mercoledì 8 ottobre 2008

Su Pubblica con noi 2007



recensione di Narda Fattori

Pubblica con noi 2007 è la raccolta antologica dei vincitori di un concorso che riguarda sia la prosa che la poesia. Il testo ospita i primi tre classificati di ogni sezione.
Recensire una antologia è difficilissimo, di solito si finisce per esercitare una critica sugli estensori, in questo caso sulla giuria del premio. Io vorrei osare qualcosa di più perché l’antologia offre sprazzi di grande prosa e di grande poesia, talvolta in contaminazione fruttifera.
Il libro si apre con un racconto lungo di Camilla Jagna Ugolini Mecca dal titolo disorientante: Il paradiso è un cul di sac.
Di solito noi traduciamo questa espressione francese con una valenza negativa, come qualcosa che imprigiona e soffoca, come una situazione da cui non si può sfuggire e che esercita un potere limitativo delle nostre potenzialità. Con una prosa finemente introspettiva, ferma, mai banale, anzi spiazzante in alcune affermazioni, la scrittrice ci racconta di due solitudini che hanno convissuto e condiviso l’amore ma che, per immaturità o per paura o per diffidenza, non hanno saputo far crescere questo amore, che si è sfilacciato costringendoli a separarsi, non a cessare d’amarsi.
I due protagonisti sono nostri contemporanei che recano nei pensieri e nei gesti l’amarezza e la delusione di coloro che hanno creduto nella fantasia al potere che invece non ci è mai andata; entrambi hanno retroterra borghese, rassicurante come una prigione, dalla quale entrambi sono sfuggiti, lui a inseguire il sogno della scrittura, lei quello della verità e dell’amore.
È il protagonista maschile che parla, ritornato sui suoi passi, in una Parigi che riconosciamo da qualche accenno alle vie, dalla frequentazione al bistrot; ripigliato fiato e coraggio rincontra la sua ex compagna e non riesce a esprimerle l’inquietudine che lo divora, la motivazione più vera che l’ha riportato in quella città. Resta nuovamente solo, con pensieri amari, con l’impotenza di riconoscersi e di donarsi; sarà ancora una volta l’oblatività della donna, che al suo nuovo richiamo, gli prende la mano perché ha già capito e questo consente a lui di rivelarsi e di riconoscere che il cul de sac temuto è il suo paradiso.
La scrittura è colta e lieve; non può rivelare tutto perché vive nei protagonisti un indicibile di cui sono consapevoli. Le parole fanno lievitare il racconto fino al finale, non preparato dalle pagine precedenti; in questo caso l’happy end è inatteso e con altrettanta naturalezza avrebbe potuto diventare un finale aperto, e addirittura sancire l’impossibilità di un incontro ri-fondante fra i protagonisti.

Il lavoro del luogo è il titolo del poemetto su cui esercita la sua scrittura e la sua visione del mondo Giovanni Turra Zan. È una lettura solo apparentemente facile, di presa immediata ma se si colgono i vertiginosi salti culturali spazio-temporali quasi ci si spaurisce e il filo della lettura si spariglia, le visioni si sovrappongono e nessuna ha la forza della testimonianza e insieme e consapevolmente conducono ad una esperienza tragica del vissuto: la finitezza, il male, pensiero stretto, giogo, la solitudine, l’impossibilità dell’amore… Potrei continuare in questo elenco di parole che appartengono al campo semantico del dolore e dell’imperfetto: “… che sopra alla testa ci sfugge / non quello che si sa, sfugge quello che / le ossa non trattengono; basta una lastra, / la dogana delle voci.”
Questo poemetto di forte impatto emotivo e culturale urla senza enfasi che siamo al capolinea dove confluiscono tutti gli intrecci, dove si estirpa ogni possibilità di essere diversi da quello che si appare perché la solitudine marcia anche sui morti e nessuno risponde ai richiami, e si somministra il calvario quasi fosse un farmaco, ma forse solo si giunge alla stasi, un provvisorio stato borderline.
Questa poesia secca e dura, conscia e consapevole non si lascia imbrigliare in nessuna corrente neo-ermetica o narrativa o avanguardista; si nutre di sé stessa, non s’appiglia a nessuno, non gioca con la retorica, è nuda, autoriflettente e così chiusa all’apertura da irritare (è il panico che alimenta). Vorrei concludere citando i versi che con i quali si conclude il poemetto: “… E se vedi / lampade proiettare l’ombra ti fai serpe / e faina per cancellare il nome dall’elenco / degli esistenti, per lasciare poche tracce / scarseggiando un asse di risposte sulle leggi / della quiete.”

