A Torino con Lampedusa
Non vorrei scrivere qualcosa d’inutile. Forse è questa stessa volontà a renderlo inutile. Ma è una volontà che ha occupato tante mie notti e tanti sogni. Tuttavia persino dire “mie” mi ha fatto trepidare per un istante. Con quale autorità, mi sento libero di scrivere di qualcosa che ha così poca consistenza?
Con la mente torno spesso a quel periodo tra i miei diciassette e diciotto anni. L’ho ripercorso in racconti più di una volta. Torno ad un appartamento in Piazza Vittorio a Torino, sul lato sinistro venendo da Piazza Castello. Ci torno con nostalgia e dolore, come succede quando sono a Torino: è successo molto lì, e molto altro che sarebbe potuto succedere e non è mai stato. Entrambi ancora sopravvivono in me, in qualche modo, anche quando viaggio o cambio casa.
Vorrei tornare da Gemma, questo desiderio ho sentito molte volte. Eppure ricordo poche cose di allora, di quel periodo durante l’ultimo anno di liceo; andavo da lei per fare ripetizioni di greco e latino.
Mi aspettava di solito, una volta uscito dall’ascensore con l’interno a specchi, da cui mi spiavo — la mia espressione e i vestiti del giorno, come mi avrebbe visto tra poco — al balcone che dava sull’ombroso cortile interno, appoggiata con gli avambracci sulla ringhiera, davanti alla porta dell’appartamento, fumando.
Fumava, mi aveva detto, poche sigarette al giorno, e come lo faceva dava l’aria che fosse un piacere rubato o una concessione. Era quasi sempre l’odore forte della sigaretta appena fumata, oppure un lontano ricordo, come di qualcuno che ha fumato nella stanza due giorni prima. Prima della lezione portava di là il posacenere. Viveva sola, del resto – di tanto in tanto qualche giovane si palesava, uno con cui studiava spagnolo, e bussava o entrava direttamente perché, specie d’estate, lasciava la porta semi-aperta.
La casa sapeva di mobili vecchi e di fumo, di libri consunti dal tempo e da pochi occhi, classi di studenti. La scrivania bianca nello stretto studiolo in cui traducevamo le versioni si reggeva sopra due semplici cavalletti di legno chiaro. Appesa ad una parete, a lato, c’era il manifesto di un film di Totò; un’alta sedia in vimini stava nel salotto, poco lontana dalla cucina, dietro. Da lì la immaginavo ascoltare la radio, che “mi tiene tanta compagnia”. L’appartamento era di pochi metri, buio appena si entrava. Le librerie spartane, fatte di aste di ferro.
La luce era riparata dai tetti; la distesa della piazza rovente, e l’ampiezza dei portici, i corridoi di lastre sconnesse da cui provenivo; il Po’, rigato dai ricami del ponte verso la Gran Madre, lo spiraglio di verde delle colline.
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Aveva un problema alle mani che le faceva gonfie e grasse, una in particolare. Ma le muoveva veloci, delicatamente, quando mi spiegava qualcosa, come se nulla fosse, e questo le rendeva ancora più affascinanti: soprattutto quando parlava di una qualche guerra e imitava la corsa di questo o quest’altro esercito, con l’impaccio che le faceva risaltare, i capelli agitandosi che seguivano la marcia.
A chiuderla, sul polso, indossava uno Swatch, uno nero o uno di un verde fluo, un colore molto acceso. Si vestiva in quella maniera, un’eleganza funzionale e con colori del genere, rossi vivi, uno stile un po’ ribelle, forse retaggio del post-’68? così pensavo; solo a volte totalmente di colori scuri e più tiepidi.
Aveva una folta chioma grigia di riccioli soffici, che si spostava sopra la sua testa mentre parlava o si animava; una sottile pappagorgia, gli occhi leggermente ovini; il suo volto era molto espressivo. Diceva subito, con gli occhi o in modo affettuoso ma schietto, quello che pensava. Se dicevi una cosa platealmente sbagliata, specialmente se per distrazione, si innervosiva in fretta. Ma spesso si limitava a degli scappellotti di incoraggiamento, col sorriso, con una confidenza che non avevo mai sperimentato da una persona adulta e sconosciuta.
La sua didattica era la sorpresa, per esempio nel trattenerti sulle spine con un beffardo scrutarti per qualche istante.
Era questo modo di porsi, dedito e accogliente, sin dalla prima volta; umile nonostante la differenza di età e sapere, estrema. Se fossi stato una zucca vuota e un fannullone me lo avrebbe detto in chiare lettere, ma non per questo avrebbe smesso di darmi ripetizioni. Del resto, per qualche motivo nei confronti della pigrizia sembrava lasciar correre con più indulgenza.
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C’erano dei luoghi della passione di cui mi incoraggiava a parlare. Quello che avrei fatto, se sarei uscito, quello che mi appassionava; qualsiasi cosa fosse. Non che si soffermasse lungamente, ma non mancava di farmi simili domande. Quando tornato dalle vacanze estive, le dissi che avevo amato Il piacere di D’Annunzio, si era accesa, mi aveva detto che non dovevo tenermi queste cose per me, no, tutt’altro, e che dovevo avere una certa sensibilità.
