Dalla piccola finestra della mia stanza riuscivo a scorgere un pezzettino di mondo e di cielo.
L’abbaino mi era stato concesso in affitto all’inizio del mio ultimo anno di vita. Pertanto, giusto in tempo a che i miei ormai più che consumati occhi ricevessero ancora in dono ultimo i bei colori che tanto li appagarono negli anni vissuti al n. 3 del Vicolo Verde.
Li avevo stanchi, lacrimosi, secchi, quasi ciechi, con mia grande pena e strazio.
Così, quell’apertura, come cannocchiale mirato in esatta direzione del mondo sottostante e del volubile cielo, fu per la mia fantasia colorifica un collirio miracoloso che tanta parte ebbe sulla salute del mio cuore, sempre esagitato e appesantito, durante tutti gl’indimenticabili giorni che mi restavano da contare e annotare.
Delle ore che si affacciavano e penetravano dentro la mia alta stanza, mai invadenti e moleste, preferivo le prime, quelle subito dopo l’albeggiare, e le ultime, quelle tra il tramonto e le primizie della notte.
Con il volto tra le mani, i gomiti come conficcati nel davanzale poco accogliente, eccomi attento, concentrato, spesso trattenendo il fiato, vecchio e gutturale, come a voler lasciare tempo e spazio a quel particolare colore piuttosto che a un altro in procinto di venire, a quell’impressione visiva o sonora, sicuro che poi, subito dopo, sarebbe stato altro e mai più.
Per questo, restavo immobile, pietrificato, come chi di null’altro ha da bearsi che di quel solo, fulmineo, istante, lampo, battito.
Non è facile vedere un pezzettino di mondo e il cielo, se non hai il coraggio di sporgerti, anche solo un pochino, ecco, così!
Al campo visivo, ristretto e assai malato, molto viene impedito e, perciò, escluso. Ma, la punta del naso sa olfatare e non ha nessun timore del freddo pungente che gela il bulbo oculare come per far dispetto alle mie voglie. Però, non indietreggiai e le palpebre aggrinzite tenni spalancate su quel mondo e cielo che, forse, solo lì, esattamente lì, erano per me e per l’ultima volta.
Quale strazio avrei gridato, tirandolo fuori dalla profondità della mia gola afona, se non avessi lasciato andar via, prima della mia fotografia, quell’insieme di colori che balenavano, come lampo nella notte più buia e orfana di stelle, proprio nell’istante del mio ricordo più bello quando me ne andavo, le mani nelle tasche sfondate, per le vie poco illuminate del dopocena, nella disperata ricerca di impressioni, strane e non scontate.
Poi, qualcosa si frappose tra la mia felice fantasia e le corte prospettive di quel punto focale elettrico per nulla adatto ai miei orizzonti. Ebbene, altro non trovai da fare che uscire, uscire all’aperto, con le gialle vesti del malato terminale, e, a imitazione di un persistente sogno infantile, spiccare il volo e così andare su e giù come rondine primaverile.
Dall’abbaino preso in affitto per quattro soldi, quando non ne potei fare a meno, lo sguardo si dilatò all’infinito e mi lasciai precipitare sperando che qualche vicino mi vedesse come un astro morente muore.
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