Prosa e poesia nell’antologia sono intercalate così da consentire un respiro che si contrae e si dilata, come nella naturalità del suo farsi.
Il racconto di Oreste Bonvicini, La misura quotidiana delle parole, ci riporta a qualcosa di meno angoscioso: il viaggio, grande metafora della vita, il viaggio che si compie, quello che si rifiuta, quello che si compie attorno alla propria scrivania.
Il viaggio è comunque sempre dentro sé stessi anche se si compie in Patagonia (Chatwin), qui incontriamo gli elementi elementari della Terra: l’acqua, la sorgente della vita che più non parla perché i suoi dèi sono scomparsi; occorre allora tornare ad una fede per scacciare la paura, dell’acqua, della sua scomparsa, della sua irritazione.
Gli altri elementi che alimentano e vivificano il viaggio e l’essere all’interno di esso, sono anche cose da nulla, come il profumo dei tigli, o grandi esperienze come il Coast to Coast dove il paesaggio appena accennato è un pretesto per l’incontro dei pensieri e delle senzazioni dove giacevano dormienti e già per il risveglio si rivelano trasformazione.
Ma ci sono anche attese deluse, linee d’ombra, nei mesi, nei luoghi e la laguna può essere più grigia dei grigi; perfino i fuochi di Ferragosto si tingono di lontananza, di nebbia.
Ascensioni, treni, notti , colline, rumori… scoperchiano ciò che già abbiamo dentro di noi, consentono di vedere con maggiore chiarezza le emozioni, le paure, il bisogno di appigli,…
Significative sono le parole che riporto da L’odore del fiume: “… Ma se tutto appartiene all’infinito, tutto è un divenire / che ritornerà nell’ognidove, nel tempo senza misura.”
Non ho accennato allo stile, tra prosa e poesia, prosa che ambisce accostarsi alla poesia e poesia che si affranca da ogni sudditanza facendosi excipit della prosa.
Sono molte “le cartoline” di Bonvicini perciò credo di trarre due perle esaustive per dire a quali conclusioni giunge (o non giunge) lo scrittore: “Ora so che inseguire un sogno non è mirare all’eternità” e “… ciò che l’occhio indaga, nell’animo subito raggruma.”

A questa lettura gradevole e di non ingrato impegno, segue il poema: Padri della terra di Vincenzo D’Alessio di cui ho già avuto il piacere di scrivere anche perché, al di là del risultato meramente critico, chiniamo il capo davanti una voce orgogliosa e pietosa per un Sud bellissimo nei suoi paesaggi, nelle sue donne e così ingrato verso i suoi abitanti. Il poema di D’Alessio mi fa pensare con pena sempre più esacerbata ai luoghi ancora più a Sud, e quindi più a Sud ancora. Che i potenti siano illuminati perché la passione civile e la pietà non basta: “I versi sono fulmini / di un lampo che abbaglia / l’anima della terra / tu sola mia speranza / scrivi la vita.”

Giuseppe Acconcia è l’autore di Un inverno di due giorni e altri racconti, ancora prosa, complessa e fluida, come dice nella presentazione Stefano Martello, aggiungerei magmatica e urgente, sovrabbondante. È una prosa che accoglie nello sguardo l’esperienza per trarne il significato che cela e che svela. Il migrante che sbarca beve le immagini, sente il dolore della perdita e l’estraneità di lunghi elenchi di merci, di insegne, di un italiano che si impara ma non si capisce, ottuso e ripetitivo. Ogni sogno si infrange contro la realtà brutale di un lavoro che non c’è, di un amore, di una casa che non esistono, sopravvivenza demandata alla Caritas, la certezza di vivere una vita senza… e allora forse è meglio morire. Il racconto che riguarda gli extraterrestri mi sembra il più coeso perché non cerca scappatoie in prolessi e analessi, ma narra di fatti su un asse temporale unico. Gli extraterrestri che sembrano aver trovato la strada per una serena convivenza attraverso una comune di pari, non suscitano alcun interesse, sono stranieri , estranei quindi indegni di soffermarsi sulla loro cultura. Ancora una volta riconosciamo l’interesse dello scrittore per le relazioni e per l’incapacità di accogliere l’altro, anzi come Cronos, il tempo, divora i suoi figli, siamo ridotti ad ologrammi, parvenze. Ma Acconcia procede oltre nel leggere le capacità autodistruttive dell’uomo: anche quando la Terra si sgretola e si fa poltiglia di fango, riescono a pensare solo a limitare le nascite. Quando parla di quotidianità e di esperienze che gli sono familiari, Acconcia riesce a dare alla scrittura forza e chiarezza; si spoglia delle sovrastrutture letterarie non perfettamente entrate ancora nel suo patrimonio di giovanissimo scrittore e narra con scioltezza, non annoda la scrittura in acconci presunti stilemi. I suoi protagonisti sono emarginati, migranti, precari, o sognatori, creature inverosimili che traggono dalla fantasia l’unico nutrimento.

Nuovamente incontriamo la poesia, stavolta di Francesco Accattoli in Un tramonto sommario, che trovo alta nella sua apparente semplicità. Essa celebra il mondo, l’essere al mondo, celebra la vita, anche di poco conto, anche non laureata, come può esserlo un gregge o una quercia o delle ginocchia sbucciate, “possa io vivere in vere parole / l’adunarsi di lumi e di lune / attorno ai tavoli dei caffè”: questa è una vera e propria dichiarazione di poetica a cui segue una dichiarazione di ermeneutica: man mano che l’uomo si serra, si chiude, assomma i chiavistelli, il mondo s’allontana, se ne va via perché questa creatura non gli appartiene più. Malgrado i suoi sforzi l’uomo non sa, non vuole, non riesce ad allontanare il dolore che potrebbe farsi tenero, quasi trait-d’union fra simili nobilitati dallo stesso dolore. L’estroiettazione di cui parla a commento iniziale Massimo Pasqualone è lo sguardo che riconosce sé stesso nell’altro, negli accadimenti e va via via denudandosi di finterie e di apparenze per incontrare l’intimità del proprio sentire.
Non ci sono mai cadute nel banale, nel linguaggio “poetese” così abbarbicato al riascolto, al dire ben acconcio, nelle poesie di Accattoli, a cui auguro di conservare un’ispirazione così avvertita e una voce così ben accordata: “S’impara bene dalle nonne, resta la polpa, / il Pater Ave e Gloria, la paura / dissipata, / il segnale è dentro il corpo, // come a dire ora è già ora; / eppure avrebbe un senso / un poco di neve in un bicchiere.”
Non dobbiamo dunque aspettarci un ottimismo d’accatto, ma il desiderio e la consapevolezza che le contraddizioni e i mali sono ineluttabili ma rendono quasi più degna la vita, meritori lo scamparne, vincenti l’affrontarli dentro lo strepito allegro della folla lungo un viale.

Chiudono l’antologia le poesie di Rita Giurastante, la cui raccolta porta il titolo Schegge di fuoco. Il climax è più quieto, i versi si distendono in grafie chiare e definitive. Sono poesie costruite sull’esperienza personale che si protendono verso la metafora per mascherare l’urgenza di un male o di un bene, di un sentimento che il pudore vorrebbe un poco celato. Incontriamo versi orecchiati dal linguaggio quotidiano e improvvisi erte poetiche: ”Sull’avaro terreno sassoso / spuntano timide piante. / Da stratega esperto in difesa, / il leccio si espande in larghezza /…: sono questi i versi che ci fanno cogliere la poesia e promettono che il desiderio di farsi non sia deluso.

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