venerdì 31 maggio 2019

“L'amore è in sé stesso domanda.”

Andrea Mardegan, Giuseppe e Maria. La nostra storia d’amore, Paoline 2019

recensione di AR






Con grande delicatezza e sensibilità psicologica Andrea Mardegan ci narra le vicende e gli intimi turbamenti di Giuseppe e Maria, che si alternano nel parlarci dello straordinario evento dell’incarnazione del Figlio di Dio (“Sono la madre dell’imprevisto.” p. 29, “Ero dentro la follia di un matrimonio vergine, ed entravo nell’impensabile.” p. 30), della loro presa di coscienza per grazia di questo mistero, del loro rapporto di coppia e con Gesù. Una impresa certo non facile, sorretta da una perfetta conoscenza delle Scritture e di altri testi letterari (ad esempio, fra gli altri, Il signore dei sogni di Mauro Leonardi), saggistici e papali che hanno affrontato il mare per lo più ignoto del padre putativo, di Maria vergine e madre,  dei loro parenti (oggi è la festa della Visita di Maria a Elisabetta: “La mia voce fu potenziata da quel figlio di Dio che portavo dentro di me, nascosto e protetto proprio là, molto vicino a dove nascono la voce e il respiro.” pp. 41-42) e dell’infanzia del Messia. Dice Maria: “Dio mi fece comprendere che aveva permesso circostanze avverse per la nascita di suo figlio per allontanarmi dalla mia gente e proteggere me e il bambino da sguardi non ancora in grado di comprendere.” (p. 87). E, parlando a Giuseppe: “Tu sei il nuovo Giuseppe e darai tuo figlio come cibo al popolo di Israele affamato.” (p. 107). Osserva Giuseppe riportando a Gesù parole di sua madre: “Non c’è amore vero senza domanda d’amore. Non ci può essere un amore senza domanda. L’amore è in sé stesso domanda. E io davanti all’angelo mi feci domanda d’accoglienza…” (p. 140). E Maria stessa ricorda a Gesù durante un pellegrinaggio a Gerusalemme: “La libertà è la strada dell’amore. Se non si ama è sprecata. (…) Più amiamo, più siamo liberi.” (p. 142).  Anni dopo, quando ormai tutto si sta per compiere, dice Gesù a sua madre: “Ricordatevi che gli uomini sono santi, non le istituzioni. Non le opere. E che anche i santi sbagliano. Ma al Padre mio interessano più i tentativi degli esiti. (…) Amate i fratelli che sbagliano, altrimenti rendete vana la mia croce.” (p. 170).
Un libro che ci immerge in un Vicino Oriente di 2000 anni fa, facendocelo sentire davvero vicino, rendendoci prossima la straordinaria umanità di Giuseppe e Maria: se accogliamo la Luce, la Parola ne saremo noi stessi trasfigurati, lieviterà in noi l’Amore/tenerezza che solo può donarci la vera libertà.                         

lunedì 27 maggio 2019

Il Club di Aurora - "Oblivion": tra sopra e sotto, tra dentro e fuori

Nuovo mese, nuovo romanzo... Stesse pessime condizioni atmosferiche, ma questo è un altro discorso!

Ridendo e scherzando siamo arrivati alla quinta tappa del nostro Club di Aurora, che tra l'altro è anche la penultima; a fine giugno concluderemo questa bellissima esperienza con un libro a sorpresa della nostra Aurora Stella, perciò preparatevi a qualcosa di speciale.
Oggi però ci dedichiamo a Oblivion, un'opera di pura fantascienza che, per dirla in modo molto spiccio, mi ha fatto venire tre centimetri di pelle d'oca per la drammaticità di alcune scene e di alcuni concetti. Ma prima, come sempre, un piccolo recap delle "scorse puntate": potrete trovare le recensioni di aprile su Paper Purrr, Les Fleurs Du Mal, Vivere Tra Le Righe e ovviamente qui su Narrabilando.
E adesso siamo pronti a partire all'esplorazione di questo nuovo romanzo. Se ne avete il coraggio.








La prima parola d'oro di Oblivion è sacrificio: questo termine deriva dal sostantivo latino sacrum e dal verbo facio, quindi il significato letterale è "compiere un'azione sacra"; già da questo capiamo che il senso originale del nome è diverso da quello che intendiamo di solito, perché quando si parla di sacrifici siamo abituati a pensare a scelte più o meno volontarie che comportano una rinuncia da parte di chi le compie e che sono indirizzate verso uno scopo preciso.
Ma si tratta di un accostamento metaforico, perché di base il sacrificio è un atto dovuto (a una divinità, per esempio), non causato da un bisogno specifico ma programmato per scongiurare eventuali punizioni oppure per placare l'ira di qualche forza superiore. Allo stesso modo un vero sacrificio solo in alcuni casi è volontario, mentre la maggior parte delle volte la vittima sacrificale viene designata come tale da altri. Quanto allo scopo dipende, alcuni sacrifici possono avere solo la funzione di glorificare una divinità e alcuni possono essere persino rituali, cioè si ripetono con cadenza periodica senza una precisa necessità.
Il significato che diamo solitamente alla parola è da intendere in senso lato, dal momento che rinunciare a qualcosa di importante in nome di una motivazione più alta si può considerare un'azione sacra.
Bene, vi sto dicendo tutto questo perché il nostro romanzo si apre proprio con una scena di sacrificio intesa nel senso originario del termine: anche nel mondo distopico e futuristico in cui Oblivion è ambientato permane l'idea che esistano vite più grandi e preziose (come quella del Demone che sceglie le vittime del sacrificio) e molte vite umili, trascurabili (quelle delle persone "comuni"); interessante notare anche la motivazione addotta alla necessità di operare un sacrificio: si dice infatti che esso serve a garantire il bene di tutti, tralasciando il fatto che invece è il Demone a pretenderlo. Quindi le persone comuni non solo sono potenziali vittime, ma sembrano essere le cause stesse della loro condanna. Gli uomini si devono immolare per evitare che il Demone faccia del male, ma nessuno fa presente che il Demone non dovrebbe nuocere a prescindere.
Questo particolare, che può sembrare normale in una storia di creature sovrannaturali, è invece interessante perché ci fa capire che ancora una volta Aurora Stella ci presenta una società apparentemente diversa dalla nostra ma a sua volta gravata da superstizioni e violenza gratuita. Una realtà in cui i famosi sacrifici non sono volontari e giustificati da necessità irrinunciabili può essere solo retrogada, non importa in quale anno o in quale dimensione sia collocata. La società di Oblivion non è poi così diversa da quella di Furens Lupus Sum e di Tiger Indomabilis, no?

Comunque, in questo quadretto allegro facciamo la conoscenza del nostro protagonista, il giovane Eridan: un personaggio poetico che mi ha conquistata fin dalle prime righe, un personaggio che vorrei sentire parlare in eterno per la saggezza e la forza che le sue parole infondono, anche nei momenti di maggiore sconforto. Una creatura simile non pare appartenere a un mondo come quello appena descritto, vero? E infatti in parte è vero, perché la dimensione dei Demoni non è l'unica in questo romanzo: abbiamo infatti un Aldisotto, un Aldisopra e un Aldifuori. Come si può immaginare la terra dei Demoni è l'Aldisotto, ma Eridan è originario dell'Aldisopra, una realtà profondamente legata alla natura e alla Madre Terra. Ed Eridan è proprio così: quando penso a lui mi vengono in mente orecchie in grado di ascoltare i suoni sussurrati di una foresta, mani sapienti e delicate in grado di far crescere le cose, e due polmoni desiderosi di vita. Eridan può comunicare con gli elementi naturali per ottenere il sostentamento necessario e tutto ciò che gli serve, ed ecco allora una differenza cruciale tra Aldisopra e Aldisotto: da una parte abbiamo il contatto, dall'altra il divario tra le creature e la freddezza di una tecnologia usata in modo improprio; da una parte c'è la richiesta, la preghiera, e dall'altra ci sono la pretesa e la prevaricazione. Ne consegue che da una parte ci saranno i frutti e dall'altra... Niente di buono, probabilmente.
Tuttavia mi chiedo se i due mondi siano poi così diversi: già, perché Aurora ci spiega che il luminoso Eridan è stato destinato al sacrificio e che le altre creature luminose della sua terra lo consegnano senza troppo chiasso a questa infausta sorte. Per timore del Demone? Certo, può essere. O forse perché anche nell'Aldisopra in fin dei conti vigono regole ingiuste e superstizioni? E perché i compagni di Eridan, pur essendo quasi un tutt'uno con la natura, conservano comunque un po' dell'ipocrisia e dell'indifferenza tipica di tutti i popoli?
Eridan viene abbandonato dalla sua gente perché ha osato alzare la testa e protestare contro un sistema che ritiene ingiusto, perché ha osato contraddire l'incarnazione del potere (che si può vedere in qualsiasi autorità, sia la Stregona del suo Clan o il Demone stesso). Tuttavia la pratica del sacrificio è tollerata anche nei confronti di coloro che sono ritenuti innocenti, il che forse è ancora più terribile.
Ma parliamo per un attimo del cosiddetto atto di ribellione che ha condotto Eridan alla punizione più dura: se ve lo svelassi vi rovinerei una cosa molto bella da leggere, così mi limito solo a dirvi che la reazione dell'autorità al suo affronto lascia intendere che la società del romanzo ha finito con il mettere le consuetudini al di sopra dell'istinto di sopravvivenza.
Si potrebbe mai condannare qualcuno per aver cercato di salvare se stesso o per aver protetto un altro essere umano? No, perché l'istinto di sopravvivenza è il più radicato e potente nella nostra natura. Per questo la legittima difesa è appunto legittima nei casi più disperati, e per lo stesso motivo secondo me non bisognerebbe mai criticare qualcuno che "non ha fatto l'eroe" e ha preferito salvare se stesso in una situazione di pericolo. Potremmo dire che quando le condizioni non lasciano possibilità di scelta salvaguardare la propria vita o quella di una persona amata non è un crimine, sebbene la favola dell'eroe coraggioso che ha sprezzo del pericolo sia più invitante.
Una società in cui il rispetto delle consuetudini o di qualsivoglia divinità è considerato più importante dell'istinto di sopravvivenza è in ultima analisi una società deviata e presto o tardi destinata a estinguersi. Come un animale che perde l'istinto e non è più in grado di sopravvivere da solo.
Al di là delle motivazioni morali di Eridan, peraltro assolutamente condivisibili, c'è il fatto che Eridan fa semplicemente ciò che qualsiasi individuo normale avrebbe fatto nella sua situazione. E sono gli altri, quelli che invece avrebbero accettato tutto in modo remissivo, ad avere qualcosa che non va.

Abbiamo parlato dell'Aldisopra e dell'Aldisotto, ma cosa dire dell'Aldifuori? Niente, perché negli altri due mondi non si sa nulla di questo misterioso altrove. A questo punto però la faccenda si complica ulteriormente, perché oltre ai concetti di sopra e sotto Aurora sembra introdurre anche quello di esterno e interno, ma interno a cosa? Qual è la differenza tra i mondi considerati "interni" e quello che sta al di fuori?

... E se ci fosse una terza variabile in gioco? Come la differenza tra mondi veri e mondi falsi?

Accompagnato dall'amica Nara, incontrata nell'Aldisotto (e dotata di una famiglia... Bizzarra, oserei dire) e a sua volta curiosa di scoprire la verità, il giovane Eridan si troverà sull'orlo di una verità molto più grande di quanto avesse immaginato. Ancora una volta mi tocca citare Matrix quando dico: "Resti nel paese delle Meraviglie, e vedrai quant'è profonda la tana del Bianconiglio".






Elisa Costa

giovedì 23 maggio 2019

We are such stuff as dream are made on

Edizioni Ensemble 2019

recensione di Natascia Ancarani



È uscito da poco, nel gennaio 2019, il bel libro di Subhaga Gaetano Failla, La casa sul molo di Nantucket, Edizioni Ensemble. È la sua seconda raccolta di racconti che ho il piacere di leggere, uscita a distanza di circa un decennio dalla prima La signora Irma e le nuvole, Fara Editore. Conoscevo già lo stile perturbante dell’autore, una narrazione dal carattere duplice, quasi contraddittorio, essenziale e misurata da un lato, intensa e lirica dall’altro. A una prima superficiale impressione i racconti sembrerebbero appartenere a generi diversi e mescolati, e forse lo sono, per ispirazione di infinite letture. Alcuni potrebbero essere ascritti al genere della fantascienza, con le infinite variazioni dell’intelligenza artificiale e dei viaggi interstellari, altri sembrano raccogliere frammenti di realtà, un incontro con una vecchia amica, la visita al fratello in Inghilterra, o al contrario impressioni liriche che confinano con la poesia. Ma a una lettura più approfondita si riconosce un tessuto organico che unisce quasi tutti i racconti. Potrei definirlo una singolare commistione fra realtà umana e sogno. I rapporti con altri esseri umani, la percezione del mondo naturale presente, tutto quello che potremmo definire dimensione reale, se esiste, è continuamente mediata, orientata, immaginata, interpretata, dalla sua struttura profonda, la dimensione onirica, il tessuto dei sogni. E questo senza nette divisioni o barriere fra la dimensione conscia e inconscia. L’una trapassa nell’altra, naturalmente.  Ogni impressione, ogni oggetto reale, ogni essere che incontriamo è anche il sogno che ne abbiamo, il modo in cui lo simbolizziamo. La dimensione fantastica può all’improvviso irrompere nella realtà ordinaria, come l’ombra annunciata con spavento, temuta, ma anche fantasticata sognata e desiderata che infine danza con il gruppo dei ribelli, nel racconto La casa sul molo di Nantucket. I sogni, in un altro racconto, diventeranno, al risveglio, oggetti concreti, e il pensiero può, in Messaggi reali, spedire ad altri per qualche minuto un oggetto della propria casa. Anche quando l’autore ha scelto la forma più realistica, ad esempio l’incontro con il fratello a Londra in Theatre, e particolari  precisi descrivono le metropolitane o gli ospedali di Londra, bastano due accenni simbolici, al doppio e all’occhio di dio, allo spettatore universale sopra la vita e la morte, e immediatamente il tessuto realistico si sfalda e frantuma. Rivela la sua struttura nascosta. La sola che, come luogo dell’anima, può farci capire di cosa viviamo.

venerdì 17 maggio 2019

Due importanti incontri all'ISSR Alberto Marvelli di Rimini

Siamo lieti di invitarvi a due appuntamenti in programma la prossima settimana nel nostro Istituto.
Il primo, Lunedì 20 maggio dalle ore 17.00 in Aula Magna, sul tema Una Teologia biblica delle religioni. Criteri e proposte, con il Prof. Giuseppe Bellia (cfr. comunicato stampa allegato).
Il secondo si svolgerà Venerdì 24 Maggio alle ore 17.10 in Aula Magna con la Prof.ssa Luciana M. Mirri e Mons. Alberto Di Chio sul tema Ecumenismo e persecuzione nelle Chiese orientali cattoliche (cfr. programma allegato). Vi invitiamo a diffondere l'invito con quanti sapete essere interessati. Con cordialità,

la Segreteria  ISSR



Corso di Alta Formazione in “Dialogo interreligioso e Relazioni internazionali” Seminari di approfondimento

Criteri e proposte per una teologia delle religioni

L’Istituto Superiore di Scienze Religiose “A. Marvelli” (delle diocesi di Rimini e di San Marino-Montefeltro) è lieto di invitarvi al prossimo e ultimo Seminario di approfondimento, ricerca e confronto inserito all’interno del percorso formativo dedicato al Dialogo Interreligioso e Relazioni Internazionali avviato quest’anno in collaborazione con l’Università degli studi di San Marino. 

Lunedì 20 Maggio 2019 dalle ore 17.00 alle ore 21.00 

(presso l’Aula Magna dell’ISSR “A. Marvelli” – Rimini, via Covignano, 267)

il Prof. Giuseppe Bellia tratterà il tema:

Una teologia biblica delle Religioni? 
Criteri e proposte

Don Giuseppe Bellia è presbitero della Chiesa di Catania, parroco e docente di Teologia biblica e Archeologia biblica presso la Facoltà Teologica di Sicilia a Palermo. È direttore della Rivista “Il Diaconato in Italia” e Animatore Spirituale di Terra Santa. Coordina il comitato promotore di studi neotestamentari e antico-cristiani dell’ABI. È autore di numerose pubblicazioni apparse soprattutto sulla rivista “Ho Theológos”. Segnaliamo in particolare Linee di antropologia neotestamentaria, in M. Crociata (ed), L’uomo al cospetto di Dio. La condizione creaturale nelle religioni monoteiste, Città Nuova, Roma 2004; La dimensione religiosa secondo la prospettiva biblica, in M. Naro (ed), La teologia delle religioni oltre l’istanza apologetica, Città Nuova, Roma 20014.

Nel seminario di Lunedì 20 Maggio, si vuole sollecitare una riflessione e un confronto sulla teologia delle religioni per elaborarne un’epistemologia ancorata all’oggettività del fatto biblico e non reattivamente alle drammatiche pressioni congiunturali. Tutto ciò, per sollevare e approfondire uno dei grandi problemi sottesi al dialogo interreligioso odierno. In particolare, si cercherà di argomentare come sia possibile una fondazione biblica della teologia delle religioni, con riferimento alle religioni d’Israele, quale condizione indispensabile per riconoscere sia l’abbaglio delle interpretazioni non autentiche, sia l’inerzia delle interpretazioni codificate e inattuali del passato. Questo seminario, è l’ultimo previsto per l’anno accademico 18/19 del Corso di Alta Formazione, le attività inizieranno regolarmente da Ottobre 2019 e a breve sarà possibile iscriversi al nuovo anno accademico. Il seminario è rivolto in particolare agli iscritti del Corso di Alta Formazione, ma è aperto anche ad ospiti esterni interessati ad approfondire gli argomenti proposti.

