Marco Serra Tarantola Editore, Brescia, 2007
recensione di Vincenzo D'Alessio
La serie di quattro racconti, accomunati dalla presenza di una caverna del tutto particolare, costituisce il percorso di scrittura di Enrico Gandolfini, bresciano per nascita con radici meridionali
Precedono quest’ultimo libro altri due pubblicati presso lo stesso editore: nel 2005 Il viaggio e nel 2006 Nitrato d’argento. Questi due lavori risultano in gran parte autobiografici. Quest’ultimo invece è orientato all’interno di un percorso storico, antropologico, misterico. Si arricchisce di belle tavole illustrate da Nicolò Bertoglio.
La meridionalità del Nostro emerge nel primo episodio, quello di Dahbal, dove si racconta dell’avventura di Annibale e del suo poderoso esercito che valicò le Alpi, intorno al 218 a.C., scendendo fino a Capua e raggruppando intorno a sé tutte le popolazioni italiche che mal sopportavano il dominico di Roma. Questa vicenda è ancora presente nella memoria collettiva della gente meridionale, sia per la saga eroica che seguì alle varie battaglie, sia per il senso di libertà che pervase allora, come pervade oggi, le popolazioni che mal sopportano il dominio di Roma.
La vicenda di questo guerriero scaltro e poderoso ha diverse similitudini con il primo libro del nostro, Il viaggio, dove un padre racconta, come in un sogno, le vicende che hanno segnato la sua lunga esistenza al figlio, che ascolta ponendo sul finale le proprie domande.
La presenza della grotta nei quattro episodi, oltre a richiamare nei termini filosofici la grotta della conoscenza descritta da Platone nel suo lavoro La Repubblica, rappresenta la formazione dei valori dalla semplicità alla complessità nella trasmissione alle generazioni future.
La grotta è anche, nel caso singolare dell’Autore, un retaggio della propria infanzia passata a Marina di Camerota, nei pressi di Palinuro, dove effettivamente esistono delle grotte naturali abitate durante la Preistoria, ricche di presenze archeologiche e soffuse di magia.
Il rifiuto della violenza, della guerra, della distruzione, costituisce un forte richiamo all’attualità, alla durezza dei nostri tempi, dove, in nome dell’economia si continua a uccidere e a fare guerre.
Si leggono in questo modo le pagine del racconto ispirato alla seconda guerra mondiale, dove il personaggio, il tenente Rudolf Koellner, si districa in una vicenda ricca di accadimenti drammatici legati alla presenza ebraica nel conflitto.
Gli altri due racconti, Ambra e Moly e Naga, sono più vicini agli affetti, ai sentimenti, quei sentimenti che la società contemporanea ha completamente allontanato dal fare quotidiano. Non si muore più per amore di una donna, né l’onore di lottare contro una forza naturale fanno parte della vita vera. Il denaro ha preso il posto di tutto i miti, dei sentimenti, della memoria collettiva. Oggi i giovani sono avvinti dai generi di consumo, dall’appariscenza degli abiti firmati, dai giochi suo videotelefonini e sul computer, dalle play-station portatili.
L’orso, animale violento e solitario, emerge dall’oscurità della caverna a dominare e proteggere gli esseri umani che vi si avvicendano in diverse epoche storiche: esso non è più il nemico peggiore dell’uomo, diviene il compagno dei deboli, il protettore degli ultimi. Si invertono i termini della realtà. Il forte è chiamato a proteggere il debole. Solo nel racconto di Moly e Naga ritorna la forza violenta della sua natura.
I quattro racconti si legano come tessere di un mosaico nel quale l’umanità sofferente emerge e vuole essere ascoltata, dove la Storia è solo l’occasione per riappropriarsi dei ruoli collettivi che l’economia struggente di questo ventunesimo secolo ha fatto scomparire.
Luglio 2008
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