domenica 10 ottobre 2010

Lettera a una professoressa nel nord


Cara Giovanna,

ho scritto questa lettera, prima a mano nel mio quaderno, poi con il computer. Ho voluto rispondere al tuo accorato appello sull’identità che hai assunto, oggi, che sei stata costretta a partire per il nord della nostra penisola; lasciandoti dietro  i tuoi morti, la casa che avevi in fitto, il resto della tua piccola famiglia. Ti sei laureata, ed è per questo che lasci questa nostra terra del Sud, dove la nostra identità di filosofi è vista con disprezzo, se non con odio. Nella nostra terra, il rapido passaggio alla cultura dell’industria, ha causato non pochi danni. Aggiungi anche il dolore immenso causato dal sisma del 1980, che ha cancellato gran parte di quello che eravamo, alle radici.
Hai ragione, quando dici, che sei in continua lotta con te stessa: restare definitivamente al nord?  Per molti che ci hanno preceduto ha significato cambiare abitudini alimentari, modo di vestirsi, modo di guardarsi negli occhi. Noi eravamo contadini fino al 1970: grande distese di grano, patate, pomodori, cipolle, agrumi; galline e galli nei pollai; pecore sulle colline e mucche sulle montagne; castagne e nocciole; vino e olio; granturco da conservare e fieno nei sottotetti. Quanto è durata questa generazione? Hanno superato guerre ,malattie  e terremoti. Si schiantavano di fatica morendo nei loro letti con il morbo di Parkinson. Fumavano il trinciato forte. Eppure, credimi, non li ho mai visti scoraggiarsi come capita a noi di questi tempi. Declinavano la loro età con le stagioni. Morivano, anche giovani, circondati da una schiera di figli e nipoti. Oggi si muore da soli negli ospedali o negli ospizi. 
L’emigrazione c’è sempre stata, da noi, a Sud. Specialmente in America. Ma una cosa posso dirti con certezza: questo non è un racconto, è memoria viva. Sì! Perché le case dei contadini sono rimaste, senza porte, con i tetti sfondati, le stalle vuote, ma sono proprio lì, dove io e te le abbiamo viste cariche di voci e di figli. Gli alberi da frutto fanno nascere ancora le prugne e le pere. I rovi non sono riusciti a fare bene il loro mestiere. La terra è una madre generosa, qui  a Sud. Mi accorgo, però, che sto dilungandomi troppo sul filo della memoria e non ti ho offerto nessuna soluzione, a te, più giovane e più viva, che sei dovuta partire in silenzio per il nord, dalla provincia di Avellino.  
Sinceramente vorrei spostare il sole, che abbiamo qui, dove adesso vivi tu. Dipingere dei colori di questo mare, azzurrissimo,  e dei suoi profumi le rive dei fiumi che scendono verso il fiume Po. Organizzarti una serata, con le tammorre e le voci dei nostri contadini sulle aie, nelle piazze gelide delle città del nord. Vorrei che questa allegria meridionale ti accompagnasse, con tutta la sua passione, nelle giornate d’inverno e di nebbia. Vorrei che questa melodia, che ci ha accompagnato per anni, vibrasse nelle strade quando a bordo della tua auto conduci tuo figlio a scuola e poi entri nella tua classe ad insegnare. Insegnare che siamo uomini di una sola penisola, disgraziata per le sue diversità: un Sud che pesa per mancanza di lavoro e un nord che lavora alacremente. Le braccia del Sud hanno costruito il nord. Le menti del Sud hanno educato gran parte degli uomini del nord. Le voci del Sud hanno dato il meglio della loro vita per generare armonia là dove il freddo dell’indifferenza cancella ogni calore.
Cara Giovanna, non provare rancore per questa nostra terra, mortificata dai politici che ti hanno negato il posto di lavoro, perché non ti sei piegata a loro. Oggi il dolore di vivere a distanza ti permette di vivere la libertà delle tue idee, quelle che hai  professato nel nome della Cultura. Il mio augurio sincero è che tu scelga, dovunque poggerai il capo la sera, di addormentarti serena sapendoti meridionale e libera di esprimerti.
Con affetto,                                              

Vincenzo e famiglia

Nessun commento: