì, spettacolo assicurato! E per questo: “Lingua mortal non dice / Quel ch’io sentiva in seno”. Perciò, dentro la calda penombra della stanza, senza troppo affacciarsi, non era necessario, ecco il mare blu e azzurro e spumeggiante o specchio d’argento mite e incantato. E da un verone, bello nella sua ringhiera in stile liberty, a perdita d’occhio, quel che questo mare cullava, portava. Così, non lontano, appena al di là di qualche tetto rosso dalle vecchie tegole, riarse e consumate dal sole e dalla salsedine, che si tenevano abbracciate l’un l’altra, il porto con le sue barchette e motopescherecci da quadro naif.
Quel porto che, in un bel mattino d’inizio d’ottobre, aveva visto ammirato e accolto alla fonda, tra una santa e un santo, ben diciotto superbi velieri inglesi. Quel porto che tanti uomini e donne aveva visto salpare e mai più far ritorno, perché così accade quando si cerca fortuna oltre le colonne e l’Atlantico. Quel porto che custodiva, segretamente e gelosamente, ultimi baci, abbracci e lacrime, tante lacrime.
Dalle finestre di Lino, ah quanta e quanta umanità! Piccole storie che andavano sfumando e smarrendosi incontrando e inseguendo l’orizzonte, la sua intoccabile linea.
Se, poi, da questa importante stanza, aprendo una porta, vecchia e cigolante nei suoi cardini antiquati, si entra nella cucina che fu sempre usata, allora l’odore non era salmastro o di rose o di olio per mobili, ma quello delle spezie della bisnonna, del buon fritto di pesce, dell’aglio e del prezzemolo, del sugo di pomodoro, del caffè. È qui che tanta vita quotidiana è stata vissuta intensamente, perché, come si sa! la cucina è la stanza sacra della casa. Infatti, non vi è ambiente più fecondo, parlante, generativo, evocativo, poetico, della cucina, anche perché in una cucina si può cantare, suonare, scrivere, dipingere, sognare.
Qui, dove nascono tutti i pasti, è custodito il primo, fondamentale, valore della vita familiare: la convivialità. È nella cucina che prende forma e sapore la pasta, le torte, i dolci e le prelibatezze delle feste che scandiscono l’umano scorre del tempo che sempre fugge e non si sa mai dove.
In questa cucina, così gravida di materie e corpi, appeso alla parte di fronte, il rame regna, sovrano consumato e lucidato. Narra di ciambelle e budini, di crostate e creme da far leccare più e più volte le dita. Sembra, allora, di vedere bambine e bambini intenti nel gioco d’impastare con l’aiuto della nonna o della zia, e la mamma, di lontano, rammendando, sorridente e contenta. Una finestrella di vetri veneziani colorati, socchiusa, il più delle volte, fa si che vapori e odori vadano a confondersi là, fuori, con la libera aria della via sottostante e della non lontana piazza.
In una cucina come questa, si potrebbe restare anche per un’intera vita.
Lasciando la sacra cucina, però non prima d’aver intinto un boccone di pane dentro la pentola del sugo in lenta cottura, con un ulteriore sforzo, ma ne vale la pena! ci si arrampica per una scala meno ripida della precedente lasciandosi aiutare, ben volentieri, da un corrimano in legno consumato da vecchi e bambini. Giunti al piano, si viene inondati dal buonissimo profumo del lino alla lavanda che avvolge i letti del sonno e del riposo notturno. Alle pareti non più quadri, non più stampe, ma tante, tante foto. Ricordi, tanti ricordi. Così tanti che si accavallano e si confondono, si offuscano, si allontanano. Ed ecco la mamma quand’era bambina, il nonno col panciotto, la bisnonna vestita da sposa, il cugino alla marinara e lo zio balilla, un parente soldato disperso in Russia e un altro ucciso in Abissinia e non da un colpo di fucile ma da una primitiva freccia. Quanta storia appesa e incorniciata alle pareti del lungo corridoio e delle camere da letto.
In fondo, il bagno col lavabo di marmo ingiallito, la vasca con qualche macchia di ruggine, lo specchio con i bordi d’argento. L’odore è quello dei saponi, della schiuma da barba, dei balsami, delle creme. Da una monofora la luce entra per giocare con qualche ombra, mentre nel soffitto un lucernario ruba un quadrato di cielo mutevole quanto lo sono le nuvole nel loro volteggiare come rondini in primavera.
Da una camera da letto, superata la stanza dei libri e della carte varie, della scrivania e della macchina da scrivere Olivetti, camera che ha visto nascite e morti, tramite una scala a chiocciola, si conquista il terrazzo della casa dal quale si può ammirare un infinito paesaggio tutt’intorno, ruotando su se stessi. I tetti, in parte rifatti, tutti a due spioventi, nascondono tante famiglie, e fanno brillare di rosso lo sguardo che si posa per poi andare oltre e oltre ancora. Da questo punto di vedetta, è possibile scrutare il paesaggio di là dalle case e del porto e così mettere l’occhio nel mare che da secoli si sposa con chiunque voglia metter su casa tra le case che s’abbracciano proteggendosi l’un l’altra, d’estate come d’inverno.
Dal punto più alto della casa di Lino, vien voglia di spiccare il volo, mossi dal desiderio di lasciare ogni oggetto al suo posto, ma far navigare per il libero cielo le essenze, gli affetti e i sentimenti. Liberare i profumi e i colori, da spalmare insieme là dove l’alba e triste e il tramonto muore, senza più ferire.
Ma, poi, da questo spazio, tra cielo e terra, si torna nelle stanze, nei corridoi, nelle scale, ed eccoci in ben che si dica nella piazzetta dove, ad aspettarci, troviamo il gatto del vicino al quale regalare un pesciolino, il turista che si è smarrito nei vicoli e nella lingua dei vichinghi chiede indicazioni, il postino stagionale che non trova il numero civico, la rosa in vaso che implora un po’ d’acqua.
E così salendo, si lascia la casa con dentro nella tasca destra un tovagliolino da tea e alcune foglioline di lavanda, per non dimenticare.


