giovedì 29 maggio 2014

La giovane memoria

di Vincenzo D'Alessio

Gli Istituti Italiani di Statistica ripetono ogni anno che migliaia di giovani laureati lasciano il territorio italiano per avventurarsi in ogni parte del nostro pianeta alla ricerca di un lavoro, della continuità degli studi intrapresi, della possibilità di mettere su famiglia. La globalizzazione include, oggi, l’allontanamento dai luoghi conosciuti, dai propri genitori, dai propri morti.
C’è qualcuno però che alleva la speranza che i giovani laureati rimangano a confrontarsi con i luoghi d’origine avviando un possibile dialogo con le poche forze costruttive già impegnate sul territorio. Queste forze hanno un nome e un ruolo sociale: i maestri, i professori, gli studiosi.
Monsignor Michele RICCIARDELLI, professore emerito della Stony Brook University, fondatore della Rivista di Italianistica FORUM ITALICUM partì per gli Stati Uniti d’America, dove divenne professore nelle università. Tornato in patria dopo gli eventi sismici del 1980, ha lasciato una scia nella memoria dei giovani che illumina il cammino generazionale grazie ai suoi famigliari.
Egli volle che noi, giovani di allora, prendessimo coscienza che è possibile partire e tornare consegnando l’esperienza realizzata all’estero, più avanzata, alla comunità di origine disposta ad accettarla. Non sempre è possibile, anzi sovente sono rifiutate le novità. Quando però hanno il volto di chi è parte del territorio le cose lentamente cambiano.
Sono nate da quell’incontro l’Associazione “Orizzonte 2000”; il mensile Solofra Oggi; le borse di studio “Monsignor Michele RICCIARDELLI” dispensate ai giovani diplomati e diplomandi del comprensorio intercomunale di Serino, Solofra e Montoro. A condurre da anni le associazioni, il mensile e le borse di studio sono il professore Raffaele Vignola, la sorella Alfonsina e il nipote Liberato. Una forza trainante che non ha smesso di lottare in favore dei giovani del territorio in questi quattordici lunghi anni dalla scomparsa del Monsignore. 



Quest’anno il tema era sul rapporto umano tra studenti e docenti, proprio in questo tempo in cui l’individuo ha perso la connotazione di “uomo” per divenire sempre più massa omogenea di consumi. Bene ha scritto in merito all’iniziativa il chiarissimo professore Mario MIGNONE, attuale direttore della Rivista di Italianistica
FORUM ITALICUM: “mi fa enormemente piacere sapere che la famiglia ha creato delle borse di studio per ricordare l’operato di Don Michele nel creare e divulgare new knowledge. Veramente un atto nobile.”
Don Michele RICCIARDELLI ha portato a termine molti progetti durante la sua esistenza, confrontandosi fin dal suo ritorno in Irpinia con le forze giovani, senza alcun timore, con la certezza che la Speranza, come spesso ripeteva a noi giovani di allora, non fa rumore ma lievita le coscienze migliori e le prepara al confronto con la società di ogni tempo.

lunedì 26 maggio 2014

“Il pittore di parole”, un racconto glaciale dal cuore caldo

Gaetano Cutri in
Corriere Spettacolo

http://www.faraeditore.it/html/siacosache/pittoreparole.html 
Grazie alla vittoria raggiunta in occasione del concorso Faraexcelsior per la sezione racconto lungo, il lavoro di Marco Fratta intitolato Il pittore di parole ha avuto modo di raggiungere i lettori grazie alla pubblicazione da parte della Faraedizioni.
La storia è quella di Dario, un ragazzo di Torino che si trasferisce in Svezia dove condividerà la casa con il conoscente francese Bernard: un’accoppiata che non ha mai raggiunto delle vette di amicizia spiritualmente forti, ma che troverà nel gelido paese scandinavo qualcosa di nuovo che cambierà nettamente la loro vita.
Come un riccio, il racconto di Fratta accoglie il lettore con qualche spina di troppo, sia a livello descrittivo, con un’ambientazione ovviamente composta per la maggior parte da glaciali location tipiche dei paesi in oggetto, ma soprattutto a livello linguistico, con un’accoglienza piuttosto ostica in quanto a fluidità di lettura e coinvolgimento.
Una volta raggiunto il nucleo del racconto, come una cucchiaiata di un goloso tortino al cuor di cioccolato caldo, scavando più a fondo nell’animo del protagonista italiano, si scoprirà una scioglievolezza nuova ed inaspettata che riscalderà il lettore con un’atmosfera decisamente diversa.
Grande proprietà di linguaggio quella dimostrata da Fratta nelle poche pagine del libro, a volte fin troppo ricercata, ostacolando in diversi punti lo scorrere delle parole, ma sicuramente un lavoro che obbliga a tenere d’occhio un giovane autore con buone idee e una gran voglia di raccontare.

Il generale dei giovani

di Vincenzo D'Alessio & G.C. “F. Guarini”


 
Abbiamo conosciuto il generale Filippo Russo durante il terribile sisma del 23 novembre 1980 in veste ufficiale quale coordinatore delle forze militari giunte in soccorso nelle aree campane. Nato nella vicina Avellino da genitori solofrani il 20 novembre 1927 si è spostato in giovane età a Verona dove ha vissuto la gran parte delle sue vicende personali e dove è scomparso il 2 gennaio di quest’anno. Nella lunga carriera militare che lo ha portato ai massimi gradi di comando si è sempre prodigato in favore dei giovani soldati dei quali seguiva gli eventi famigliari consentendo loro di svolgere serenamente il percorso di leva.

Tornava ogni estate nella città del cuore, Solofra, dove i suoi antenati avevano scritto gran parte delle vicende sociali: tra questi spiccava lo zio paterno Gennaro, tenente colonnello dei Carabinieri, combattente al fianco di Sua Maestà Amedeo di Savoia nella battaglia svoltasi in Africa sull’Amba Alagi nel maggio del 1941 e del quale il nostro aveva fatto il proprio modello d’imitazione.

Agli inizi del 1996 il Nostro si è avvicinato, tramite monsignor Michele Ricciardelli, al Gruppo Culturale “Francesco Guarini” chiedendo la collaborazione per la pubblicazione di una serie di opere destinate gratuitamente ai giovani studenti degli Istituti Statali presenti a Solofra. Nasce in quel momento un proficuo connubio che consente alla vena letteraria del generale Russo di prorompere in tutta la sua forza: dimessa la divisa inizia il percorso di letterato. Il primo libro reca il titolo: Ciclo di conferenze storico militari ed è datato aprile 1996. Seguiranno: Curiosando nella Storia e nell’attualità (agosto 1996); La Chiesa di Roma dal Medioevo all’Età Moderna (luglio 1997); I Borbone di Napoli – origini e dinastia(marzo1998). Altri lavori prestigiosi vedranno la luce presso Case Editrici nazionali.

