domenica 29 maggio 2022

Non si sa mai cosa può succedere

di Valeria Raimondi



Durante una recente edizione del Festival di Sanremo veniva recitato un monologo sulla Bellezza scritto dalla stessa conduttrice. 
“Mia nonna mi ripeteva sempre: – Diletta, ricordati che la bellezza è un vantaggio ma anche un peso che può farti inciampare” esordiva così, poi proseguiva con la retorica delle rughe, della bellezza interiore, dei valori autentici.

Immediatamente pensai a Paola, la mia nonna materna, al suo personale concetto di vita e di bellezza. Soleva infatti ripetermi: “Se nasci bella non ti servirà, mica devi fare il cinema” oppure: “Anche se nasci bella ti toccherà andare a lavorare a undici anni come quella nata brutta, poi dovrai maritarti presto e fare una squadra di figli, così la bellezza sarà andata per sempre a ramengo.” 

Era veneta da parte di madre, nonna.
Riguardo al fascino delle rughe aveva un’idea tutta sua: “Non ho mai avuto il tempo di pensarci”. Ripeteva anche: “Grassezza fa bellezza” (utile informazione, dopotutto) oppure: “La giovinezza ha la bellezza dell’asino”. Fine.

Quando tirava il collo alle galline probabilmente si rifaceva alla scuola Steineriana: “Non piangere carina, la gallina ha fatto una bella vita, ha sempre mangiato bene”. Questo lei lo sapeva per certo. 
Dirmi carina era il suo modo di dirmi “Svegliati!” quando mi facevo prendere dal pathos. Nonna comandava un esercito di conigli e galline, decideva quando scattava la libera uscita o l’ora dei pasti, ma anche se metterli al forno con rosmarino oppure senza. “Tutto è in evoluzione, esiste solo il qui e ora, ogni cosa è impermanente, anche i conigli”, credo fosse il succo del suo insegnamento. 

Ho tenerissimi ricordi di quando si cucinava insieme e lei urlava: “Rauss! Fuori! Sciò! Ché non ho tempo da perdere, io” assestandomi con dolcezza un colpo di mestolo sulle dita. 
Il suo cristianesimo, poi, era ben radicato: “Le suore, quelle vigliacche, mi hanno sempre trattata male perché non avevo una mamma a difendermi” oppure: “Quelli che vanno alla Messa delle 10, alle 11 hanno già fatto tre peccati.”
La Paola negli anni ’70 tentava di tenermi lontana dalle droghe e ogni sabato mi comprava qualche sigaretta. “Ma io non fumo nonna!” protestavo. “Allora fuma la pipa con il nonno, in veranda”. “Ma io non fumo, ho 12 anni!” tornavo ad insistere. “Peccato, intanto che voi fumate in veranda, io potrei sgusciare i piselli.” A volte davvero non la capivo…

La Paola credeva profondamente nella famiglia: “Mi raccomando, ascoltami bene, non sposarti mai, piuttosto fai la mantenuta” diceva. “Ma nonna, io credo nell’amore!”. “Non importa” affermava “poi ti passa”. 
Quando a 19 anni, dando pubblico scandalo, me ne andai a vivere da sola, si affrettò a spiegare alle amiche che ero reperibile giorno e notte, che venivo chiamata d’urgenza e che avevo necessità di un appartamento tutto mio. Dunque, ero l’eroina sul fronte dell’emergenza sanitaria locale!

Confesso che mi sono fatta prendere la mano, la nonna Paola non era propriamente così. La storia delle galline è vera, come vero lo sguardo piuttosto disincantato sulla vita. Per il resto era una donna deliziosa e di grande cuore. Sempre armata di scopa metteva in fuga i gatti. “Con quello che ci costa mantenere un gatto manteniamo due cristiani” protestava, ma serviva loro una bella bistecchina al sangue. Quando qualcuno suonava alla porta apriva senza pensarci troppo e ogni volta comprava fazzoletti (ne ho una scorta che non basterà una vita per spacchettarli tutti); quando era arrabbiata con i figli li spediva a letto ma solo dopo una cena abbondante, perché, diceva: “Il corpo non deve soffrire”; “Carina, hai pagato l’affitto?” chiedeva, passandomi 10.000 lire sottobanco.   
A lei piacevano il baccano, i figli che ripetevano la lezione ad alta voce, i dischi di Mina e Don Backy. In estate adorava ospitarmi e viziarmi, in inverno prepararmi una spaghettata al ritorno da scuola o al termine di un lungo turno in ospedale.

A lei piacevano i giovani perché era stata una ragazza con una gonna a fiori e qualche sogno, ma si sa, alcuni fiori sfioriscono prima di sbocciare e anche i sogni. Io quella ragazza la ricordavo invece e di tanto in tanto la invitavo nella migliore pasticceria del paese, o a scegliere dischi e libri. Spesso ce ne andavamo a zonzo con la mia Renault 4 e lei rideva e mi incitava: “Dai spingi di più, sembri una lumaca”. Io protestavo: “Le nonne raccomandano alle nipoti di andare piano, non di schiantarsi!”
Un’ultima cosa: si cambiava e vestiva di tutto punto anche per uscire a gettare la spazzatura, non per un’idea di bellezza, piuttosto perché non si sa mai cosa può succedere.

Davvero, nella vita, non si sa mai cosa può succedere.
Come quel giorno di dicembre del 1923 quando al ritorno dalla latteria situata nel punto più alto del paese scoprì che casa sua non c’era più. Osservava dall’alto, immobile, imbambolata, senza emettere neppure un grido quel fiume di fango e detriti, di corpi e masserizie. 
Il sabato 1° dicembre del ’23, una bambina di 9 anni conobbe la tragedia: il crollo della diga sovrastante la valle di Scalve a causa di un progetto sbagliato, della sete di profitto, del disprezzo per la vita. Nei comuni bresciani e bergamaschi tra Angolo e Darfo, nella Bassa Valcamonica, si consumò quello che venne definito Disastro del Gleno e poi Strage del Gleno, come circa cinquant’anni dopo venne detta quella del Vajont. 
Si contarono 500 morti e l’urto dell’acqua cancellò paesi, creò nuovi corsi d’acqua, modificò la morfologia del territorio. Furono fatte indagini, scritti libri, rese pubbliche le statistiche e fu infine condannata la famiglia dei Viganò, imprenditori senza scrupoli ai quali acqua ed energia elettrica per i propri cotonifici, non bastava mai.
A questa vicenda si interessarono anche il Re d’Italia e il poeta D’Annunzio e ci furono indennizzi economici, ma dei sopravvissuti, dei loro figli e nipoti, del trauma sulle generazioni successive non si parlò.

Lei, Paola D. di anni 9, sopravvisse alla tragedia. Persero la vita la madre C. di anni 30, i fratelli E. di anni 7, A. di anni 5 e la piccola I. di anni 2. Il padre, che era al lavoro quel mattino, si salvò. Quel padre che sfamò tanti poveretti, che chiese aiuto alle suore per la sua educazione, che cercò di restituirle una famiglia, che un giorno le regalò una gonna a fiori. 
Dalle interviste ai sopravvissuti si legge: “Le sensazioni erano di incredulità, stordimento, shock e terrore… ho provato un’angoscia totale perché vedevo intorno a me anche gli adulti spaventati e terrorizzati… avevo solo confusione in testa perché non mi rendevo conto di cosa effettivamente fosse successo.”.
Questo però la Paola non lo raccontava, raccontava solo di essersi risvegliata tempo dopo, intorno ai 14 anni, ma al figlio minore diceva di scorgere in lui, talvolta, lo sguardo strimit, terrorizzato, dei bambini del Gleno. 
A noi chiedeva di non fare domande, augurandoci di non avere figli perché poi “soffrono troppo se perdono la mamma”. 
Le sue parole erano scarne, asciutte, ruvide, ma il suo pensiero era rumoroso come un crollo: “Viliàchi e maledéti per sempre quei can dei Viganò e ‘a Diga del Gleno!”

Ecco perché ascoltando il monologo sulla Bellezza ricordai quella ragazza, la sua gonna a fiori, i suoi sogni e il suo sagace disincanto.

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