sabato 4 aprile 2015

L’amore per l’acqua

di Vincenzo D'Alessio


Ho preso coscienza di essere uomo quando per la prima volta ho avuto contatto con l’acqua. Non è stato un contatto avvolgente, tiepido, come l’acqua che ci tiene in vita nel grembo materno al sicuro dal male di vivere, ma un contatto gelido, quasi violento e sofferto.
Abitavamo allora in due stanzette di un’antica casa nel rione Misericordia che di bello aveva il balcone dove vi era la stanza da letto dei miei genitori; dormivo nella stanzetta ingresso-cucina dove c’era la stufa pesante di ghisa a legna che scaldava la casa durante le rigide giornate d’inverno. Mia madre, casalinga, aveva già cinque figli a cui badare. Mio padre, vigile urbano, con il poco stipendio si barcamenava alla meglio in una cittadina dove l’industria vantava cinquecento anni di solida economia e dove i padroni avevano l’acqua in casa.
Nel rione dove abitavamo l’unica fontana era quella pubblica poco distante da casa nostra, appena svoltato l’angolo della piccola chiesetta dove avevo ricevuto la prima comunione: era dedicata alla Madonna della Misericordia la quale era intervenuta con la sua forza a fermare la peste del 1656 che aveva colpito maggiormente quel rione. Sull’architrave in pietra locale si leggeva la data di completamento: 1706. Le alte mura delle case facevano da spalliera al vicolo che, contemplando il cielo, si avviava verso la fontana dopo aver superato un piccolo passaggio coperto tra due case.
Avevo circa dieci anni, credo fosse il febbraio del 1960, aveva nevicato da poco e nei pressi della fontana s’era formato uno spesso strato di gelo. Giunsi con il grande recipiente tondo di rame munito di due manici, una tinozza concava, la quale andava riempita quasi fino all’orlo perché contenesse acqua sufficiente per l’intera giornata. L’uso era quello alimentare. Quando ci dovevamo fare il bagno bisognava andare alla fontana almeno una diecina di volte e versare l’acqua in recipienti più grandi di legno da dove veniva prelevata, riscaldata sulla stufa, e poi utilizzata.
Non esisteva ancora la plastica: quando sono comparse le bagnarole di plastica, portate dai rigattieri alla fine degli anni Sessanta, questi ultimi si sono arricchiti chiedendo in cambio di questi nuovi e colorati recipienti le antiche tinozze di rame e altri recipienti di zinco utilizzati in passato. Nella loro semplicità i contadini cedevano facilmente oggetti, mobili, lampade antichi, per rendere più comoda la loro esistenza vissuta in un passato, quello tra due guerre, con sacrifici inimmaginabili oggi.
Mia madre, ancora giovane, aveva perso una figlia nel 1949 a causa di una infezione intestinale, si chiamava Vincenza. L’anno dopo sono nato io e lei, provata dalla durissima perdita di una bellissima bambina, non aveva accettato che fosse nato un maschio quindi si decise a crescermi come fossi un’altra figlia. Mi piegò ai lavori domestici: lavare per terra, spazzare le due stanze, andare a prendere l’acqua, cucinare: queste cose mi sono tornate poi di grandissima utilità quando ho affrontato la separazione e il divorzio.
Quella rigida mattina d’inverno mi avviai con la tinozza di rame alla fontana, il cielo era percorso da un vento freddo e le nuvole sembravano vedove con le scialle di lana, la fontana in parte era gelata: l’acqua scese lentamente nel recipiente, il freddo mi aveva bloccato le mani rendendole viola, riuscii a sollevarlo e attento a non scivolare sul ghiaccio che mi circondava mi avviai verso casa. Giunto all’altezza della sagrestia della chiesetta una folata di vento più intensa e le mani irrigidite non mi permisero di reggere la tinozza che portavo sulla testa, un equilibrio già precario, il contenuto della quale si riversò interamente sulle mie spalle mentre il recipiente cadde per terra.
Iniziai a piangere ma nessuno mi sentiva, la gente era rintanata in casa per il freddo. Il calore delle lacrime si riversò sulle mani mentre le portavo alla bocca per scaldarle. Presi il recipiente e sospinto dal vento raggiunsi casa. Salii le scale che conducevano alla porta d’ingresso: mia madre con la mantella di lana sulle spalle mi rivolse un’occhiata che mi impietrì: senza neanche chiedermi cos’era successo prese una scarpa che portava ai piedi e iniziò a darmela in testa. Mi riparai con le mani doloranti, infilandomi sotto il lettino nel quale dormivo, per evitare il peggio. Il recipiente si era ammaccato un poco. Ero congelato e fradicio d’acqua ma questo non interessava a mia madre la quale infilò il cappotto e si avviò verso la fontana per riempire la tinozza.
Cosa sia successo dopo non lo ricordo perfettamente. Suppongo di essermi addormentato con i panni bagnati in dosso. Il fratello di mia madre, Mario (nella foto), venuto per portare il pane che nonna Antonietta aveva appena sfornato, si accorse della mia presenza sotto il letto e svegliatomi mi condusse a casa loro che era poco distante dove davanti al focolare fui spogliato e accudito con del latte caldo. Gli abiti furono messi ad asciugare: fumavano davanti al rosso fuoco del focolare.
Quell’evento mi ha insegnato ad amare l’acqua come un bene preziosissimo, indispensabile alla sopravvivenza. Oggi che vedo l’acqua potabile sprecata nelle docce giornaliere dei figli, per lavare autonomamente le automobili, per innaffiare continuamente i vasi da fiore sparsi sui terrazzi, per lo scarico nei water, nelle lavastoviglie, nelle lavatrici e in tanti altri modi, comprendo quanto siamo impreparati all’uso giusto che se ne dovrebbe fare.
Certo il passato a volte potrebbe sembrare bello perché mitizzato, reso dolce dai ricordi. Sovente invece proprio nel dolore della povertà e delle privazioni matura il giusto grado di Civiltà che permette all’Umanità di reggere il peso della propria crescita su un pianeta sfinito dallo sfruttamento delle sue risorse. Sorella acqua ci accompagni sempre lungo il viaggio!

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