Il primo confronto è stato con gli studenti dell’I.S.I.S.S. “Gregorio Ronca” di Solofra che accolsero quel suo dialogo con grande calore, chiedendo autografi sui testi dati in regalo. Per il Nostro fu un tuffo nel passato di una cittadina di provincia mai lontana dai suoi affetti. Seguirono altri incontri e soddisfazioni per il neo scrittore tornato tra le mura avite.

Sabato 31 maggio, presso l’I.S.I.S.S. “Gregorio Ronca” , gli studenti avranno la possibilità di congiungersi di nuovo alla memoria del grande solofrano Filippo Russo, ai suoi famigliari presenti, con una cerimonia centrata sulla sua figura esemplare verso i giovani: partito dalla provincia irpina e divenuto un grande italiano al servizio della sicurezza dello Stato. Sarà premiato inoltre, in questa occasione, il Dirigente Scolastico professore Paolino Marotta, che ha anche collaborato con il Nostro, nella formazione delle giovani generazioni scolastiche solofrane per circa vent’anni.

Una giornata ricca di passione per una cittadina Solofra dal cuore industriale erede di ben settecento anni di tradizione lavorativa, dai battiloro ai conciatori di pelli, alle botteghe dei Guarini (o Guarino) , pittori e scultori , fino alle eroiche imprese del generale Gregorio Ronca nelle terre amazzoniche.

domenica 25 maggio 2014

L’ultima dimora del Re di Rosamaria Rita Lombardo in www.siciliafan.it

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L’ultima dimora del Re di Rosamaria Rita Lombardo

Questo libro, frutto di anni di studio di tradizioni scritte e orali con indagini archeologiche sul campo, illustra e motiva un’ipotesi sensazionale: un sito ben preciso, ubicato in terra di Sicilia, può essere il vero luogo di sepoltura del mitico re cretese Minosse. Ad avvalorare questa suggestiva ipotesi archeologica, concorrono sia i dati forniti dalle fonti storiche sul triste epilogo dell’avventura del re Minosse in Sicilia sia quelli emergenti dall’indagine autoptica, topografica, toponomastica e idrografica effettuata sul territorio in questione, oggetto inoltre di una preziosissima memoria popolare raccolta e verificata direttamente dall’autrice, che conclude il libro con queste significative parole: “Il futuro per tutti noi – ne sono fermamente convinta – ha un cuore antico.”
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Rosamaria Rita Lombardo è nata a Palermo e risiede a Milano. Laureata in Lettere Classiche (indirizzo archeologico) all’Università Statale di Milano, è da anni docente nei Licei. Un suo articolo – Echi saffici in antiche voci di Siclia. Un esempio di esperienza didattica – è stato pubblicato ne «Il Voltaire» 2/1999 (“Un plauso a Rosamaria Rita Lombardo per il felice accostamento fra i testi classici e la migliore tradizione popolare dialettale siciliana.” Marco Scalabrino). Vedi anche Culti pagani e culti cristiani – San Calogero di Agrigento: l'Ercole di memoria ciceroniana.
 

lunedì 19 maggio 2014

Insanamente e Pazziando in Libromondo

recensione di Maria Pera pubblicata in Libromondo Newsletter n. 10/2014 (maggio)

v. schede dei libri
Insanamente
Pazziando (presentazione in Campidoglio a Roma il 23 maggio 2014)

STANZE

Un romanzo “psico-architettonico-sexy-tragicomico”



Liberamente scaricabile in PDF (www.grazzaniseonline.eu/IMG/pdf/Stanze.pdf) e in formato sfogliabile ISSUU (http://issuu.com/grazzaniseonline.eu/docs/Stanze)

Anche Stanze, in virtù di una consuetudine recentemente adottata da Giambattista Bergamaschi, reca un utile sottotitolo: “Romanzo psico-architettonico-sexy-tragicomico”.
Intende esplicitamente significare che la storia alla cui degustazione il lettore è in procinto di accingersi gli proporrà quanto meno un variegato menu di suggestioni, stimoli ed emozioni tra il serio e il faceto, come a dire che se quella è la vita, in ben più d'un caso proprio non sapremmo se piangerne o riderne, ovvero se scrupolosamente disporci a ricercare le profonde motivazioni razionali dei nostri atti o se questi ultimi non vadano piuttosto letti quali mere, automatiche, sovente “ridicole” reazioni alle più ferine pulsioni affioranti dall'inconscio.
Così, una certa resistenza ad affrontare quel finale in cui qualcosa deluderà tutta una serie di aspettative, determinando, proprio grazie all'individuale esperienza del Male, un significativo cambiamento, forse spiega l'originale Prefazione in itinere... in cui l'autore, francamente dichiarando la propria impasse nel momento stesso in cui la esperisce, rende il lettore confidenzialmente partecipe del travaglio che un certo tipo di “scrittura” gli comporta:

[...] giunto all'interpretazione del secondo sogno, avendo già steso - con piglio quasi definitivo - l'epilogo stesso del racconto, mi ritrovo arenato in mare. [...] pur sapendo prossimo l'approdo, ad una manciata di bracciate dal punto in cui boccheggio, non mi riesce di affrontare l'ultima fatica: colmare quell'insignificante vuoto che non attende se non una decina di paginette in linea con una tensione che deve crescere senza tuttavia rivelare la propria ragione, diligentemente evitando di prefigurare quanto alla fine accadrà. Non il puro e semplice evento drammatico, sicuramente scenografico, bensì quell'inedito ordine d'esistenza che il protagonista, quantunque non per merito proprio, alfine scoprirà o, meglio, dovrà giocoforza accogliere. Magari, anche di buon grado...
Dunque, nel momento stesso in cui candidamente dichiaro la suddetta impasse mi chiedo se il presente racconto vedrà mai una fine o resterà invece nel cassetto, al modo di un piacere mai concluso, d'un “sogno ad occhi aperti” che in via eccezionale rinunci a far quadrare il mondo...

Non soverchio il numero dei personaggi: tre, forse quattro, salvo quelli citati in corrispondenza di determinati riferimenti intertestuali (in uno dei quali l'autore chiama in causa addirittura se stesso, quale narratore “emergente” in grado di attivare un intero sistema di neuroni specchio), perché uno degli aspetti che secondo Bergamaschi non può né deve assolutamente mancare in una buona storia è la “riduzione narrativa” (meglio: “metanarrazione”) di ideologie, saperi logici e soprattutto “poetiche”:

Si sogna o si scrive per un'esigenza di compensazione.
Tanto nelle sceneggiature oniriche quanto nelle buone storie ogni incongruenza finisce per “quadrare”... e in tal modo ritrovare la stessa verità che fu nei mitologici “errori” degli antichi, la medesima di cui si alimentano le sante, sincere bugie dei bimbi o il vago, favoloso, smemorato rammemorare degli anziani.
Scrivere o narrare non sono che modalità alternative - forse complementari - del sognare ad occhi aperti, con quanto ne segue: illuminata condizione dello spirito, in “stato di narrazione”, notturna in pieno giorno. Da lì soltanto può sgorgare qualcosa di “vero”, frutto spontaneo di un atto d'amore (lo stesso che consentì a Sharāzād, di “salvare” non soltanto se stessa, ma anche e soprattutto il principe Shāhrīyār, che perdutamente amava) di cui il lettore possa ciecamente fidarsi, cui abbandonarsi senza più timori, qualcosa di terribilmente divergente nei riguardi di una realtà incapace di soddisfare le nostre più segrete istanze: scrittura che abnega se stessa, temporaneamente assente dalla vita [...], che è eversione ricostruttiva di un'identità sofferente, contenuto essenziale di quel rapporto a dir poco intimo che è complice ascolto di una pratica “immersa” - onirica e innamorata - cui sia lecito riconoscere la natura di un atto gratuito, sublime e "perverso", concretamente trasformativo.
La narrazione “efficace” in alcun modo si pone il problema di puramente riferire una presunta verità del fatto concreto, ammesso che una tale chimera possa aver consistenza e qualcuno la conosca mai.
Soprattutto, non risulterebbe di alcun inter-esse per alcuno, non ci riguarderebbe minimamente, né toccherebbe nel profondo, non avrebbe quel potere di tenerci avvinti che soltanto un narcisistico spiare i nostri stessi sogni, benché narrati da un altro, può realmente scatenare.
Lo specifico della narrazione è muovere da un “dato di realtà così come lo scrittore lo sente”, per integrarlo e calarlo in un contesto nuovo (quasi mai “dimostrabile” al banale riscontro della quotidiana esperienza - tanto spesso muta e priva di ogni superiore luce -, eppur quanto mai “vero” per lui), insomma, per conferirgli un senso speciale attraverso l'immaginazione.
Proprio in tale capacità risiede, tutta intera, la magia del sognare ad occhi aperti. E così, come la poesia, anche l'autentica narrazione è destinata a rivelarsi più vera del vero, alimentandosi di qualcosa che lo è di fatto, intimamente, per l'autore: l'inestinguibile predisposizione a coltivare sogni.
Potrebbe cimentarvisi chiunque: lo scrittore ne rimarrebbe comunque l'esclusivo “sacerdote”.
Reduci dall'inebriante volo, torniamo a planare in seno alla realtà, corroborati da quello stesso sognare ad occhi aperti, che - allora sì! - potrà finalmente esser detto, scritto, narrato, perché davvero cambi il mondo, lo renda migliore, risolva in modo inedito - ed efficace - nostalgie, tensioni e paure.
Scrivere non è dunque che la necessaria estensione di quel sognare di cui tutti abbiam bisogno per non impazzire, una condizione prossima alla follia che dalla follia ci salva...

Quattro “visitazioni” pervase di malinconica e quasi rinascimentale amarezza, nonché di quel certo carattere mistico-ermetico che sembra conferir loro tutta l'aria di probabili teofanie del “divino”, scatenano il racconto nel momento stesso in cui il protagonista, sedicente sodale dell'occulto universo dell'Es, ne azzarda personali letture narrativamente finalizzate, anche sulla scorta di quanto è dato leggere nel fortunato volumetto in cui Sigmund Freud mostra come nei sogni le stanze significhino normalmente la donna, con le di­verse entrate e uscite che la contraddistinguono, e le scale eloquenti rappresentazioni simboliche dell'atto ses­suale.
Da lì, il piano dell'invenzione e quello della concreta realtà prendono ad intrecciarsi, quasi a sovrapporsi, fino a che la seconda non si porta del tutto via lo spazio discretamente, romanticamente occupato dalla prima, come a memento che le due dimensioni non possono convivere senza alcun rischio oltre un certo limite: una scelta va necessariamente operata, pena un'esistenza schizoide illusa della propria integrità.
In tale non problematico, “dolce” modo il protagonista del racconto “sogna” di vivere, fino a che un evento di rude evidenza realistica non gli impone una drastica riconsiderazione, stavolta nient'affatto mediata da categorie concettuali, della propria esistenza. Perché è in quella maniera che “a questo mondo” vanno le cose, ed occorre giocoforza prenderne atto.
Ne consegue un finale discretamente aperto e interattivo, se al lettore spetta - pare lecito supporlo - di decidere come e quando la “salute mentale” trapassi nella “follia” e in che misura quest'ultima possa davvero considerarsi tale, anziché una sorta di provvidenziale “varco” verso un differente piano di realtà, legittimo almeno quanto il precedente: “follia” terapeutica, cronica, senza una definitiva guarigione, che ne scongiura un'altra, autentica.
Felice nella misura in cui può esserlo un uomo, lo scrittore potrà finalmente concretizzarvi una ben strana aspirazione, quella espressa un dì a conclusione di un'intervista. Gli chiesero: “Progetti futuri?”. In tutta franchezza, egli rispose: “Smettere di scrivere, una buona volta, sul serio e per sempre…”.


M. G. 

venerdì 16 maggio 2014

Su L'ultima dimora del Re di Rosamaria Rita Lombardo


Una millenaria narrazione siciliana 
“svela” la tomba di Minosse



“L’alone di leggenda e mistero che pervade la montagna hanno sempre mosso il mio interesse ed esercitato sulla mia mente, sin da adolescente, una forte attrazione fascinatoria. La bellezza del luogo, unita a vistose tracce di una storia passata e di testimonianze orali raccolte dagli abitanti e dai frequentatori del sito, mi hanno indotto a ricercare l’esistenza di consistenti vestigia riferibili alla fine infausta del re.” 
Così Rosamaria Rita Lombardo, docente nei licei e qui nelle vesti (che parimenti le si attagliano) di studiosa e di ricercatrice, la quale invero non avrebbe potuto, in termini più succinti e al contempo significativi, approntare una più efficace presentazione della sua opera.
Ampliare il rapido superiore proemio e soffermarci un po’ sugli aspetti più avvincenti del libro è l’ufficio che ci siamo oggi proposti. Ma prima una irrinunciabile considerazione; considerazione che compiutamente si cala nello spirito di quelle pagine e ci autorizza a ubicare le vicissitudini narratevi in una più vasta straordinaria cornice: il Mediterraneo, il mare nostrum, culla della civiltà occidentale, centro del mondo allora conosciuto. In questo bacino peraltro (secondo la seducente tesi sostenuta da Samuel Butler sul chiudere dell’Ottocento, in più circostanze poi ripresa nel corso del Novecento e in anni recenti recuperata da Nat Scammacca e da altri studiosi, che a Trapani nel 1990 e nel 2000 hanno organizzato due convegni di studi internazionali) si situano Le origini siciliane dell’Odissea.   