Mi aveva accennato della sua passione, in quel periodo, per i romanzi di Javier Marìas, specialmente Domani nella battaglia pensa a me. Leggeva in spagnolo, che allora studiavo anche io, lamentandosene, per la fatica, ostinata; e per leggere qualsiasi cosa si chinava a pochi centimetri con gli occhi dalla pagina.
Un giorno mi affidò una sua copia del Mastro-don Gesualdo, raccomandandomene la lettura. Dopo alcune settimane, capito che non avrei fatto in tempo a finirlo, mi invitò a restituirglielo.
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La mia tesina per la maturità, decisi che avrebbe dovuto essere sul romanzo di Tomasi di Lampedusa, Il Gattopardo; mi era capitato di leggere un articolo su questo sconosciuto – l’incontro mancato con Marguerite de Yourcenar – su un inserto culturale della domenica.
Nella pagina del giornale in una foto in bianco e nero, sedeva, consumato, elegante e pettinato, anziano, in un vestito chiaro, col farfallino, il volto teso a sua volta verso un giornale spiegazzato tra le gambe e lo sguardo vivo alla camera, sorriso di maschera paziente, muta.
Me lo ricordo anche in un’altra foto da giovane – nella copertina del cofanetto delle Opere, che mi fu regalato più tardi – infossato, quasi sdraiato su una poltrona di pelle, già pingue, i baffi sottili, con un libro in mano, le gambe incrociate a formare una specie di quattro. Sempre impomatato e lucido. Un’altra, che usai sul fascicolo della tesina, con lo sguardo perso sopra il tavolino di un caffè, di profilo, tra carte, l’immancabile sigaretta tra le dita.
Avevo letto un po’ tutto quello che avevo potuto raccogliere oltre al romanzo, che avevo all’inizio in una versione ridotta per ragazzi: i racconti, le lettere spedite dal Regno Unito e da Parigi negli anni ’30, ai fratelli Piccolo e a famigliari (firmandosi “il Mostro”). Il resoconto di Francesco Orlando sul suo rapporto con lo scrittore. Un recente saggio di critica. Un mio compagno di classe viveva in via Bertola – poco lontano dalla scuola – dove, al numero 18, aveva alloggiato anche il “senatour” Rosario La Ciura, il grecista de La sirena.
Gemma accolse la mia venerazione per Lampedusa come qualcosa di scontato e al contempo come sorprendendosi che quella potesse essere una scoperta: lo rileggeva, mi disse, ogni due o tre anni.
Mi fece notare – come amici le avevano segnalato – la somiglianza dell’incipit del romanzo con quello dell’Ulysses di Joyce (di cui mi rimangono gli “yes” ripetuti nel finale); avevamo parlato di umorismo (Lampedusa aveva sempre sul comodino una edizione del Circolo Pickwick di Dickens – o basta aprire a caso le lunghe, “grasse” lezioni di letteratura inglese e francese). Come rileva Javier Marìas, visse il sogno di ogni scrittore, ovvero essere fino alla fine inconsapevole di esserlo.
Un giorno le portai un articolo del suo Marìas – che scoperta! – proprio sul libro di Lampedusa, che stampai appositamente. Non lo conosceva. Si intitolava “Odiar el Gatopardo” (riferimento al passaggio memorabile delle estreme riflessioni del Principe di Salina durante la scena del ballo) che divenne altrettanto il titolo della mia tesina. Alcune settimane dopo, mi rese l’articolo, dicendomi che aggiungeva poco rispetto a quello che già si sapeva sul conto del romanzo.
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Nella prima delle otto parti del Gattopardo, l’episodio della passeggiata del Principe nel giardino portatore di oscuri presagi, con il cane Bendicò: da un angolo del giardino tuttavia, emanando un profumo “infantile” – “l’oro di un albero di gaggìa intrometteva la propria allegria intempestiva.”
“Gli spettri del passato” di Concetta, nella ottava ed ultima parte. E quel “sempre” ripetuto tre volte, nella sesta (durante la scena del ballo).
Ci si può accorgere di essere vivi a diciotto, a ventotto, passati i sessanta anni quasi. Forse è l’ammirazione che produce capolavori, l’invidia o la frustrazione che si ritorcono in nostalgia dell’ineffabile e in desiderio di libertà, lo sguardo che ritorna bambino. Incenerimento della presunzione.
Gente che, appunto, si crede il sale della terra.
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Nel retro della mente, ci sono sempre stati quegli anni in cui vagheggiavo con l’idea di diventare uno scrittore. Volevo diventarlo. Oltrepassando i cancelli del Palazzo Reale, come nel primo racconto che scrissi in quello stesso periodo, immaginavo Castore e Polluce scendere dalla cancellata con i loro cavalli imbizzarriti, correre via tra tetti e cupole. Quel racconto, terminava nel teatro Regio a pochi passi con un bacio trionfante, sotto le note dell’“Habanera” di Bizet: “L’amour! L’amour!…”
C’era qualche cosa, nella vita cominciata cinque anni prima trasferitomi a Torino per il liceo (per chi viene da un paese di provincia, un tratto breve di tram è un viaggio completo), come di una quotidianità consolidata e continua: una concretezza delle cose, delle persone e dei luoghi, delle vie, dei negozi frequentati… ma inconsapevole – e che non sarebbe stato mai più: ora lo ritrovo, ma è subito la sensazione che passerà, che è illusorio.
