Monet-Impression-soleil-levant |
In memoria di Claudio G.
– Una mosca.
– Oh, sì, una mosca.
La stanza s’immergeva lentamente nell’oscurità. Un giorno di maggio, la
sua luce che pareva interminabile, il rosseggiare del tramonto per le strade
del piccolo paese. Talvolta il ronzio d’un motore d’automobile o i passi
metallici d’un robot accompagnato dal suo proprietario spezzavano il primo
silenzio verso la notte.
Herbert osservò meglio l’insetto. Sembrava smarrito, forse moribondo. La
mosca volava a stento. Si posò sul muro grigio della stanza, adesso quasi
svaniva, sospesa nell’inerzia, con le ali rigide. L’uomo avrebbe potuto
accendere l’abat-jour sul comodino, ma non lo fece. Rimandava quel gesto, in
una sorta di pudore. Le ombre proteggevano lui e Jules.
Herbert era seduto su una vecchia sedia di legno, Jules sul bordo del
grande letto coperto da una trapunta verde. Sul lato più distante del letto
giaceva Shihab, morto all’approssimarsi dell’alba. Si erano fermati nella casa
deserta dell’amico defunto, dopo il sommesso passaggio delle visite funebri.
Avrebbero atteso insieme la nuova luce.
– Ne ho vista un’altra l’anno
scorso, in Spagna. Volava nella casa di campagna della nostra vacanza estiva –
disse Herbert.
– Io quasi non ricordavo più com’era fatta una mosca – mormorò Jules.
– Guarda questa foto. L’ho scattata in Spagna.
Herbert bisbigliò sul proprio ringphone
infilato nell’anulare sinistro:
– Mosca. Spagna. Agosto 2070.
Il ringphone proiettò,
alcuni centimetri al di sopra delle dita, l’immagine d’una mosca, nitidissima e
tridimensionale, più grande del dorso della mano. La foto rischiarò per un poco
la stanza avvolta nel buio del lutto e nei veli del crepuscolo.
Jules si alzò stancamente dalla sedia, con la schiena piegata si avviò
verso la cucina, poi quel corpo magro e minuto sparì oltre una porta. Herbert
sentì dei bassi singhiozzi e incomprensibili parole farfugliate. Raggiunse
l’amico. Era raggomitolato come un vecchio cucciolo, il suo lieve peso era
sostenuto da una credenza scura. Herbert gli sfiorò la schiena, in silenzio.
La notte aveva ormai invaso le stanze. I due uomini si mossero piano
nell’oscurità del corridoio. Raggiunsero nuovamente la camera dell’amico
immobile sul letto.
E allora la voce di Jules, in un mormorio quieto e commovente, volteggiò
nell’aria:
– Gli azzurri fiumi e le rogge
trasparenti… Darei l’intera Montedison per una lucciola.
– Pasolini. L’articolo della scomparsa delle lucciole – disse Herbert. –
Che bello. Tu hai mai visto una lucciola, Jules?
L’abat-jour diffuse finalmente un chiarore fioco. Ondeggianti ragnatele
d’ombra attraversavano il viso di Shihab deposto sul cuscino. L’espressione di
quel volto assente, al contempo austera e dolce, non sembrava costretta nella
definitiva fissità, ma pareva cambiare con gli arabeschi creati dalla notte e
nelle visioni ai confini del sogno.
– Ero con Shihab, molto tempo fa.
Avevamo forse quindici anni – rispose infine Jules, dopo aver seguito a lungo il ricordo. Adesso poteva
iniziare il racconto dell’antica vicenda. Ma prima di farlo, si accorse di
essersi riferito all’amico defunto come se quel corpo fosse ormai un involucro
vuoto, come se Shihab non fosse più lì. E allora Jules, confuso, si corresse e,
indicando con un movimento della testa l’amico morto, quasi a coinvolgerlo nel
ricordo, disse:
– Eravamo insieme, tanto tempo fa. Forse era luglio, uno di quei giorni
infiniti in cui non vorresti mai tornare a casa. E allora di notte decidemmo di
andare giù, presso le vecchie fonti pubbliche, senz’acqua adesso ormai da
decenni. Ci tuffammo a precipizio, di corsa, urlando, lungo la discesa che
porta fuori dal paese. Non c’era alcun pensiero, solo movimento e respiro e il
cielo stellato che vorticava sopra di noi. Probabilmente eravamo in quello
stato misterioso che qualcuno chiama felicità. Nessuna illuminazione elettrica
corrompeva l’oscurità che pareva di velluto. Un profumo, il profumo della
notte, ci avvolse… Oh, e c’erano i grilli e il mormorio dell’acqua… E allora,
trattenendo il fiato, ci inoltrammo un poco in un campo, nell’erba alta e nel
trifoglio. Apparvero le lucciole,
centinaia e centinaia, oscillavano leggerissime nell’aria fresca. Bagliori
fatati, intermittenti, punteggiavano l’oscurità. Pensai che quelle minuscole
creature ci stessero aspettando…
Jules accese una sigaretta, aspirò il primo tiro con avidità. Herbert ne
chiese una anche per sé, la fiamma dell’accendino illuminò parte dei loro visi.
I due amici erano divenuti simili a parvenze, fantasmi malinconici e benevoli
che fumano una sigaretta.
– Io non ho mai visto una lucciola. Ma quando ero ragazzino vidi una
coccinella. Si posò sul mio braccio. Non sapevo nemmeno che insetto fosse, ma
mi piacevano molto quelle macchioline di colore con le alucce tremanti sopra di
me. Ero con mio padre. Fu lui a svelarmi il nome, coccinella. Già… Pasolini lo
consideravano una specie di pazzo. Puoi immaginare un secolo fa cosa potevano
pensare d’un uomo che era allo stesso tempo un poeta, un gay e perfino un
comunista… Ma cinquant’anni dopo alcuni scienziati lanciarono l’allarme. Io lo
ricordo. Nel mio animo di bambino vissi la notizia come un incubo. “Tra dieci
anni, a causa dei pesticidi e del riscaldamento globale, spariranno un quarto
degli insetti, e il processo di estinzione continuerà a velocità
impressionante” dicevano gli scienziati. Nel giro di qualche decennio sarebbe
sparita la maggior parte degli insetti, e poi sarebbero svanite anche molte
piante, per mancanza di impollinazione, e gli uccelli, i pesci, i rettili e gli
anfibi, tutti quegli animali che hanno bisogno di insetti per sfamarsi.
Purtroppo, molto prima invece sparirono le notizie e le voci allarmate degli
scienziati, censurate dal potere politico ed economico.
– Io ricordo le lucertole. Poveri animaletti, come li torturavamo. Ho
sentito dire che in alcuni posti sperduti dell’India ancora esistono le
lucertole – disse Jules. La sua voce era
affaticata, le ultime parole si percepirono con difficoltà. Spense il mozzicone
che aveva in bocca e subito dopo accese un’altra sigaretta.
– Io glielo avevo detto di andare in ospedale, si capiva che stava male…
Shihab, svegliati, dài, adesso basta… Svegliati, Shihab… – Jules sapeva di pronunciare parole insensate,
ma in qualche modo credeva nella potenza di quell’implorazione, sperava in un
incantesimo o nella conclusione d’un pessimo scherzo durato troppo a lungo.
Poi, di nuovo, si curvò su sé stesso, come un essere fragilissimo, e cominciò a
singhiozzare piano e a biascicare parole spezzate.
La notte si era impadronita della casa e del piccolo paese. Anche gli
ultimi rumori provenienti dagli appartamenti vicini e quelli che giungevano
dalla strada, erano cessati. Uomini e robot domestici ricaricavano la loro
energia, in attesa di tornare nelle azioni da compiere il giorno seguente.
Cicli di luce e oscurità da attraversare, ripetutamente, fino alla fine. O
forse fino a una ulteriore trasformazione.
Herbert si alzò dalla sedia, andò in cucina per bere un bicchiere
d’acqua. Sul tavolo c’era qualcosa di sferico che sembrava emanare luce
propria, una inquietante luminosità rossiccia. Herbert sapeva di che si
trattava, aveva visto più volte quella cosa.