Di quale montagna e di quale sito si ragiona? A che periodo risale il suo interesse? A quale sovrano si allude?
“Il feudo – scrive l’autrice – finì con l’essere provvidenzialmente acquistato dalla mia famiglia”. E puntualizza: “Monte Guastanella [venne] acquistato da mio padre nel 1947.”
Quel “provvidenzialmente”, c’è da scommetterci, è messo lì a bella posta col proposito di sgombrare il campo da ogni ipotesi riconducibile a un evento fortuito, a una mera casualità e intende suggerirci, d’un lampo, il senso della predestinazione, dell’investitura, dell’ineluttabilità quanto al suo coinvolgimento emotivo, personale, professionale nella intera vicenda. L’avverbio, per di più, trova fausta sponda cronologica nell’inciso “sin da adolescente”, che rimarca le origini remote del suo slancio.
Si discorre palesemente di un possedimento, nel quale insiste un’altura (mt. 609 s.l.m.), di proprietà della famiglia della autrice sin dal 1947. Ma, contrariamente a quanto di primo acchito potrebbe apparire, non di un affare privato si tratta, non di un’opera autobiografica; le didascalie: “evento realmente accaduto” e “tradizione leggendaria testimoniata dalle fonti classiche” ci danno fondato motivo di rivolgere altrove, in una dimensione del passato allocata fra Mito e Storia, la nostra attenzione.
D’altronde tutti gli elementi disseminati nel corpo della narrazione, oltre a consentirci di avvicinarci progressivamente al clou della storia, di definirne ogni prezioso singolo carattere, concorrono in questa direzione e ne circoscrivono il perimetro dell’azione. Degli esempi: “Un lungo lavoro di ricerca condotto in un sito ubicato nell’area agrigentina, le cui risultanze inducono a supporre che esso sia il luogo di sepoltura del re”; “Alle falde della montagna denominata Guastanella c’è una piccola necropoli”; “I fabbricati e le mura creano un perimetro di circa 200 metri che include un’area di circa mq. 1.200”; “L’insediamento è inserito nelle contrade agrigentine di Raffadali e Santa Elisabetta. A nord del sito scorre il fiume Platani, che secondo gli studiosi dovrebbe identificarsi con l’Halycos delle fonti”.

Il volume consta di oltre 110 pagine ed è suddiviso in quattro capitoli: La saga di Minosse in Sicilia. Le fonti; Storicità del mito e sue implicazioni archeologiche; Revisione interpretativa del mito e nuova localizzazione dei siti dell’antica saga; Memoria mitica della tomba-tempio di Minosse e sua possibile ubicazione. Identificazione e collocazione di Camico. Gli stessi sono preceduti dai Ringraziamenti e da una Premessa e seguiti dalle Conclusioni, da una Appendice, dalla Bibliografia e dall’Elenco delle Tavole.
Sin dal sottotitolo, col verbo “svela” compreso fra virgolette, Rosamaria Rita Lombardo, benché “consapevole dell’eccezionalità dell’ipotesi avanzata”, malgrado la serietà della “indagine topografica, toponomastica, idrografica e folklorica, effettuata sul territorio in cui l’insediamento risulta inserito”, palesa a più riprese la propria prudenza (“la prudenza è d’obbligo. Saranno il vaglio, l’esame e l’approfondimento critico che la comunità scientifica vorrà riservare a questa ricerca ad emettere il verdetto finale”), anticipa le perplessità che altri potrebbero avanzare sul suo lavoro, il quale (non ha remore a dichiarare) “nasce da una vocazione archeologica romantica e irregolare, lontana dagli apparati e dai dogmi dell’archeologia ufficiale”. “Pur conscia della scientificità della conduzione di gran parte dei miei studi – ci confida – ho avvertito il disagio del lavorare in solitudine, del pervenire a conclusioni interpretative che potrebbero apparire o troppo assertive o troppo vaghe, se non addirittura visionarie”. Questo lavoro d’altronde, nel realizzare il quale “ho seguito la voce del mito, ho sentito, scorto e visto cose dove altri credevano fosse il nulla, non ha alcuna pretesa di rappresentare un elemento inconfutabile” e si presenta piuttosto come “un contributo all’interpretazione di un passato finora avvolto di mistero”, una monografia volta a sottrarre all’oblio e al silenzio “il segreto del re cretese Minosse”, un’analisi intesa a “ridare identità storica alla leggenda che sul Monte Guastanella da millenni aleggia”.
Controversa e tutt’oggi di difficile lettura l’etimologia del nome Guastanella.
“Guastanella, volgarmente Uastanedda, Vastanedda o Guastanedda – sostiene Rosamaria Rita Lombardo – ritengo che fosse in antico Wuastanedda, etimo a mio avviso di matrice minoica che, costituito dal prefisso wa-, abbreviazione di wanax (re) o wanakatero (regale), nonché da stan (dimora, luogo, città), radice del verbo cretese στανύομαι, significherebbe città del re”.

La spinta iniziale, quella “da cui hanno preso avvio le mie indagini” circa “la memoria mitica della sepoltura di un re sul Monte Guastanella”, quella desunta dalla “tradizione orale rivelatami, io allora appena quindicenne, dai miei genitori [Nicolò Lombardo e Giuseppina Gueli]”, quella sentimentale pertanto, mirabilmente si fonde con la sfera esistenziale della stessa autrice.  
Quasi un obbligo morale, così, pressoché un dovere, suffragare un mito cresciuto passo passo con lei, affermare il trasporto emotivo nei confronti del sito che sente ed è della sua famiglia, suo, porre nel debito risalto quell’insediamento. La prudenza, della quale poc’anzi s’è fatto cenno, felicemente, rileviamo, si combina con l’entusiasmo e con la fierezza per l’impresa (con la pubblicazione dell’odierno volume) condotta in porto; fierezza che si coniuga con l’amore per la propria terra, la Sicilia, e per le scaturigini di essa che affondano, si permeano, si arricchiscono di mito e di storia. Il tutto corroborato da una spigliata, compiaciuta venatura di orgoglio, tanto che il libro è stato scritto in prima persona: “le mie indagini; questa mia avventura; ho intrapreso; il mio monte; ho ispezionato; le mie supposizioni”, eccetera.  