Per ulteriori informazioni ci si può rivolgere alla Segreteria dell’ISSR “A. Marvelli” (Via Covignano n. 265, 47923 Rimini, tel. 0541-751367
Gli Abstracts delle lezioni saranno resi disponibili sul sito http://www.issrmarvelli.it


Commissione diocesana per l’Ecumenismo delle Diocesi di Rimini


L’Istituto Superiore di Scienze Religiose “A. Marvelli” (delle diocesi di Rimini e di San Marino-Montefeltro) e la Commissione diocesana per l’Ecumenismo e il Dialogo Interreligioso della diocesi di Rimini
Sono lieti di invitarvi alla presentazione ufficiale del volume di Memorie del Card. Josyf Slipyj
testimone e figura esemplare della Chiesa perseguitata in Ucraina.

   

Venerdì 24 Maggio 2019 dalle ore 17.10 

(presso l’Aula Magna dell’ISSR “A. Marvelli” – Rimini, via Covignano, 267)

Ecumenismo e persecuzione nelle Chiese Orientali Cattoliche
La testimonianza del Card. Josyf Slipyj attraverso le sue “Memorie”



Attraverso la presentazione delle Memorie del Card. J. Slipyj verrà approfondita la sua straordinaria testimonianza di fede pagata con anni di Gulag e persecuzione, nel più vasto contesto della Chiesa Ucraina e delle Chiese Orientali Cattoliche.

Relatori: Prof.sa Luciana M. Mirri e Mons. Alberto Di Chio

(Curatori dell’opera Memorie di J. Slipyj, Edizioni dell’Università Cattolica Ucraina, 2018)


Luciana Mirri si è laureata all’Università di Bologna e ha conseguito il Dottorato in Sacra Teologia presso la Pontificia Università “S. Tommaso d’Aquino” – Angelicum - in Roma con tesi su S. Girolamo. Specializzata in studi patristici, monachesimo antico, teologia spirituale, teologia e spiritualità russa e ortodossa ed ecumenismo, è docente di Trinitaria, Cristologia e Teologia Spirituale presso lo Studio Teologico Francescano “S. Antonio” in Bologna e di Ecumenismo, Teologia Orientale e Dogmatica presso lo Studio Teologico Domenicano della Facoltà Teologica dell’Emilia Romagna. È membro ordinario della Association International des Ètudes Patristiques. Ha partecipato a Convegni Internazionali di Patristica, Spiritualità, Mariologia (Congresso Internazionale di Jasna Góra 1996), Sindonologia e di Storia dell’Europa dell’Est nel sec. XX e ha collaborato in alcune voci delle opere: Enciclopedia Cattolica Russa (Mosca, 2002-2011); Enciclopedia della Preghiera (Città del Vaticano, 2006); Nuovo Dizionario di Mistica (Città del Vaticano, 2016), in particolare sull’ Immacolata Concezione e Giovanni Paolo II. È autrice di molti contributi scientifici patristici, sul monachesimo e sul francescanesimo e figure dell’Europa dell’Est europeo. Con Mons. Di Chio ha pubblicato volumi sulla vita, l’opera e la missione della Serva di Dio Maria Teresa Carloni e le Lettere del Beato Luigi Stepinac ai Sacerdoti.

Mons. Alberto Di Chio, sacerdote della Chiesa di Bologna, è stato Penitenziere della Cattedrale, direttore del Centro diocesano per le Missioni al Popolo e la Nuova Evangelizzazione, delegato diocesano per l’Ecumenismo, Docente di Teologia pastorale allo Studio Teologico Francescano “Sant’Antonio” in Bologna. È autore e collaboratore di molti libri su figure contemporanee della Chiesa già beatificate, come il Beato Bartolomeo Dal Monte, o per le quali è in corso la Causa di Beatificazione, come i Sacerdoti Martiri di Monte Sole e Maria Teresa Carloni. È impegnato in molte attività pastorali presso parrocchie e di guida in diversi pellegrinaggi, specialmente in Terra Santa.

Per ulteriori informazioni contattare la Segreteria dell’ISSR “A. Marvelli”, Rimini – Via Covignano n.265; Tel. 0541-751367; sito internet: www.issrmarvelli.it; e-mail: segreteria@issrmarvelli.it

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Marco Scalabrino su L'ultima dimora del Re di Rosamaria Rita Lombardo

articolo pubblicato su Lumie di Sicilia, giugno 2019
scheda del libro qui





martedì 14 maggio 2019

“Esercitare il discernimento nella mia relazione con i social network, e la rete, significa abituarmi ad avvertire quali sentimenti si animano in me…”

Andrea Monda intervista su L’Osservatore Romano dell’11 maggio 2019 don Giacomo Ruggeri, che segue preti e consacrati vittime della dipendenza dal web






di ANDREA MONDA © L’Osservatore Romano

Padre Peter-Hans Kolvenbach ha guidato la Compagnia di Gesù dal 1983 al 2008. Un anno prima di lasciare l’incarico di Preposito generale fece una conferenza a Roma, in occasione del seminario sull’accompagnamento spirituale nella tradizione ignaziana. Il suo intervento sulla cura personalis è diventato un testo di riferimento per la pedagogia e la spiritualità ignaziana in ogni servizio apostolico della Compagnia. «Ignazio — scrive padre Kolvenbach — ha fatto un’esperienza che nell’itinerario verso Dio la persona necessita di una cura particolare, cioè dell’aiuto di un compagno di cammino, anche se tale avventura spirituale sarà (secondo lo Spirito che è sempre rigorosamente attento al bene personale) una cura personalis». Se la cura personalis nasce nel contesto degli Esercizi spirituali, nella vita ordinaria è paragonabile a un ponte che permette di trafficare il vissuto della persona in tutti gli ambienti della sua vita quotidiana. Nel tempo attuale, a distanza di cinquecento anni dall’esperienza del basco Iñigo López di Loyola, uno di questi ambienti di necessario e concreto esercizio della cura personalis è il mondo digitale di internet e dei social network. Ne parliamo con don Giacomo Ruggeri, sacerdote della diocesi di Concordia-Pordenone (Friuli-Venezia Giulia), che studia le mutazioni antropologiche della comunicazione nella società di oggi e, in questi anni, ha approfondito la connessione profonda tra cura personalis, Internet e i profili social.

Da dove nasce, don Ruggeri, la sua riflessione sul rapporto — non così automatico e scontato — tra la “cura personalis” e le dinamiche di Internet?

Come prete diocesano, da oltre venticinque anni di ministero, trovo nella pedagogia ignaziana un nutri- mento solido alla mia vita e al ministero. Durante i colloqui con gli esercitanti, negli Esercizi spirituali, avverto che tra le cause di disordine interiore vi è la relazione invasiva che la persona ha con smartphone, computer, iPad e l’intero mondo della rete. Al tempo di Ignazio vi erano altre dinamiche. Ritengo che le piattaforme digitali, che ognuno di noi si porta in tasca con uno specifico strumento, rappresentino una grande sezione dell’ospedale da campo sul quale insiste Papa Bergoglio. Esercitare la cura personalis in Internet significa accompagnare la persona nella relazione che intesse non tanto (solo) con lo strumento in sé, ma con quanto esso rappresenta, significa per la sua vita. Le dinamiche digitali lasciano ferite invisibili verso le quali non sempre la persona è pienamente cosciente. Esercitare la cura con lo smartphone in mano, dunque, vuol dire avermi a cuore e avere a cuore la persona accanto a me. Gli esempi concreti non mancano.

Ce ne può fare uno?

Girando l’Italia ho l’occasione di incontrare e parlare ai preti nell’incontro di formazione del presbiterio, su invito del vescovo. Dalle domande che mi rivolgono, e soprattutto nei colloqui personali a fine relazione, si intuisce che il cellulare rappresenta molto di più di ciò che è. Nel tempo attuale il ministero del prete è sottoposto a molteplici pesi, fatiche, tensioni. Di conseguenza, sono poche le gratificazioni, naturali in ogni persona. Ebbene: aprire lo smartphone, ad esempio per un prete, può significare l’attivazione che definisco il “grido delle parole mute”. Non è sufficiente vedersi tra preti per imparare a conoscersi, perché il tempo che si sta assieme è sempre meno, e sovente non si va in profondità. Uno dei disordini interiori che registro nei preti è l’allargarsi della forbice temporale che, durante la giornata, vivono nel rapporto duale ed esclusivo con la testa ricurva sul proprio smartphone. Definisco il cellulare la “pompa icronovora”, ovvero che si mangia il tempo, il mio tempo, mi divora dentro, assorbendomi il pensiero, corrodendo la profondità, cambiandomi progressivamente e carsicamente nel modo di ragionare, pregare, servire, lavorare, parlare, relazionarmi, ecc. Quando entro nel mio profilo social, e delle altre persone, sono inconsciamente contaminato da sentimenti digitali pervasivi. Una volta che ne esco, e chiudo il cellulare, non sono più la persona di prima. Per quanto poco, o molto, sia stato il tempo che ho abitato nella rete, essa inconsciamente, mi lavora dentro. La cura personalis, dunque, è accompagnare la persona affinché arrivi, con le sue gambe, a consapevolezza di ciò che sta avvertendo e avvenendo in sé.

Nella tradizione della Chiesa l’accompagnamento avviene incontrandosi di persona. Come si può esercitare tale servizio nelle relazioni digitali?

L’incontro de visu deve rimanere un punto saldo e irrinunciabile. La stessa psicologia, ad esempio, si sta seriamente interrogando sul rapporto medico-paziente nel tempo di internet, con l’uso di Skype ad esempio, avendo alle spalle però una relazione che perdura da tempo. Le vie e le forme concrete dell’accompagnamento, mediante le tecnologie, possono essere molteplici. Il punto che evidenzio, però, non è sullo strumento in sé da utilizzare, ma sullo stile e sulla sostanza del sapermi prendere cura di una persona. Un accenno: mi capita di ricevere mail lunghissime da parte di religiose, monache, preti. In tali casi affermo che lo schermo scherma. Come a dire: l’accompagnamento spirituale può avere un avvio nelle vie digitali, ma deve maturare e crescere nell’incontro personale, perché lo schermo è la nuova via di fuga da sé e dalle relazioni faticose e conflittuali.

Padre Federico Lombardi sj nella prefazione al suo libro di dottorato in teologia (Ordinare i frammenti. Discernimento e cura personalis: la pedagogia di S. Ignazio di Loyola, Fara ed., pp. 318, 2016, euro 18), scrive che “bisogna essere ben consapevoli della profondità delle implicazioni antropologiche ed esistenziali del vivere nella società digi- tale, dei rischi ma anche delle possibilità”. Quali sono oggi, secondo lei, gli ambiti interiori a essere chiamati in causa?

Una su tutte è il silenzio. Oggi il silenzio è a caro prezzo. In treno, se vuoi viaggiare tranquillo, devi pagare un biglietto a tre cifre. Il silenzio è scomparso anche nella pastorale, nella vita della comunità perché il silenzio è faticoso, è duro. Anche se non ho il telefono acceso, le dinamiche digitali hanno la potenza di tenermi concentrato sulle parole che scrivo in rete, le foto che commento, i video che scarico, il surfing digitale che pratico sul mio schermo. A fare le spese di questo mancato silenzio, ovviamente, è la vita interiore. Internet mi tiene ben ancorato alla superficie, attivando in me una graduale disaffezione a ciò che si muove in me e, soprattutto, a come si muove. La superficie mi impedisce di dare un nome alla voce del profondo. Un altro ambito antropologico è quello che chiamo vita in vetrina digitale. Devo chiedermi: perché voglio sapere tutto di tutti? Da dove nasce tale bisogno? Il profilo social, più che per me, è per gli altri, per come voglio essere visto, pensato, amato, accolto, accettato. Con le applicazioni posso fare tutte le modifiche, pagando poi a caro prezzo il confronto con la realtà, nuda e cruda.

Papa Francesco in diverse occasioni (la più recente nell’incontrare gli studenti del liceo Visconti di Roma) richiama non solo la prudenza verso gli stru- menti digitali, ma in essi vede il terreno per nuove dipendenze e patologie. Dal suo osservatorio, don Ruggeri, cosa può dirci in merito?

Tutti sono coinvolti: preti, frati, suore, seminaristi, vescovi, madri generali, badesse, genitori, catechisti. La dipendenza è trasversale perché intercetta i desideri e li trasforma in bisogni. Vescovi e madri generali che mi chiedono di aiutarli con non pochi casi di preti, religiosi, religiose divenuti dipendenti dallo smartphone, dall’uso e abuso dei social, dalla curiosità che si trasforma in reale di- pendenza specie con siti pornografici, gioco d’azzardo on line, visione ossessiva compulsiva di Youtube (ed altro che merita una trattazione a sé). Mi rendo conto, inoltre, che vi è una mancata conoscenza dei confini da non valicare. Essere preti o suore, seminaristi o vescovi non mi autorizza, rafforzato dal ruolo, a muovermi come voglio nella rete dei social e di Internet. Le mie parole, in rete, hanno valore doppio. Anzi, proprio perché ho un ruolo pubblico devo conoscere recinti e paletti che mi salvano e mi tutelano dal cadere anche in reati penali. La dipendenza, dunque, non è la fine e nemmeno il fallimento, perché nessuno è mai perduto per sempre. Se nell’ospedale sono curato per una malattia riconosciuta e scoperta, nelle dipendenze digitali che coinvolgono preti, consacrati, formatori dovrò lavorare su ciò che non è né riconosciuto, né consapevole, perché la potenza del digitale affonda le sue radici nel mio inconscio narcotizzandolo con l’avere, il possedere, come l’acquisto compulsivo su Amazon.

«Don Ruggeri propone una strada praticabile: quella del discernente digitale. È la metafora del tempo maturo di quest’epoca: pensare a come si possa, al tempo del digitale, trovare lo spazio per il discernimento». Con queste parole Pier Cesare Rivoltella, docente all’Università Cattolica di Milano, in troduce il suo libro edito con Il Pozzo di Giacobbe “Prete in clergyphone. Discernimento e formazione sacerdotale nelle relazioni digitali” (2018, pp. 151, euro 15). Secondo lei qual è la connessione tra discernimento, cura personalis, social network?

Discernere non significa, primariamente, decidere. Discernere chiede di distinguere. Esercitare il discernimento nella mia relazione con i social network, e la rete, significa abituarmi ad avvertire quali sentimenti si animano in me, da dove vengono e dove mi conducono. La cura personalis, dunque, è allenarmi a non vivere una vita che definisco da “randagismo digitale”, ovvero muovermi nella rete con scarsa consapevolezza, per vedermi trasformato interiormente e senza accorgermene. La non consapevolezza genera disordine, terreno dove le parole si incattiviscono, avvelenano. Con questi sentimenti impastati nel digitale, mi ritrovo a pregare, amare, parlare, vivere, non senza conseguenze (qui si può aprire la riflessione sulla mole di tempo che vivo ricurvo sullo schermo). Il discernimento non è la terapia, ma è la buona cura preventiva per ben orientarmi al bene, al meglio, nella consapevolezza che ciò che chiamo male non è mai né nelle cose, né nelle persone, né in Internet, ma nella qualità relazionale che vi instauro.

Da quanto lei afferma la cura personalis in Internet rappresenta la frontiera operativa su più versanti: teologia, pastorale, formazione nei seminari, nel presbiterio, istituti e congregazioni. Ci può accennare, don Ruggeri, tre punti concreti per esercitare la cura personale nelle mutazioni digitali?

Primo punto: cercare e trovare Dio in tutte le cose, Internet incluso, perché qui c’è la persona e la cura animarum si trasforma in cura personalis lì dove la persona abita, vive, soffre, gioisce. La rete non può essere più una sfida per la Chiesa, ma deve essere una scelta hic et nunc (penso, ad esempio, alla necessaria revisione del Direttorio delle comunicazioni sociali della Chiesa italiana di quindici anni fa). Secondo punto: per un giovane che si prepara al sacerdozio e una ragazza alla vita religiosa, il rapporto con quello che chiamo “pensiero mutante digitale” deve essere oggetto di confronto tra équipe educativa e candidati. Oggi non può essere marginalizzata la pervasività che esercita la forza del digitale nella persona che si dona a Dio, ma è bene strutturarla come materia nello studio teologico per chi sceglie di diventare sacerdote, suora, religioso. Terzo punto: Internet è una ricchezza, ma può impoverire la persona. Mettere in atto percorsi di formazione nelle diocesi, nelle congregazioni, nelle parrocchie parificando le dinamiche digitali — come importanza, investimento di forze, energie, persone — ai tria munera di catechesi, liturgia, carità. Internet non è un luogo, è lo spazio di pensiero, azione, movimento, scelta, decisione che ci vede tutti presenti. Non basta esserci, bisogna scegliere il come. Prendermi cura nell’abitarci e accompagnare le persone è la cura personalis dell’ospedale da campo additato da Bergoglio.

lunedì 13 maggio 2019

L’alba



Monet-Impression-soleil-levant

         
                                                                                In memoria di Claudio G.
   