sabato 18 gennaio 2025

Parole ponte a Rimini: fotoracconto di Giorgio Iacomucci

Grazie di cuore a Giorgio Iacomucci per l’attiva collaborazione, ad Anteas (in primis alla Presidente Mirca Carrozzo), al Comune di Rimini (in particolare alla Presidente del Consiglio Giulia Corazzi), alla bravura del poemusico Vincenzo Mastropirro e a tutti i partecipanti che hanno donato parole ponte coinvolgenti e stimolanti e ricche di belle emozioni. 




























martedì 7 gennaio 2025

Cura a Fonte Avellana dal 4 al 6 luglio 2025


“Cura” è il tema, proposto da Ilaria Giovinazzo e Giuseppe Moscati, votato e scelto alla Verna  per la kermesse avellanita 2025. Il tema si presta come sempre a molteplici “letture”: naturali, spirituali, (geo)politiche, psicologiche, artistiche, poetiche, musicali, narrative, filosofiche, ecc. Puoi partecipare con una riflessione, una testimonianza, un reading poetico, un racconto, una piccola performance teatrale e/o musicale, un’opera d’arte (che, sentiti i monaci, potrebbe anche rimanere esposta nei giorni della kermesse), un mini laboratorio o altro per un massimo di 15 minuti. Saremo calorosamente ospitati dalla comunità camaldolese nello splendido monastero di Fonte Avellana
Si parte puntuali alle 15:00 di venerdì 4 luglio 2025 per finire alle 16:30 di domenica 6 luglio 2025 dopo aver scelto il tema per la prossima edizione. L’incontro è aperto a tutti, relatori e uditori, credenti e non credenti. È richiesta la presenza per tutta la durata della kermesse per creare un’atmosfera conviviale di attenzione e reciproco ascolto nel rispetto del silenzio del luogo e per staccare dal “rumore” tecnologico e lavorativo quotidiano. Si possono portare libri, cd e altro materiale per vendite/scambi autogestiti e/o per donarli al monastero. Chi suona uno strumento è pregato di portarlo. 
Data la sempre crescente partecipazione, le adesioni saranno accolte in ordine di arrivo.
Per aderire, sei pregato di inviare a info@faraeditore.it entro il 31 gennaio 2025, assieme al titolo del tuo intervento, max 7 righe di autopresentazione essenziale, stringata e simpatica (evitando possibilmente elenchi di titoli e premi e puntando alle cose salienti della proprio cursus umano e professionale) e a una foto.
Il costo totale del soggiorno dalla cena di venerdì al pranzo di domenica è di € 120,00 (€ 100,00 a testa per chi sta camera doppia o a più letti e solo € 90,00 per chi ha meno di 35 anni, ricordandomelo nell'adesione). Se desideri prolungare il soggiorno e/o fare pasti aggiuntivi (ogni pasto in più € 20,00) sei pregato di comunicarmelo, assieme alla sistemazione desiderata (singola o doppia): RICORDA di portare lenzuola e asciugamani. Grazie mille per l’attenzione e ogni bene,
Alessandro
info@faraeditore.it
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giovedì 2 gennaio 2025