È tempo adesso di entrare nel vivo del tomo e un antefatto ce ne spianerà la strada.
Esiliato da Atene e rifugiatosi a Creta, Dedalo costruì per Minosse il labirinto, nel quale il re rinchiuse il Minotauro. Questi, un mostro che aveva corpo di uomo e testa di toro, era figlio di un toro, inviato da Poseidone a Minosse, e della moglie di quest’ultimo, Pasifae, per la quale Dedalo aveva costruito una vacca di legno dentro la quale celarsi per ingannare il toro. Spaventato e vergognandosi per la nascita di quel mostro, Minosse fece costruire da Dedalo il labirinto, un immenso palazzo composto da un intrico di sale e corridoi, del quale era impossibile a chiunque trovare la via di uscita. Sappiamo, nondimeno, che Teseo uccise il Minotauro e con l’aiuto di Arianna, figlia di Minosse, e appunto di Dedalo riuscì a venirne fuori. Appreso dell’inganno, Minosse fece imprigionare Dedalo e il figlio di costui, Icaro, ma i due (è notorio) se ne volarono via. Perito miseramente nel mare Egeo Icaro, le cui ali di cera si sciolsero al sole al quale troppo si era avvicinato, Dedalo giunse sano e salvo in Sicilia.
Vale la pena, in argomento, di rispolverare qualche schematica nozione sul labirinto.
Nel mondo greco-romano di età classica, con tale termine si designava un impianto che era ad un tempo residenza reale e luogo di culto con spiccata valenza funeraria. La complessa pianta della costruzione costringeva coloro che vi entravano a tornare continuamente sui propri passi, non potendo più trovarne la via d’uscita; fuggire dal labirinto sembrava significasse reincarnarsi.
Diodoro Siculo riferisce che Dedalo abbia visitato l’Egitto e, colpito dall’abilità ivi raggiunta nell’arte edilizia, abbia in seguito costruito per il re di Creta Minosse, a Cnosso, un labirinto, simile a quello egiziano, che presentava la triplice funzione di reggia, centro amministrativo e luogo di culto. In Egitto, ragguaglia Plinio il Vecchio, nel distretto di Eracleopoli, ne sopravvive uno (quello del quale Dedalo ebbe ad imitare l’intricata struttura, eretto molti anni prima per iniziativa del re Mendes o Marrus), che fu il primo a essere costruito. Nulla per contro rimane di quello di Creta, che fu il secondo.

“L’infelice fine del re cretese Minosse!” È questo il fulcro del libro, questa la chiave di volta della intrigante avventura (nella quale tutti noi, protagonisti, autrice e lettori, siamo stati visceralmente coinvolti) che ci introdurrà alle suggestioni che Rosamaria Rita Lombardo ha colto e ha trasferito per noi su carta. Minosse, stante a quanto tramandato, perì di morte violenta in terra di Sicilia. Fuggito, infatti, Dedalo da Creta – ci riallacciamo così all’antefatto appena esposto – e riparato in Sicilia a Camico presso il re Cocalo, Minosse allestì una ingente flotta e partì alla sua ricerca. Giunto in Sicilia e insediatosi a Makara, città chiamata poi Minoa in suo onore, Minosse si recò a Camico. Il re di Creta escogitò uno stratagemma per fare uscire allo scoperto l’inge­gnoso costruttore: portò con sé una conchiglia di tritone e promise una ricompensa a chi fosse capace di farvi passare da un capo all’altro un filo di lino; egli sapeva che soltanto Dedalo era in grado di riuscirvi. Propose al re sicano Cocalo la gara. Il re accettò la sfida e passò nascostamente la conchiglia a Dedalo che, solleti­cato nella sua vanità, sciolse il rompicapo. Egli spalmò del miele all’interno della conchiglia a forma di chiocciola, vi praticò un forellino in cima e vi immise una formica alla quale aveva legato un filo di lino. L’animaletto, attratto dal miele, si intrufolò nei meandri del guscio portando con sé il filo. Dedalo riuscì a far vincere la gara al re Cocalo, ma si tradì rivelan­do implicitamente il suo nascondiglio. Il talassocrate cretese comandò a Cocalo che Dedalo gli fosse consegnato, ma le figlie di Cocalo, non volendosi privare dell’artefice che costruiva per loro splendidi balocchi, tramarono col suo aiuto ai danni di Minosse. Dedalo introdusse un tubo nella stanza da bagno di questi e attraverso esso versò acqua bollente o, come altri sostengono, pece bollente su Minosse che stava facendo un bagno termale.

L’autentica passione per l’ammaliante materia dissertata non si creda, però, che sortisca l’effetto di fuorviare le virtù professionali dell’autrice, la sua lucidità nello schierare sul campo e mettere in relazione impressioni, deduzioni ma soprattutto fonti.
Da esigente, coscienziosa studiosa quale lei è, Rosamaria Rita Lombardo destina largo spazio alle fonti, le quali sono meticolosamente riportate allo scopo di dare man forte, di accreditare, di  asseverare la bontà delle sue risultanze. Solo alcune a mo’ di esempio. Eraclide Lembo, 29, F.H.G. II: «Minoa, in Sicilia, era dapprima chiamata Makara. Minosse, venuto a sapere che Dedalo colà si era rifugiato, partì con una flotta e approdatovi, dopo aver risalito il fiume Lykos, si impossessò della città»; Aristotele, Politica, II B, 1271b: «Minosse, avendo intrapreso la conquista della Sicilia, vi morì presso Camico»; Erodoto, VII, 170: «Minosse, giunto in Sicilia, alla ricerca di Dedalo, vi perì di morte violenta». Ma è di Diodoro Siculo, IV, 79, l’asserzione risolutiva per il prosieguo: «Minosse, allorché informato della fuga di Dedalo in Sicilia, decise di fare una spedizione contro l’isola. Preparata una considerevole forza navale, approdò in territorio di Agrigento, nel luogo chiamato da lui Minoa. Minosse reclamava Dedalo per punirlo. Cocalo lo invitò a un incontro e, mentre Minosse era al bagno, lo uccise. Restituì quindi il corpo a coloro che lo avevano accompagnato nella spedizione, adducendo come causa della morte il fatto che fosse scivolato nel bagno e caduto nell’acqua bollente. Costoro seppellirono il corpo del loro re con grande pompa: edificarono un duplice sepolcro e posero le ossa nella parte nascosta, mentre in quella scoperta costruirono un tempio ad Afrodite».  
Sottolineato che il Lykos o Halycos dei Greci, l’Iblatanu per gli Arabi, è oggi conosciuto quale il (menzionato) fiume Platani, ancora una stimolante digressione.
Dante recupera Minosse, “orribilmente, e ringhia”, e lo piazza nel Canto quinto, secondo cerchio dell’Inferno della Commedia. Considerato un servitore della volontà divina, egli è il giudice infernale che giudica i dannati; costoro infatti gli confessano le loro colpe e Minosse, gran conoscitor de le peccata, decreta attorcigliando la coda attorno al corpo tante volte quanti sono i cerchi che i dannati dovranno scendere per ricevere la loro punizione. Vedendo Dante, Minosse tenta di farlo desistere dal proseguire, avvertendolo di guardarsi dal fatto che sia stato facile entrare nell’Inferno e di diffidare di colui che lo guida. Virgilio prende allora la parola, lo ammonisce severamente a non ostacolare un viaggio voluto dal Cielo e proferisce i due famosi, superbi endecasillabi: Vuolsi così colà dove si puote / ciò che si vuole e più non dimandare. Sebbene descritto con i tratti grotteschi di un mostro, Minosse tiene un atteggiamento solenne e sparisce di scena compostamente.