Lesse per l’ennesima volta la frase che Shihab aveva scritto su un pezzetto
di carta, con accanto una faccina sorridente disegnata a penna. C’era scritto: “Questa è un’arancia.” Una esplicita
inversione di senso riferita alla pipa di Magritte. Quante volte i tre amici ne
avevano riso assieme.
La mostruosità era stata comprata per gioco, spendendo pure una somma
considerevole. Un loro gesto fanciullesco a irrisione della follia umana. Si
trattava di una arancia costruita in
laboratorio e in vendita nei mercati specializzati: perfettamente sferica,
splendente, senza la pur minima ruga sulla superfice levigata. E poi quella
luce. Gli agrumi ormai erano rarissimi, in tutto il mondo. E allora avevano
inventato la cosa. Pochi scervellati
ne mangiavano gli spicchi intrisi d’un liquido
che virava dal giallo al verde
militare.
Herbert bevve l’acqua, poi preparò un caffè. Ebbe una sensazione di
estraneità, come se la visione del liquido nero fumante e la percezione
dell’aroma fossero esperienze sensoriali mai provate prima. Riempì una tazzina
anche per Jules.
L’amico aveva il capo chino sul petto e gli occhi chiusi. Ma in un
attimo si svegliò. Fece una esclamazione infantile di sorpresa, ringraziò,
bevve il caffè. Poi accese una sigaretta.
– Che dici, apriamo un po’ la finestra?
– chiese Herbert. – In questa
stanza non si respira.
Entrò l’aria nuova, ed era simile a una carezza.
La notte s’inoltrava verso il culmine. I due amici raccontarono vecchie
storie che sembravano dimenticate e sgorgavano invece da una sorgente nascosta.
Talvolta ridevano forte, a lungo, e Shihab continuava a rimanere in silenzio,
come faceva in vita, quando al racconto delle vicende giovanili sorrideva
soltanto, felice di ascoltare. Incredibilmente, trascorsero anche quelle ore.
– Tra poco sarà l’alba e comincerà a venire qualcuno. Come troverò poi
la forza di organizzare il funerale? –
mormorò Jules, sapendo che al mattino l’amico sarebbe andato via, al lavoro.
E proprio in quel momento entrò nella stanza una donna d’una certa età.
Era in vestaglia, una vicina di casa di Shihab.
Salutò a bassa voce, diede ai due uomini un bacio sulle guance a accennò
un abbraccio. Si avvicinò al letto, fece il segno della croce, guardò il viso
del morto. Rimase lì in piedi. Si capiva che i pensieri della donna si erano
subito smarriti in quello sguardo, mischiati in una specie di sogno del
dormiveglia. Infine, andò via, accompagnando i suoi passi con un lieve cenno di
commiato. La porta, lasciata aperta dalla sera precedente, sembrava adesso
spalancata, un varco definitivamente violato.
Dalla finestra giunse il primo chiarore. Il volto di Shihab era
diventato di cera e non si muoveva più. Jules andò al balcone del soggiorno,
esposto a oriente. Herbert lo seguì. Rimasero così, appoggiati alla ringhiera,
fianco a fianco, intorpiditi, rabbrividendo un poco nell’aria fresca dell’alba.
E fu allora che sentirono il profumo.
Colpì dapprima Jules, il quale mosse la testa, sorpreso. Dilatò
inavvertitamente le narici, seguendo un effluvio invisibile. Quasi s’innalzava
senza peso, come in certe scene di vecchi cartoni animati, quando il
protagonista, in una sorta d’ipnosi, si lasciava rapire da un profumo,
volteggiando a mezz’aria, col naso proteso come un radar.
Jules guardò l’amico.
– L’hai sentito anche tu? Non è possibile.
– Sì, ma non è possibile – sussurrò Herbert.
– È quel che sento anch’io? Ero un bambino di sei o sette anni… Dimmi,
cos’è?
– Zagare…
– Sì, zagare… il profumo dei fiori d’arancio…
Una luce d’opale tingeva i tetti di tegole. I due amici inspirarono quel
profumo in un gesto estremo. Infine, con gli occhi bagnati di lacrime,
osservarono il miracolo dell’alba.
(Colonna
sonora: Arvo Pärt: Te Deum, Stabat Mater, Tabula Rasa; Philip Glass: Metamorphosis)
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