1943: sono un soldato italiano in Montenegro, il rumore degli spari copre le grida dei miei pensieri fino a quanto sento un cupo boato e, subito dopo, un insopportabile caldo al collo. Me lo tocco e, quando guardo, la mia mano è piena di sangue. Mi fasciano e mi trasportano in un’improvvisata infermeria, dove un dottore alto e asettico dichiara che non si possono estrarre le schegge e che me le dovrò tenere come ricordo del servizio alla Patria. Passano i giorni, arriva la notizia che il maresciallo Badoglio ha firmato l’armistizio, ma il mio sospiro di sollievo si trasforma in un groppo in gola quando un capitano tedesco ci chiede di continuare a combattere con loro. Pochi accettano, io e molti altri siamo caricati in vagoni per il bestiame e viaggiamo per giorni e notti. Qualche volta ci fanno scendere per i nostri bisogni, ma la maggior parte ha già provveduto nei vagoni stessi. Poca roba, visto che non ci danno né da mangiare, né da bere. Un sole pallido ci accoglie quando arriva l’ordine di scendere e veniamo convogliati in baracche di legno che non hanno le finestre. Credo di essere in Germania, ma non ne sono sicuro, vedo solo il nero della miniera di carbone in cui lavoriamo diciotto ore al giorno e il buio della baracca. Vedo i miei compagni morire di fame e di stenti, assaggio una brodaglia schifosa chiamata rancio e le mie mani scavano nelle immondizie alla famelica ricerca di bucce di patate. Chiamo la morte, come feroce giustiziera dell’annientamento dell’uomo, cerco addirittura di darle una mano, ma è troppo impegnata e non riesce a esaudire il mio desiderio.
di Giuseppe Callegari, figlio di Luigi, detto Gino, deportato in Germania dal Montenegro
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