Con tante salde premesse e con le seguenti ulteriori valutazioni: “La saga di Minosse e Cocalo, della cui storicità nessuno degli autori antichi ha mai dubitato”; “È facile individuare il possibile teatro della leggenda nel territorio agrigentino lungo la media valle del fiume Platani”. “Cretesi [furono i] fondatori di Gela e di Agrigento”, si perfeziona la scommessa di Rosamaria Rita Lombardo, tramata in anni di fervidi studi, tesa ad argomentare, documentare e comprovare la “tradizione leggendaria relativa alla sepoltura di un re, dal nome Mini Minosse, nelle viscere di Monte Guastanella”.
Si avvale lei e ci gira la tradizione orale in dialetto siciliano tramandatale, sin dalla più tenera età, dal suo compianto papà: “Lu re Mini-Minosse è / drivucatu intra la Muntagna di Guastanedda. / È tuttu chinu d’oru / e quannu lu scoprinu / iddu addiventa un Crastu d’oru / e unu av’arrimaniri (Il re Mini-Minosse è sepolto nella montagna di Guastanella. È tutto pieno d’oro e quando lo scoprono egli diventa un capro d’oro e uno degli scopritori dovrà sacrificare la propria vita)” e quanto al curioso nome Mini-Minosse, se esso non si spiega con la semplice tipicità delle lallazioni infantili e di talune filastrocche popolari (“tale nome veniva una volta usato, soprattutto dalle persone an­ziane della zona, per impaurire i bambini capricciosi. Si di­ceva loro, appunto: “Attenti ca veni Mini-Minosse!”, intendendo con ciò evocare la figura di uno spirito maligno punitore e vendicatore, una sorta di orco mitico”) o con la “corruzione linguistica prodottasi nei secoli, può comunque essere giustificato col raddoppiamento della prima sillaba che si registra sovente in taluni nomi minoici (si veda Acacallide da Acallide, figlia di Minosse)”.
La coincidenza fra testimonianze orali e storico-documentarie aveva bisogno tuttavia, ne è ben consapevole Rosamaria Rita Lombardo, di un concreto riscontro archeologico.   
Diodoro Siculo descrisse il monumento sepolcrale nel I secolo a.C.; ma, quantunque ciò autorevole, alla Nostra non basta. Ed ecco, lei ne appronta per noi una minuziosa (che in questa sede, ovviamente, diverrà essenziale) descrizione, della quale ci avvarremo letteralmente, della tomba-tempio di Mini-Minosse.
“Un rozzo sedile di pietra, di struttura e conformazione monumentale, chiamato da sempre Il trono del re, sulla cui spalliera non integra sono in basso leggibili tracce di inquietanti grafemi, è posto all’ingresso della grotta, al piano superiore, denominata B. Grazie a una appassionata ricostruzione grafica al computer, mi è stato possibile individuare diverse interessantissime immagini. Nella parte centrale del pannello roccioso sembra notarsi una figura femminile, con elaborata acconciatura e a seno nudo, attorniata da disegni di capre e bovidi; lettura, per la verità, opinabile anche se non visionaria, per la difficoltà di focalizzazione. Accanto a tale figura muliebre (che pare appartenere a un panorama iconografico del Mediterraneo orientale, specificatamente cretese) si scorge in alto a sinistra una figura miniaturistica in corsa che tiene fra le mani un oggetto di forma cornuta. In alto a destra, ben evidente, si staglia la figura di un uomo dal copricapo piumato, con le braccia disposte quasi a croce e il corpo tondeggiante dalla vita scoperta. La foggia del copricapo piumato sembra essere in rapporto di forte parallelismo e analogia iconografica con quella di taluni elmi tardo minoici e micenei, nonché appartenere a una particolare simbologia iconografica sacra e regale del mondo minoico”. E rilancia: “Un altro elemento di intrigante esegesi è costituito dal reticolo tauromorfico che si trova inciso sul pianoro del monte e che contiene al suo interno una croce o un segno X vicino alla figura crucciata di un individuo.”

Affascinante! Ma, tirate le somme, a quali conclusioni, “benché con ineludibile margine di ipoteticità”, perviene Rosamaria Rita Lombardo?
“Sul piano della verità storica nonché contemporanea allo svolgimento dei fatti narrati (XIII sec. a.C.)” lei soppesa che debba ritenersi attendibile la saga del re cretese Minosse in Sicilia; il “Monte Guastanella, caratterizzato com’è da un’unica via di accesso e da un’eccelsa rupe fortificata sarebbe il sito della antica Camico, reggia del re sicano Cocalo, definita da Diodoro Siculo φρούριον (luogo fortificato)”; le “coincidenze strutturali, la specificità dell’insediamento nell’area agrigentina teatro delle vicende di Minosse e Cocalo, unita alla tradizione orale della sepoltura di un re dal nome Mini-Minosse nelle viscere di Monte Guastanella”, hanno finito col confermare e convalidare tale sito come “quello della tomba-tempio del re cretese Minosse”.

