recensione di Giuseppe Moscati
a Storia di una regressione infinita di Gualtiero Lelli
alla p. 2 di CARTA 093
FOGLIO INDIPENDENTE DI NOTIZIE VARIE, INVIATO PER POSTA ELETTRONICA DAL GRUPPO 90 ARTEPOESIA VI 2022
Chiede implicitamente ausilio a Borges e a Leopardi,
perché lo assistano nella sempre delicata impresa
dell’incipit, Gualtiero Lelli nel suo romanzo Storia di una regressione infinita, fresco di stampa per i tipi del sempre dinamico Fara Editore: lo chiede, rispettivamente, al borgesiano Lo sahir e al leopardiano Ultimo canto di Saffo. Poi, in tutta onestà, più avanti confessa: «Non sono di quelli che trascorrono la vita a lasciarsi rimordere dai rimpianti, né di quegli altri che credono con convinzione che a tutto vi sia un senso e la vita di ciascuno segua un percorso ben delineato» (pp. 29-30).
L’autore, romano classe ’71, ha una penna sapiente, che sa essere morbida quando occorre un po’ di lievità e però è anche ben sollecita a trattare con coraggio aspetti ostici della vita come la sofferenza, una certa fatica delle relazioni umane e, non da ultimo, il grande tema della vulnerabilità dell’essere umano. Anzi, a tratti si ha l’impressione che la sua narrazione sia una forma romanzata di riflessione filosofica sul dolore, sull’assenza, sulla melanconia e sul nostos, sulla criticità del rapporto padre-figlio; tuttavia non mi pare manchi mai la luce che – se a volte può ridursi al classico lumicino messo di continuo a repentaglio da un forte vento – è capace pure di tenere viva la speranza di un “prepotente desiderio di rinascita”.
«Solo un’ingestibile angoscia ti ricorda che sei un essere umano. Ma nemmeno questo ha alcun senso, al
momento. Non più di una vita montata male da un
manutentore assunto da poco. Non più dell’abitudine che tutti abbiamo ad accettare la morte, in ogni sua
fantasiosa manifestazione» (p. 13). Vedete? Siamo tra le pagine di un romanzo, per giunta premiato al Concorso nazionale Narrapoetando, ma tutto a un tratto ci accorgiamo che tra le righe albergano pensieri filosofici, appunto, meditazioni sull’esistenza e il suo significato, sull’elemento drammatico che non manca mai nella vita e, al tempo stesso, sulla fine che incombe ‘di diritto’, tenendo presente la nostra condizione di esseri-per-lamorte, per dirla con Heidegger.
Né poteva mancare quel sottile filo d’ironia che fa di
questo libro una sorta di amabile esercizio di
punzecchiatura: «Sappiamo – si legge per esempio prima di incontrare un richiamo al Talmud – quale collegamento vi sia tra religione e surrealismo e quanto ciò costituisca fonte di svago per i cabalisti e i razionalisti di ogni convinzione morale e religiosa» (p. 18).
Ce ne usciamo, dalla lettura di Storia di una regressione infinita, con una matura consapevolezza: ogni individuo ha un ruolo fondamentale all’interno della “nostra commedia estemporanea”: nessuno può essere ridotto a semplice comparsa, insomma; e Lelli lo dice giocando (e, come quasi tutti i migliori giochi, è un gioco serio) con un mirabile paradosso: l’uomo ha e deve conoscere i propri limiti, ma al contempo non vuole e non può smettere mai di oltrepassare i propri confini.
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