“IN PRINCIPIO…” a Cesenatico febbraio 2025

Ritornano per tre mercoledì di febbraio 2025 gli incontri di LETTERATURA E TEOLOGIA a San Giacomo di Cesenatico alle ore 21:00. 

Il tema di quest’anno è

“IN PRINCIPIO…” (Genesi 1-4)


Gli scrittori che ci accompagneranno nel nostro viaggio saranno TOLKIEN, GLÜCK e STEINBECK.
Ti aspetto e… diffondi la voce!
Grazie,



lunedì 23 dicembre 2024

L’ALBERO DI NATALE

Un racconto di Sandro Serreri

Sedeva, tutto solo, sulla panchina alla quale da tempo si era affezionato, perché da questa, per la prima volta, aveva visto l’orologio e ascoltato incuriosito i suoi rintocchi. L’orologio era lì da oltre un secolo, ma lui non lo aveva mai visto prima della sera del 24 dicembre di tanti anni fa. 

Ebbene, seduto sulla sua solita panchina, mancavano tre giorni a Natale, non aveva tardato a notare che le lancette dell’orologio erano ferme, che insolitamente era privo di decorazioni natalizie e che il vicino lampione, anche lui lì da oltre un secolo, quello che gli faceva compagnia e lo illuminava, era spento. Inoltre, notò che nessuno passava, né a piedi né in bicicletta, per la piccola piazza a lui tanto cara. 

Uno strano silenzio avvolgeva tutto, strano perché, non lontano, c’era una via che nei giorni di Natale era molto animata e chiassosa a causa di alcuni negozi molto popolari per l’acquisto dei regali natalizi.  


Tutte le sere, rincasando, sostava sulla panchina giusto il tempo per ascoltare qualche rintocco di quarto o di mezzora, ma anche per riposarsi dalla fatica di dover tornare a casa.

E proprio quella sera, non avrebbe voluto tornare a casa per così tanti motivi che il solo pensiero gli aveva provocato un fastidioso cerchio alla testa. 

A casa, come tutti gli anni, ancora non aveva fatto l’albero e sulla porta non aveva appeso la ghirlanda che ogni anno cambiava colore. Dentro di sé si sentiva molto triste e questa tristezza lo aveva reso incapace di reagire alla annuale, forte tentazione di non festeggiare il Natale. Ma anche quella sera doveva rientrare a casa e non poteva fare diversamente.


Stando così seduto, immobile, con lo sguardo fisso sul quadrante dell’orologio, improvvisamente fu attratto da una luce bianca che, dietro la sagoma metallica del contatempo fermo, andava aumentando d’intensità sino a illuminare quasi tutto lo spazio della piazzetta. A quella vista si stropicciò gli occhi alcune volte col risultato non solo di continuare a vedere, ma anche di lasciarsi incantare da quel fenomeno che giudicò essere una magia o un miracolo. Ma come la luce perse la sua intensità, ecco apparire un bambino. Gli andava incontro a piccoli passi. Aveva i capelli color carota, vestiva di verde e di blu, sorrideva e calzava delle buffe pantofole a forma di testa di alce. 