Plaudiamo al pregevole saggio di Rosamaria Rita Lombardo e ci congediamo con una strabiliante coincidenza.  
“Nel corso di alcune ricerche comparative, condotte nell’ambito del presente lavoro, mi sono imbattuta in un motivo iconografico particolare e quanto mai oscuro, presente su un’anfora cipriota (anfora Hubbard prove­niente da Platani presso Famagosta e conservata nel museo di Nicosia a Cipro). L’intera scena, a tutt’oggi non identificata, appartiene, a mio avviso, a un preciso, peculiare e raro, sul piano del riverbero iconografico, ciclo mitologico: quello appunto della saga di Minosse e Dedalo in Sicilia, che ha un riflesso interessantissimo in questa creazione cipriota e trova illuminanti conferme sul piano lettera­rio (Apollodoro, Epitome, I, 14-15; Zenobio, Proverbi, IV, 92). Databile alla fine del­l’VIII sec. a.C., potrebbe costituire una prova e un elemento discrimi­nante e decisivo per ritenere la saga del re cretese Minosse in Sicilia non già una composizione mitica di età storica concepi­ta per giustificare e nobilitare l’espansione greca in Occidente, bensì un evento protostorico realmente accaduto, la cui prima risonanza orale e attestazione figurativa precederebbe di molto la sua posteriore codificazione letteraria.”

lunedì 12 maggio 2014

Paolo Calabrò su Ascolto per scrivere


http://www.faraeditore.it/nefesh/Ascoltoperscrivere.html 


Sappiamo bene che la nostra è un’epoca verbosa: tutti parlano, scrivono, producono parole, più spesso chiacchiere – in ogni forma e modo conosciuti, anche multimediali – per qualcun altro. “Altro” che però non c’è, perché anch’egli è impegnato a scrivere. Alla fine tutti parlano, ma nessuno ascolta. Perciò questa è anche l’epoca dell’immagine (dove si vedono sempre più pay-tv e si legge sempre di meno): in un istante puoi vedere (e sognare di aver capito o afferrato la cosa), ma non trovi mai il tempo per seguire una storia che abbia un inizio, uno svolgimento e una fine (al punto che diversi studiosi rilevano difficoltà di apprendimento nei giovani dovute proprio a questo tipo di incapacità).
Che è, in definitiva, la capacità di ascoltare. Come quando uno parla e chi gli sta di fronte sta pensando a quello deve rispondere, o del tutto ai fatti suoi: ecco, questa è un’ottima immagine per il nostro tempo, logorroico e sordo insieme. Su queste ed altre suggestioni si è lavorato alla kermesse che si è tenuta a Le Castella (KR) nell’autunno del 2013 e di cui il volume Ascolto per scrivere (ed. Fara) contiene gli atti, tra i quali spiccano i contributi del curatore, Alessadro Ramberti, di Angela Caccia, organizzatrice, di Teresa Caligiure; insieme a quelli di Andrea Venzi, Bonifacio Vincenzi, Caterina Camporesi, David Aguzzi, Davide Zizza, Fortunato Morrone, Francesco Cosco, Giusy Regalino, Maurizio Caruso, Paolo Sesti, Sergio Pasquandrea.

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Pubblicato in PaginaTre

 

Ascolto per scrivere

 

10 maggio 2014
(voce di SopraPensiero)

A. Ramberti (a cura di), Ascolto per scrivere, ed. Fara, 2014, pp. 154, euro 16.

giovedì 8 maggio 2014

Culti pagani e culti cristiani – San Calogero di Agrigento: l'Ercole di memoria ciceroniana


S. CALOGERO DI AGRIGENTO: L’ERCOLE DI MEMORIA CICERONIANA


Questo studio nasce dalla convergenza di personali interessi di ricerca archeologica e innovativi percorsi folklorici esplorativi da me condotti e sperimentati nell’ambito della gestazione  e stesura del mio libro, L’ultima  dimora del Re. Una millenaria narrazione siciliana “svela” la tomba di Minosse, pubblicato di recente da Fara Editore. In particolare, il materiale qui illustrato è il frutto di un’esperienza di ricerca realizzata nell’ambito delle feste religiose dell’agrigentino.

SOMMARIO:

1- INTRODUZIONE
2- CULTI PAGANI E CULTI CRISTIANI
3- LA FESTA DI S. CALOGERO DI AGRIGENTO
4- S. CALOGERO: L’ERCOLE DI MEMORIA CICERONIANA

5- CONCLUSIONI
6- BIBLIOGRAFIA
 

Introduzione

Il saggio a seguire propone il rinvenimento di taluni legami intercorrenti fra il culto di S. Calogero di Agrigento e quello pagano tributato in loco ad Ercole in età ciceroniana.
Il motore di questa indagine è la scoperta di precise affinità e rispondenze rituali, da me riscontrate, tra il culto cristiano calogerino e quello relativo all’Eracle agrigentino.
La ricerca, condotta sulle fonti a mia disposizione raccolte, si è mossa su tre versanti, quello folklorico-etnografico, quello mitico-letterario e quello archeologico.




Tra le fonti folklorico-etnografiche si annoverano tutte le notizie e i documenti, anche fotografici, raccolti sulla sagra agrigentina di S. Calogero.
 

Tra le fonti mitico-letterarie si annoverano:
1- Le Verrine di Cicerone
2- Il mito di Eracle

Tra le fonti archeologiche si annoverano, invece, alcune testimonianze architettoniche, vascolari e scultoree:
1- Il Tempio di Ercole di Agrigento
2- Le rappresentazioni vascolari e scultoree del mito di Eracle



Culti pagni e culti cristiani


La conservazione di usi, costumi, riti, credenze che talora risalgono indietro di parecchi secoli, anzi di millenni (i “Rottami di antichità” del Vico), riveste grande importanza, dal momento che l’attuale perdurare di antiche forme di vita e cultura, testimonianze di un passato assai remoto, è un fenomeno di un significato e di un valore veramente notevoli.
È oggi acquisizione ormai certa e incontrovertibile il fatto che diversi culti cristiani si siano innestati nel corso dei secoli su culti pagani che risultano perduranti tuttora nel mezzogiorno d’Italia.

Il Cristianesimo è una religione a carattere sociale nella quale il rapporto è tra la comunità e il Dio e nella quale prevale la forma collettiva del culto: la comunità implora l’aiuto del dio in situazioni di difficoltà o ringrazia la divinità per l’aiuto ricevuto. Le origini del Cristianesimo vanno ricercate nell’ultimo periodo della civiltà romana. La vera novità del messaggio del Cristo, consiste essenzialmente nel rinnegare la struttura sociale e gerarchica dell’impero romano, rivolgendosi direttamente ai ceti maggiormente oppressi e sofferenti. Un altro elemento in grado di spiegarci la sua grande diffusione, risiede nel fatto che esso, pur diffondendosi eminentemente a livello urbano, non rimase confinato all’interno di un popolo, grazie anche alla grande opera di cristianizzazione portata avanti dal predicatore Paolo di Tarso.

