Le icone non muoiono, perché incarnano un’anima, assumendo il rango di sintesi e di simbolo. Questo, perché qualsiasi possa essere la prospettiva, dal basso o dall’alto, di profilo o di fronte, un’icona parla sempre la stessa lingua universale e, perciò, da tutti comprensibile.
Lo scorrere del tempo tecnologico può offrirla agli occhi e al sentimento in bianco e nero o a vivaci colori, ma la sua incarnazione non muta.
Una corona è tale quando c’è una testa che la porta. Un’istituzione ha sempre bisogno di una personalità. Per questo, chi come Elizabeth II è stata, era la Corona, è stata, era l’Istituzione, resterà immortale di fronte alla Storia.
Spingersi oltre, non serve. Piuttosto, alla luce della profonda crisi che sta colpendo i simboli delle nostre sbiadite società, c’è da domandarsi, se questa morte non impoverisca ancor di più un’umanità che fatica a reggere la rovinosa caduta dei suoi collanti identitari.
L’icona è entrata in un cono d’ombra, ma non si è spenta, non ha cessato di essere: stella polare, punto cardinale. È proprio dell’icona il potere di guardare e di farsi guardare e, facendo questo, saper orientare nonostante le mutazioni, inevitabili quando si tratta dell’uomo, sedentario e pellegrino.
C’è, molto seriamente, da domandarsi, se si può fare a meno di un’icona, se la nostra società asfittica, gravemente malata di sclerocardia, possa reggere l’urto del vuoto a perdere.
Dopo l’apparente morte dell’icona, forse ci siamo un po’ tutti svegliati con la domanda: E adesso? Fiato, dunque, sospeso sì, ma con gli occhi sui suoi occhi. Questo, perché le icone hanno tale carisma e i piccoli della storia ne hanno tutti un gran bisogno.
Si moltiplicheranno i luoghi comuni e le banalità, ma lei è già nella Storia senza che sia necessario farla entrare nei libri e nelle lezioni. Il resto lo farà la coscienza collettiva.
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