Giunto che fu a pochi passi da lui, che sbigottito si era alzato in piedi e aveva tirato su il bavero del cappotto tenendolo stretto e premuto sulla gola come per proteggersi, il bambino tese la mano destra e disse: “Ciao David! Io sono Alfred!”. “Come sai il mio nome?”, gli domandò, quasi balbettando. “Oh, io so tante cose di te!”. “Tante, tante cose di me?”. “Sì! So che hai cinquantun anni, che da ventitré fai un lavoro che non ti piace, che odi tornare a casa, che sei quasi sempre triste e che anche quest’anno non hai ancora addobbato l’albero di Natale”. 

David non credeva alle sue orecchie. Era tutto esatto. Tolse la mano dal bavero, la porse verso il bambino e gli domandò: “Ma tu chi sei?”. “Te l’ho già detto, sono Alfred!”.


Così dicendo, con un gran sorriso, si sedette sulla panchina, e in quel preciso momento gl’ingranaggi dell’orologio ripresero a funzionare, le lancette ruotarono e per tutta la piccola piazza riecheggiarono 1, 2, 3… 7, 8, 9 rintocchi, forti e solenni. “Le 9 della sera”, pensò David, seduto al fianco di Alfred. Ma le sorprese non finirono. Dopo il nono rintocco, il lampione tornò a emettere la sua luce quasi giallognola. L’orologio, illuminato come non mai, si vestì a festa: la corona dell’Avvento sul tettuccio del quadrante e ghirlande di pungitopo dal collo ai piedi della sagoma.

Questa volta David non credeva ai suoi occhi. Rivoltò al bambino, che avrà avuto dieci o undici anni, gli domandò: “Dimmi: è tutto vero quel che sto udendo e vedendo o tu sei, semplicemente, un sogno?”. “Tutto, tutto vero, verissimo!”, gli rispose pimpante. “Che cosa vuoi da me?”, allora gli domandò David alzandosi in piedi di scatto. “Che tu venga con me!”. “Con te? E dove?”. “Vieni con me e vedrai!”. 

Alfred lo prese per la mano sinistra e i due si avviarono lasciandosi alle spalle la panchina, l’orologio, il lampione, la piazzetta. 


Accompagnato e tirato per mano da Alfred, David non sapeva altro che dirsi, se non: “Sto sognando! Sto sognando!”. 

Alfred fischiettava un motivetto natalizio mentre davanti a loro, passo dopo passo, la via si liberava e usciva da una sorta di nebbia per mostrare sempre più chiari i contorni di edifici, tetti, vetrine, lampioni, aiuole, cassonetti, scale, portoni, e si animava di gente ben vestita che entrava o usciva dai negozi o dalle case, di bambini a seguito delle loro mamme, di fattorini in procinto di consegnare pacchi di tutte le dimensioni. 

David, cammin facendo, ebbe l’impressione di riconoscere alcuni particolari, come insegne di negozi e uffici, provenienti dal suo passato ma, allo stesso tempo, era altrettanto sicuro di percorrerla per la prima volta. 

Dopo essere passati davanti a una pasticceria, sul marciapiede antistante si era formata una piccola fila di signore e signori in attesa del loro turno d’ingresso. Ed ecco, al centro del largo della via, ergersi maestoso in tutta la sua bellezza di decorazioni e luci variopinte un alto albero di Natale. Quasi sotto i suoi addobbati rami, un gruppetto di ragazzini e ragazzine, disposti a semicerchio, cantavano una canzone che chiedeva pace e tanta neve. 


David e Alfred si fermarono a contemplare l’albero e ad ascoltare il bel coro. “Lo riconosci?”, gli domandò Alfred dopo aver fatto due passi avanti e averglielo indicato con un gesto della mano. “Dovrei?”, gli rispose David guardandolo con occhi smarriti. “Sì! Lo hai fatto tu, con i tuoi fratelli e sorelle!”. David ci pensò un pochino prima di dire, con tono scocciato: “Io non ho né fratelli né sorelle!”. “È vero! Li hai tutti allontanati e abbandonati alle loro vite!”, gli rispose Alfred con manifesto tono di rimprovero. David non ebbe il coraggio di replicare e chiusi gli occhi, come per sfuggire alla realtà, ricordò quando con i fratelli e le sorelle, bambini e adolescenti, durante i giorni della novena di Natale si dedicavano, su commissione, ad addobbare alberi di Natale in case private, edifici istituzionali, negozi e piazze. In quest’arte l’intera sua famiglia eccelleva ed era nota in tutti i vicini villaggi e in tutta la regione. L’avevano eredita dal nonno e dal padre, arredatori e decoratori. 