"Come era possibile infierire contro chi, se ne è sicuri, dovrà morire?" pensava don Fabrizio, in quella scena del romanzo (parte sesta) "voleva dire esser vili come le pescivendole che sessant’anni fa oltraggiavano i condannati nella piazza del Mercato. . . Non era lecito odiare altro che l’eternità."
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Sedevo nella piazza più grande della città, in una rientranza tra due colonne del portico; osservavo da lontano le ripetitive decorazioni dei palazzi – in piazza Vittorio, a Torino –, anch’essi ugualmente porticati, semplici da sfiorare l’icona. Le finestre strette alte lontane. La gente passava, dietro e davanti, con fare spensierato, a grappoli, soli.
Qualcuno mangiava un gelato in una delle basse panchine di pietra poco distante; il passaggio costante delle macchine sui sampietrini in mezzo alla distesa. Alcune folate di brezza fresca. Più in là, le chiome degli alberi sfumate di verde e di giallo sulle colline, sperdute sulla destra. In mano un libro – Il giardino dei Finzi-Contini – furtivamente. Di tanto in tanto davo un’occhiata intorno; ma soprattutto guardavo una finestra in particolare.
Il pomeriggio era appena cominciato, e mi ero recato in quella piazza dopo la scuola, di proposito con largo anticipo. Aspettavo di andare in quell’appartamento, dall’altra parte della piazza, per fare le ripetizioni di latino e greco, dall’anziana insegnante in pensione.
Finita la maturità, non la incontrai mai più. Amavo Micól, tanto quanto il protagonista del romanzo di Bassani. Della sua passione travolgente. Il sole batteva torrido su tutto ciò che mi circondava, ma per un breve tratto, rimanevo nell’ombra.
Aspiravo a sparire davanti a qualcosa.
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Marìas riporta che Lampedusa teneva particolarmente al sonetto di Shakespeare sulla lussuria (129): “nessuno sa bene / come scansare il paradiso che porta a tale inferno“.
Se scrivo sulla pagina che il mio cuore è pieno d’odio, l’odio forse svanisce.
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Non saprei dire quando ho incominciato a scrivere. So che qualcosa è scattato un’estate, qualche anno prima di liceo – dopo alcune prove durante i temi in classe. Svolgevo forse per sfida, forse per pigrizia, sempre il tema D, cioè la traccia libera: mi facevo sorprendere dalla proposta, e mi lasciavo andare sulla pagina. Essendo disgrafico, mi era consentito di utilizzare il computer portatile per scriverli, dandomi una capacità di espressione più elevata rispetto al normale. E tuttavia mettermi davanti alla pagina, ho scoperto, e dare sfogo alle mani, rappresenta una sfida più grande di quanto mi potessi immaginare.
Questo movimento mette in moto tutto noi stessi, il cuore e la testa, la nostra intera vita sulla punta della penna. L’esperienza è talmente travolgente, che non se ne può che uscire mortificati: più consapevoli dei propri limiti. Scegliere per sé la parte del più piccolo, del più insignificante, a questo punto, diventa quasi naturale – aderenza semplice a ciò che si è sentito e toccato. Questo si continua a fare: mettersi davanti alla pagina e sentire presente la propria insufficienza, la propria mancanza. E continuare a volere per sé la parte più piccola, secondo l’esperienza. E tornare a combattere sulla pagina. E via di seguito.
Pierre Reverdy scriveva: “Tutti i doni che l’uomo riceve da Dio, deve restituirglieli al piu presto e volentieri. Altrimenti vanno a male e si rovinano, come un buon vino in una botte guasta.” Nel tentativo di capire (“Perché, per poter capire, bisogna essere cambiati molto", scriveva ancora l’autore de Il guanto di crine) così voglio fare anche io.
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C’è un periodo che va dalla remota infanzia, cioè la smemoratezza e giunge alla prima adolescenza, che è legato al bianco delle piste da sci e al freddo, alla bufera di certe mattine, ai refoli di pulviscolo sulle lastre di neve ghiacciata passando con lo ski-lift, col cielo azzurro o le nebbie fitte, portati e contemplanti. Contemplati anche, a forza di andare su e giù. Si pratica con arte una specie di inconsapevole attività: la discesa non ha spettatori, o altri scopi del semplice riportarci a valle. Si tratta di scendere tutte le volte un po’ meglio, di scendere. Forse non ho mai smesso di sciare, non ho mai smesso di voler sciare.
Immaginarsi la discesa e giù, insieme a tutte le piste che si sono già percorse, le dune, le gobbe, le buche, i cumuli, le distese e le strette su cui non siamo ancora stati. Altre discese, e ridiscese sulle pagine.
A.B.
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