Posted on 29 luglio 2014
di Francesco Filia in
L’idea della letteratura con i piedi mi
ha fatto pensare sia al camminare che allo scrivere male e quindi alla
doppia accezione del verbo errare. Scrivere è un camminare, un procedere
di passo in passo, di piede in piede, basti pensare alla metrica
quantitativa delle lingue classiche. La poesia, prima orale e poi
scritta, nasce con i piedi, il cui battere serviva a dare il ritmo del
verso, la cui unità di misura era il piede, che era formato da due o più
sillabe brevi o lunghe che costituivano la misura del verso. Nel piede,
inoltre, i due elementi distinti, uno forte, chiamato arsi e segnato
dall’ictus, uno più debole chiamato tesi dove la voce si abbassa, sono
la misura della voce e del respiro e rendono la poesia inseparabile dal
corpo che la dice. Il peregrinare degli aedi nella Grecia arcaica di
corte in corte per raccontare storie di uomini, di guerre, di viaggi, in
cambio di ospitalità per poi riprendere la marcia, almeno così ci piace
immaginarli, rende in maniera archetipica l’unità originaria tra passo,
voce, racconto e memoria che è alla base della nostra civiltà e del
modo in cui si è autorappresentata. I piedi sono ciò che ci lega alla
terra, al suolo, al nostro specifico stare al mondo, basti pensare alla
postura eretta, e al tempo stesso ci permettono di slanciarci verso
l’alto, quindi allargare con la vista l’orizzonte della nostra
percezione. Senza i piedi sui quali poggiamo il nostro corpo, non
potremmo vedere quel che vediamo e quindi neanche immaginare quello che
immaginiamo (senza i piedi Dante non avrebbe potuto vedere le stelle e
quindi scrivere la Commedia). Essi rimandano subito al
camminare, al respirare, al parlare e la poesia non è altro che il più
intimo respiro che tenta di dire il nostro rapporto col mondo, con il
destino che muove le vite dei mortali. Quando camminiamo, magari su
strade non abituali, su percorsi non conosciuti e sentieri – per me che
sono un animale cittadino quando mi inoltro in periferia o per stradine
secondarie − corriamo il rischio di perderci, di non sapere dove andare o
corriamo il rischio di non saper tornare (e qui è la figura di Odisseo
che ci viene incontro), oppure abbiamo camminato o corso tanto che i
piedi iniziano a farci male o ci manca il fiato. In poesia accade lo
stesso, e non so se sia una metafora del camminare o viceversa o
entrambe metafore essenziali della nostra esistenza. La poesia è
inoltrarsi in un sentiero sconosciuto, quello dell’invenzione con mezzi
che già abbiamo a disposizione (rime, versi..), che però di volta in
volta devono essere reinventati, modificati, aggiustati, riparati come
delle scarpe a cui siamo affezionati e che non vogliamo buttare e che
ogni volta risuoliamo. In fondo la poesia dà il meglio di sé quando
abbandona le vie già battute e ne perlustra altre reinventando i suoi
strumenti, quando crea un sentiero. E in questo la poesia è proprio un
errare, se un terzo significato dell’errare è deviare, allontanarsi da
una certa direzione, e la poesia insieme alla filosofia è proprio questo
deviare dal vedere ordinario, è un deviare che sposta il punto di vista
ordinario e volge lo sguardo in altra direzione, lungo magari un
sentiero più nascosto e più impervio ma che, in quanto non già battuto,
ci fa vedere le cose, quegli stessi sentieri ordinari della nostra vita
quotidiana, in un’altra luce, magari con lo smalto originario del primo
giorno della creazione, per dirla con Boris Pasternack. Solo correndo il
rischio di errare e di perdersi si può approdare da qualche parte,
fosse anche solo il viaggiare stesso. Naturalmente parlando di cammino,
di poesia e piedi, non si può non parlare di Dante, anzi potremmo dire
che la nostra letteratura nazionale è fondata sul camminare, sull’errare
nella doppia accezione del termine. A ben pensarci il percorso di Dante
nell’oltretomba non è che un’ininterrotta camminata nei vari regni, in
cui sperimenta tutte le possibili accezioni dell’errare. L’inizio stesso