Alfred, dopo un attimo di esitazione, lo lasciò solo con i suoi ricordi e pensieri e, in punta di piedi, si allontanò.

Poco dopo, David si sentì picchiettare sulla spalla: “Giovanotto, la stavo aspettando per le nove di questa mattina. Perché è ancora qui?”. Un’anziana signora, avvolta da un lungo cappotto con il collo di volpe argentata, lo osservava con volto risentito nell’attesa di una sua risposta. Allora, si rese subito conto di non essere più il lui di adesso, ma quello di tanti anni fa, quando, con gran divertimento, dirigeva, essendo il primogenito, la squadra dei fratelli e delle sorelle negli addobbi natalizi di alberi, ma anche di ingressi di abitazioni e di soggiorni familiari. L’anziana signora, spazientita dal suo silenzio, gli domandò, per la seconda volta: “Perché è ancora qui?”. Alfred giunse giusto in tempo per toglierlo dall’imbarazzo del non avere una risposta. 

Lo prese di nuovo per la mano e gli disse: “Andiamo! Devi vedere e ascoltare altro!”.


Ed ecco che, come per magia, l’albero, il coro, la via, i negozi, l’andirivieni, non c’erano più. Al loro posto una stanza color verde pistacchio dove un uomo, seduto su una poltrona dall’alta spalliera, davanti a un camino dove ardeva un fuoco di legna scoppiettante, tossiva ripetutamente sforzandosi di dire parole che a mala pena riuscivano a uscire dalla gola. Quest’uomo, lo riconobbe, era il padre, ormai vecchio e molto malato. David ricordò la sera durante la quale, dopo aver cenato insieme, padre e figlio si erano messi a tirar somme sulla loro famiglia dove, ormai da alcuni anni, regnavano divisioni e ripicche. Il padre, rimasto vedovo da oltre un anno, aveva più volte tentato di incollare i “vari cocci”, ma non era riuscito nella difficile impresa perché tutti i figli, soprattutto il primogenito, lui, David, sapevano solo gridare le loro ragioni senza mai intavolare un vero dialogo. Quella sera David, nonostante la ripetuta richiesta del padre, non aveva voluto riconoscere le sue responsabilità e, soprattutto, il suo orgoglio ferito e dolorante. In questa occasione, il padre aveva rinunciato a farsi promettere da David che dopo la sua morte avrebbe fatto di tutto per costituire una Società senza escludere nessuno dei fratelli e delle sorelle. Qualche giorno dopo i suoi polmoni cessarono di respirare e la sua famiglia rimase divisa dopo aver preso ognuno la propria parte e la sua strada.


Dopo aver rivisto e rivissuto la triste morte del padre, il tempo in un solo secondo tornò al presente e Alfred, con sguardo pensieroso, gli domandò: “Sei dispiaciuto? Sei pentito?”. Ma non fece in tempo a rispondere, che si trovò in un’altra stanza alle cui pareti erano appese pentole, tegami in rame, piccoli cesti in vimini, vecchi piatti d’epoca. La riconobbe, quasi subito: era la assai vissuta cucina della sorella Margareth. 

Margareth, secondogenita, era stata la sua sorella preferita. Molto simile a lui per carattere, dopo la morte del padre, si erano accordati nel tentativo di rappacificare gli animi, di fugare le controversie familiari, di cercare e trovare possibili compromessi. Ma l’orgoglio di alcuni di loro e le cattive intromissioni di parenti chiacchieroni avevano vanificato tutti i loro sforzi, tutte la loro buone intenzioni. Da ultimo – il Diavolo, si sa, ci mette sempre la coda! –, per una parola fuori posto e male interpretata, anche loro due si divisero e allontanarono per sempre. 

Sul tavolo fumava la crostata di ciliegie appena sfornata da Margareth. Era la sua crostata preferita. La sorella, con calma e sorridente, tagliò una prima e poi una seconda fetta. Quindi, diede la prima a David, accompagnandola con un invito: “Dai, addolcisciti!”. 

David a questa scena si commosse ed ebbe come un brivido. Poi, il tutto svanì come nebbia al sole. 


Si ritrovò davanti al grande albero di Natale, senza più il coro, ma il va e vieni di numerose persone con pacchi e pacchetti natalizi, buste della spesa e bambini che si rincorrevano qua e la. Accanto a lui Alfred canticchiava: “Astro del ciel…”. E dal cielo di grigio chiaro cadevano piccoli fiocchi di neve. 

Ora, non resta che un’ultima stanza!”, disse Alfred a David prendendolo ancora una volta per mano. E così, dopo avergli stretto forte la mano per tre volte, i due si trovarono dentro una stanza celeste pastello e nel chiarore di una luce soffusa. Era il soggiorno della casa di David. Come accadeva ormai da anni, non c’era l’albero di Natale e nessuna decorazione natalizia. Solo un bel fuoco nel camino, in un angolo della stanza, emanava un calore assai piacevole. David stancamente vi si sedette davanti e così pure Alfred. Stettero in silenzio, senza dire una parola, con le mani aperte e tese verso le fiamme danzanti rosso-arancio. 

Che ne dici se facciamo insieme l’albero?”, domandò David ad Alfred. “È proprio quello che mi aspettavo di sentire!”, gli rispose sfregandosi le mani. Allora David portò dal sottoscala diverse scatole colorate, piccole e grandi, e un albero che sembrava quasi vero. 


Ecco, bravo! Torna a fare l’albero di Natale e poi vedrai che tutto il resto verrà!”, gli disse Alfred mentre lo aiutava ad addobbarlo. E così i due si misero al lavoro e in meno di un’ora l’albero fu terminato. L’accensione delle luci David la riservò ad Alfred, che ne fu molto onorato e che per la tanta felicità a lungo batté le mani facendo un girotondo attorno all’albero. Anche David si unì ad Alfred in una manifestazione di gioia incontenibile battendo le mani e seguendolo nel girotondo. Fuori si udiva cantare un coro di adulti e attraverso i vetri delle finestre si vedeva cadere la neve sempre più abbondante. 

Mentre si stavano dedicando a meglio sistemare le decorazioni del camino, un forte suono di campanello sorprese i due facendoli tremare. “Chi può essere a quest’ora?”, disse David attizzando la legna che ardeva rubiconda. “Vai, vai, presto!”, gli rispose Alfred spingendolo verso la porta d’ingresso. Aperta la porta, dopo due giri di chiave, si trovò davanti la sorella Margareth con il marito e i due figli. “Abbiamo saputo che dopo tanti anni hai fatto l’albero di Natale. Possiamo vederlo?”, gli domandò la sorella con voce commossa. David non riuscì a trovare nessuna parola, ma tirò verso di sé Margareth e l’abbracciò forte forte piangendo. I due, abbracciati, piansero insieme. “Come siete diventati grandi!”, disse rivolto ai due nipoti ormai adolescenti e invitando tutti loro a entrare. “Sì, ho fatto l’albero, ma non da solo. Mi ha aiutato Alfred, un bambino che…”, disse entrando nel soggiorno. Ma Alfred non c’era. “Dov’è andato a finire?”, pensò tra sé guardandosi intorno. Al suo posto, una candela rossa accesa che emanava un delicato profumo di cannella e le pantofole a forma di testa di alce. 


La legna nel camino ardeva e si consumava scoppiettando con tanta allegria, le luci multicolori dell’albero si accendevano e spegnevano al ritmo di una musica natalizia, tutta la stanza cantava e annunciava: Buon Natale a tutti! 

Attorno all’albero si presero per mano un po’ impacciati, guardandosi l’un l’altro. “Oh David, è bellissimo!”, gli disse Margareth e poi, in coro, il marito e i figli. “Sì, è bellissimo – rispose –,  ma ancor più bello è che voi tutti siate qui. Grazie! Vi voglio bene!”. 

Da una scatola natalizia la sorella estrasse delicatamente la crostata preferita da David, quella di ciliegie, che posò sul tavolino davanti al fuoco sempre più danzante. 

Seduti l’uno accanto all’altro, gustando la crostata, David e Margareth si guardavano con amore ritrovato. 

Il resto verrà!””, gli disse lei. “Sì, il resto verrà!”, le rispose lui.