   – Una mosca.
  ­ – Oh, sì, una mosca.
   La stanza s’immergeva lentamente nell’oscurità. Un giorno di maggio, la sua luce che pareva interminabile, il rosseggiare del tramonto per le strade del piccolo paese. Talvolta il ronzio d’un motore d’automobile o i passi metallici d’un robot accompagnato dal suo proprietario spezzavano il primo silenzio verso la notte.
   Herbert osservò meglio l’insetto. Sembrava smarrito, forse moribondo. La mosca volava a stento. Si posò sul muro grigio della stanza, adesso quasi svaniva, sospesa nell’inerzia, con le ali rigide. L’uomo avrebbe potuto accendere l’abat-jour sul comodino, ma non lo fece. Rimandava quel gesto, in una sorta di pudore. Le ombre proteggevano lui e Jules.
   Herbert era seduto su una vecchia sedia di legno, Jules sul bordo del grande letto coperto da una trapunta verde. Sul lato più distante del letto giaceva Shihab, morto all’approssimarsi dell’alba. Si erano fermati nella casa deserta dell’amico defunto, dopo il sommesso passaggio delle visite funebri. Avrebbero atteso insieme la nuova luce.
    – Ne ho vista un’altra l’anno scorso, in Spagna. Volava nella casa di campagna della nostra vacanza estiva – disse Herbert.
    – Io quasi non ricordavo più com’era fatta una mosca – mormorò Jules.
    – Guarda questa foto. L’ho scattata in Spagna.
   Herbert bisbigliò sul proprio ringphone infilato nell’anulare sinistro:
    – Mosca. Spagna. Agosto 2070.
   Il ringphone proiettò, alcuni centimetri al di sopra delle dita, l’immagine d’una mosca, nitidissima e tridimensionale, più grande del dorso della mano. La foto rischiarò per un poco la stanza avvolta nel buio del lutto e nei veli del crepuscolo.
   Jules si alzò stancamente dalla sedia, con la schiena piegata si avviò verso la cucina, poi quel corpo magro e minuto sparì oltre una porta. Herbert sentì dei bassi singhiozzi e incomprensibili parole farfugliate. Raggiunse l’amico. Era raggomitolato come un vecchio cucciolo, il suo lieve peso era sostenuto da una credenza scura. Herbert gli sfiorò la schiena, in silenzio.
   La notte aveva ormai invaso le stanze. I due uomini si mossero piano nell’oscurità del corridoio. Raggiunsero nuovamente la camera dell’amico immobile sul letto.
   E allora la voce di Jules, in un mormorio quieto e commovente, volteggiò nell’aria:
   Gli azzurri fiumi e le rogge trasparenti… Darei l’intera Montedison per una lucciola.
   – Pasolini. L’articolo della scomparsa delle lucciole – disse Herbert. – Che bello. Tu hai mai visto una lucciola, Jules? 
   L’abat-jour diffuse finalmente un chiarore fioco. Ondeggianti ragnatele d’ombra attraversavano il viso di Shihab deposto sul cuscino. L’espressione di quel volto assente, al contempo austera e dolce, non sembrava costretta nella definitiva fissità, ma pareva cambiare con gli arabeschi creati dalla notte e nelle visioni ai confini del sogno.
     Ero con Shihab, molto tempo fa. Avevamo forse quindici anni – rispose infine Jules, dopo aver  seguito a lungo il ricordo. Adesso poteva iniziare il racconto dell’antica vicenda. Ma prima di farlo, si accorse di essersi riferito all’amico defunto come se quel corpo fosse ormai un involucro vuoto, come se Shihab non fosse più lì. E allora Jules, confuso, si corresse e, indicando con un movimento della testa l’amico morto, quasi a coinvolgerlo nel ricordo, disse:
   – Eravamo insieme, tanto tempo fa. Forse era luglio, uno di quei giorni infiniti in cui non vorresti mai tornare a casa. E allora di notte decidemmo di andare giù, presso le vecchie fonti pubbliche, senz’acqua adesso ormai da decenni. Ci tuffammo a precipizio, di corsa, urlando, lungo la discesa che porta fuori dal paese. Non c’era alcun pensiero, solo movimento e respiro e il cielo stellato che vorticava sopra di noi. Probabilmente eravamo in quello stato misterioso che qualcuno chiama felicità. Nessuna illuminazione elettrica corrompeva l’oscurità che pareva di velluto. Un profumo, il profumo della notte, ci avvolse… Oh, e c’erano i grilli e il mormorio dell’acqua… E allora, trattenendo il fiato, ci inoltrammo un poco in un campo, nell’erba alta e nel trifoglio.  Apparvero le lucciole, centinaia e centinaia, oscillavano leggerissime nell’aria fresca. Bagliori fatati, intermittenti, punteggiavano l’oscurità. Pensai che quelle minuscole creature ci stessero aspettando…
   Jules accese una sigaretta, aspirò il primo tiro con avidità. Herbert ne chiese una anche per sé, la fiamma dell’accendino illuminò parte dei loro visi. I due amici erano divenuti simili a parvenze, fantasmi malinconici e benevoli che fumano una sigaretta.
   – Io non ho mai visto una lucciola. Ma quando ero ragazzino vidi una coccinella. Si posò sul mio braccio. Non sapevo nemmeno che insetto fosse, ma mi piacevano molto quelle macchioline di colore con le alucce tremanti sopra di me. Ero con mio padre. Fu lui a svelarmi il nome, coccinella. Già… Pasolini lo consideravano una specie di pazzo. Puoi immaginare un secolo fa cosa potevano pensare d’un uomo che era allo stesso tempo un poeta, un gay e perfino un comunista… Ma cinquant’anni dopo alcuni scienziati lanciarono l’allarme. Io lo ricordo. Nel mio animo di bambino vissi la notizia come un incubo. “Tra dieci anni, a causa dei pesticidi e del riscaldamento globale, spariranno un quarto degli insetti, e il processo di estinzione continuerà a velocità impressionante” dicevano gli scienziati. Nel giro di qualche decennio sarebbe sparita la maggior parte degli insetti, e poi sarebbero svanite anche molte piante, per mancanza di impollinazione, e gli uccelli, i pesci, i rettili e gli anfibi, tutti quegli animali che hanno bisogno di insetti per sfamarsi. Purtroppo, molto prima invece sparirono le notizie e le voci allarmate degli scienziati, censurate dal potere politico ed economico.
    – Io ricordo le lucertole. Poveri animaletti, come li torturavamo. Ho sentito dire che in alcuni posti sperduti dell’India ancora esistono le lucertole  – disse Jules. La sua voce era affaticata, le ultime parole si percepirono con difficoltà. Spense il mozzicone che aveva in bocca e subito dopo accese un’altra sigaretta.
   – Io glielo avevo detto di andare in ospedale, si capiva che stava male… Shihab, svegliati, dài, adesso basta… Svegliati, Shihab…  – Jules sapeva di pronunciare parole insensate, ma in qualche modo credeva nella potenza di quell’implorazione, sperava in un incantesimo o nella conclusione d’un pessimo scherzo durato troppo a lungo. Poi, di nuovo, si curvò su sé stesso, come un essere fragilissimo, e cominciò a singhiozzare piano e a biascicare parole spezzate.
   La notte si era impadronita della casa e del piccolo paese. Anche gli ultimi rumori provenienti dagli appartamenti vicini e quelli che giungevano dalla strada, erano cessati. Uomini e robot domestici ricaricavano la loro energia, in attesa di tornare nelle azioni da compiere il giorno seguente. Cicli di luce e oscurità da attraversare, ripetutamente, fino alla fine. O forse fino a una ulteriore trasformazione.
   Herbert si alzò dalla sedia, andò in cucina per bere un bicchiere d’acqua. Sul tavolo c’era qualcosa di sferico che sembrava emanare luce propria, una inquietante luminosità rossiccia. Herbert sapeva di che si trattava, aveva visto più volte quella cosa. Lesse per l’ennesima volta la frase che Shihab aveva scritto su un pezzetto di carta, con accanto una faccina sorridente disegnata a penna. C’era scritto: “Questa è un’arancia.” Una esplicita inversione di senso riferita alla pipa di Magritte. Quante volte i tre amici ne avevano riso assieme.
   La mostruosità era stata comprata per gioco, spendendo pure una somma considerevole. Un loro gesto fanciullesco a irrisione della follia umana. Si trattava di una arancia costruita in laboratorio e in vendita nei mercati specializzati: perfettamente sferica, splendente, senza la pur minima ruga sulla superfice levigata. E poi quella luce. Gli agrumi ormai erano rarissimi, in tutto il mondo. E allora avevano inventato la cosa. Pochi scervellati ne mangiavano gli spicchi intrisi d’un liquido  che virava dal giallo al  verde militare.
   Herbert bevve l’acqua, poi preparò un caffè. Ebbe una sensazione di estraneità, come se la visione del liquido nero fumante e la percezione dell’aroma fossero esperienze sensoriali mai provate prima. Riempì una tazzina anche per Jules.
   L’amico aveva il capo chino sul petto e gli occhi chiusi. Ma in un attimo si svegliò. Fece una esclamazione infantile di sorpresa, ringraziò, bevve il caffè. Poi accese una sigaretta.
   – Che dici, apriamo un po’ la finestra?  – chiese Herbert.  – In questa stanza non si respira.
   Entrò l’aria nuova, ed era simile a una carezza.

   La notte s’inoltrava verso il culmine. I due amici raccontarono vecchie storie che sembravano dimenticate e sgorgavano invece da una sorgente nascosta. Talvolta ridevano forte, a lungo, e Shihab continuava a rimanere in silenzio, come faceva in vita, quando al racconto delle vicende giovanili sorrideva soltanto, felice di ascoltare. Incredibilmente, trascorsero anche quelle ore.
   – Tra poco sarà l’alba e comincerà a venire qualcuno. Come troverò poi la forza di organizzare il funerale?  – mormorò Jules, sapendo che al mattino l’amico sarebbe andato via, al lavoro.
   E proprio in quel momento entrò nella stanza una donna d’una certa età. Era in vestaglia, una vicina di casa di Shihab.
   Salutò a bassa voce, diede ai due uomini un bacio sulle guance a accennò un abbraccio. Si avvicinò al letto, fece il segno della croce, guardò il viso del morto. Rimase lì in piedi. Si capiva che i pensieri della donna si erano subito smarriti in quello sguardo, mischiati in una specie di sogno del dormiveglia. Infine, andò via, accompagnando i suoi passi con un lieve cenno di commiato. La porta, lasciata aperta dalla sera precedente, sembrava adesso spalancata, un varco definitivamente violato.

   Dalla finestra giunse il primo chiarore. Il volto di Shihab era diventato di cera e non si muoveva più. Jules andò al balcone del soggiorno, esposto a oriente. Herbert lo seguì. Rimasero così, appoggiati alla ringhiera, fianco a fianco, intorpiditi, rabbrividendo un poco nell’aria fresca dell’alba.
   E fu allora che sentirono il profumo.
   Colpì dapprima Jules, il quale mosse la testa, sorpreso. Dilatò inavvertitamente le narici, seguendo un effluvio invisibile. Quasi s’innalzava senza peso, come in certe scene di vecchi cartoni animati, quando il protagonista, in una sorta d’ipnosi, si lasciava rapire da un profumo, volteggiando a mezz’aria, col naso proteso come un radar.
    Jules guardò l’amico.
    – L’hai sentito anche tu? Non è possibile.
    – Sì, ma non è possibile – sussurrò Herbert.
    – È quel che sento anch’io? Ero un bambino di sei o sette anni… Dimmi, cos’è?
    – Zagare…
    – Sì, zagare… il profumo dei fiori d’arancio…
    Una luce d’opale tingeva i tetti di tegole. I due amici inspirarono quel profumo in un gesto estremo. Infine, con gli occhi bagnati di lacrime, osservarono il miracolo dell’alba.

(Colonna sonora: Arvo Pärt:  Te Deum, Stabat Mater, Tabula Rasa; Philip Glass: Metamorphosis)