del suo viaggio è causato dall’errore, errore che lo costringe a
deviare dal percorso che sembra più breve. Quante volte Dante erra
perché non comprende ed è corretto nel suo errare dalle sue guide
Virgilio e Beatrice, che al tempo stesso lo guidano nel percorso e ma
anche e soprattutto nella comprensione di ciò che gli sta accadendo? Di
nuovo il legame inscindibile tra poesia e filosofia. La Commedia
e la sua struttura metrica, la rima incatenata che sembra essere la
versione metrica e fonica del camminare dantesco, è un’ininterrotta
camminata, anzi, per leggerla e per capirne l’intima struttura, la sua
essenza, sembra quasi che sia meglio leggerla passeggiando,
declamandola, dove parola, corpo e pensiero diventano tutt’uno
intrecciandosi e dipanando il senso che è al tempo stesso quello di un
viaggio fisico, esistenziale e metafisico che riassume il senso profondo
di perché un uomo viva scrivendo o scriva vivendo. L’uomo non è,
ek-siste, cioè è sempre oltre di sé, ricordando, sperando, temendo, e
non c’è modo migliore per esprimere il senso dell’inquietudine umana del
camminare, dell’uso dei piedi, della possibilità inquietante
dell’errore nel fare dell’uomo, ma anche quella salvifica, sia essa o no
inserita in una dimensione di fede, di ritrovarsi, di ritrovare la
strada verso casa. La letteratura – e con essa la filosofia sua
inseparabile compagna, diversa ma che si aggira negli stessi sentieri
impervi e scoscesi − è il filo di Arianna, le molliche di Pollicino che
ci guidano nel labirinto dell’esistenza mostrando in controluce, in
negativo, la via non presa, il bivio dove si decide la vita di ognuno.
Essa è un tenue segno che ci guida lungo il percorso, creandolo di volta
in volta, che ci può condurre a casa o farci, come in tanta letteratura
del ‘900, perdere definitivamente. E a questo punto è meglio lasciare
la parola al poeta russo Mandel’stam che nella sua vita ha fatto
esperienza del più doloroso dei viaggi, la deportazione conclusasi con
la morte e lo smarrimento del suo stesso luogo di sepoltura, emblema
dell’errare e della perdita radicale che l’esistenza di un uomo può
essere, quando su di essa incombono forze che tendono ingabbiarla,
imbrigliarla, annichilirla, disconoscendone la sua intima e rischiosa
libertà.
“Leggere Dante è prima di tutto un lavoro interminabile, che a misura dei nostri successi ci allontana dalla meta. Se la prima lettura non dà che un po’ di affanno e una sana spossatezza, per quelle successive munitevi di un paio di indistruttibili scarponi svizzeri ben chiodati. A me, sul serio, vien fatto di domandarmi quante suole di pelle bovina, quanti sandali abbia consumato, l’Alighieri, nel corso della sua attività poetica, battendo i sentieri da capre dell’Italia.
L’Inferno, e ancor di più il Purgatorio, celebrano la camminata umana, la misura e il ritmo dei passi, il piede e la sua forma. Del passo, congiunto alla respirazione e saturo di pensiero, Dante fa un criterio prosodico. Egli designa l’andare e venire ricorrendo a un gran numero di espressioni multiformi e affascinanti.
In Dante, filosofia e poesia sono sempre in cammino, sempre in piedi. Anche la sosta è una varietà di movimento accumulato: la piattaforma per una conversazione viene creata a prezzo di sforzi d’alpinista. Il piede metrico è inspirazione, ed espirazione è il passo. Un passo che deduce, vigila, sillogizza.” (Osip Mandel’stam, Conversazione su Dante).
© Francesco Filia
[L'intervento nasce dalla kermesse fariana che
si è svolta a Perugia dal 21 al 23 marzo 2014 presso la Biblioteca di
S. Matteo degli Armeni e la Casa francescana di Monteripido. Il tema
della kermesse è stato ispirato al viaggio (virtuale o reale, magari
anche con una punta di autoironia, umorismo e comicità), al
pellegrinaggio (anche letterario, alla scoperta dei luoghi calcati e
“vissuti” da pensatori, intellettuali, missionari, ecc.). Dall'incontro è
nata l'antologia Letteratura.. con i piedi, Fara Editore, 2014].
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