Nel paganesimo, che è invece una religione politeista e prevalentemente a carattere misterico e soteriologico, il rapporto è tra singolo e il dio. Prevale quindi in esso una forma individuale di culto in cui l’anima si eleva verso la divinità. Il termine “pagano” designa colui che non ha aderito al cristianesimo ed è rimasto fedele all’antica religione. L’origine del vocabolo è stata spiegata in vari modi. Per la maggior parte degli studiosi, “paganus” equivale a “rustico”: i pagi (villaggi), infatti, sarebbero stati l’ultima roccaforte e baluardo del paganesimo. Un’interpretazione più recente spiega invece “paganus” come civile o borghese. Il cristiano è invece identificato come un soldato di Cristo. I culti popolari sono sopravvissuti per millenni, passando dalle religioni antiche a quelle moderne. Tale continuità è da identificarsi nel mantenimento della struttura sociale caratteristica delle società contadine, nonostante alcuni mutamenti, i quali non hanno intaccato tuttora il tipo di rapporto tra la comunità e le sue divinità. Le permanenze cultuali del passato sono particolarmente evidenti nei culti popolari (processioni, feste, manifestazioni carnevalesche, ecc.), nei quali spesso i motivi cristiani si sono sovrapposti a motivi di religioni preesistenti a carattere popolare.
In molte delle manifestazioni di religiosità popolare è, difatti, spesso riconoscibile un sottofondo pagano che la Chiesa, quando non è riuscita a estirpare, ha saputo trasformare e adottare, dando ad esso un nuovo significato. L’avere la Chiesa romana fissato la data della nascita di Cristo nei giorni in cui ricorreva la festa pagana del “natalis solis invicti”, è prova di questo adattamento sostitutivo. Il solstizio d’estate coincide invece con S. Giovanni, e anche in questa festa molte tradizioni conservano tracce di origine pagana. Il Calendimaggio, ad esempio, conservò fino a pochi secoli or sono il suo carattere propiziatorio per la fecondità e l’abbondanza, con forme licenziose ispirate alla magia simpatica. Ma la Chiesa, dopo vari tentativi di cristianizzazione non bene affermatisi, risolse definitivamente il caso con la dedicazione del mese di maggio alla Vergine: le “Regine di maggio” furono così detronizzate e al loro posto si resero omaggi di fiori e offerte alla Madonna.
Nel Sud d’Italia permane una particolare religiosità fortemente legata a moduli pagani, caratterizzata da un persistente ibridismo di religione, magia e superstizione.

I tentativi della Chiesa e dell’alto clero di cristianizzare questi culti pagani sono stati quasi sempre vanificati nei secoli, dall’opera di Gregorio Magno (590-604) sino al Concilio di Trento e dall’opera del basso clero a sostegno delle classi popolari ancora legate al paganesimo e lontane dalla dottrina cristiana.
Il primo ad attuare una vera e propria opera di cristianizzazione delle campagne, come ben si sa, fu nel VI secolo Gregorio Magno. Ci riuscì in larga parte ma continuarono, tuttavia, in tale ambiente, a resistere, fino ad oggi, radici pagane nei culti e rituali agiti.






Carlo Levi (Torino 1902 - Roma 1975), autore del romanzo Cristo si è fermato a Eboli, confinato a causa dei suoi ideali antifascisti nel 1935 dal regime a Gagliano, in Basilicata,
scoprì ivi la bellezza del mondo meridionale ancora legato a credenze arcaiche. Egli parla di un “paganesimo perenne” del mondo contadino mediterraneo di cui è significativa ed esemplificativa la descrizione nel romanzo del culto della Madonna nera che richiama Persefone, dea greca degli Inferi (
“La Madonna dal viso nero, tra il grano e gli animali, gli spari e le trombe non era la pietosa Madre di Dio, ma una divinità sotterranea, nera, delle ombre del grembo della terra, una Persefone contadina, una Dea infernale delle messi”, C. Levi, ivi). Ci sono anche aspetti magici e superstiziosi in altre manifestazioni popolari del Sud. Ricordiamo a questo titolo il ballo della tarantola in cui i tarantolati venivano curati al ritmo di danze e di suoni frenetici ed ossessivi; veniva usata in tale particolare intervento musico-terapeutico anche la “tammorra”, antico strumento popolare. Le persone affette da tale disturbo venivano fatte roteare e stremate, cadevano a terra, liberandosi dal morso della tarantola.
Quasi tutte le feste popolari si svolgono nel periodo primaverile ed estivo e sono concepite come dei riti propiziatori per la semina e il raccolto. Simili rituali propiziatori testimoniano sovente l’innesto del culto cristiano su quello pagano. Il carnevale, festività di origine romana, è una festa nella quale per un giorno si abbandonano gli schemi classici della routine, si sovverte l’ordine delle cose e dei ruoli. Esso assolve una funzione liberatoria, finalizzata a trasgredire le regole e far ritorno al Caos primordiale. Alcuni riti pagani hanno anche funzione penitenziale e di espiazione, come ad esempio la processione di flagellanti (Vattienti) che si svolge in occasione dei riti pasquali nel Beneventano e nel Catanzarese. Tutto ciò testimonia come i culti cristiani siano fortemente rapportati ai culti pagani soprattutto nel Sud d’Italia.


La popolare e antica “terapia” del tarantismo (ritenuto effetto del morso della tarantola) consiste nel “suscitare un accesso di agitazione maniaca” nel tarantolato fino al suo totale rilassamento, facendolo danzare al suono ritmato di vari strumenti (ballo di S. Vito).


Nocera Tirinese (Catanzaro). Processione della Settimana
Santa: un Vattiente si flagella le gambe con acute punte
conficcate in pezzi di sughero.


Guardia Sanframondi (Benevento). Dal 1445, ogni sette anni, i Battienti a sangue, in una processione penitenziale, si flagellano il petto con acute punte. 


 



La Festa di S. Calogero di Agrigento
 

Agrigento, “la più bella città dei mortali”, come il poeta greco Pindaro la definì ventisette secoli addietro, è senza dubbio uno dei luoghi di Sicilia tra i più suggestivi, singolare sintesi di mito e storia, arte e cultura, paesaggio ed ambiente.
La città moderna, cui fa da scenario la splendida Valle dei Templi e da sfondo la luce dell’azzurro mare africano, ospita e celebra ogni anno, nella prima e seconda domenica di luglio, una “fantasmagorica” festa in onore di S. Calogero, uno dei Santi più amati e venerati nella Sicilia occidentale, ritenuto nella cultura contadina il Santo protettore del raccolto estivo, cui sono tributati tutt’oggi dagli Agrigentini singolari omaggi e devozioni cultuali di gran lunga maggiori di quelli comunemente indirizzati dagli stessi al loro patrono, S. Gerlando.
Tale antichissima festa di contadini e carrettieri, nonostante i numerosi tentativi operati nel corso dei secoli dalle autorità ecclesiastiche e pubbliche di riformarla e renderla “civile”, addomesticandola e disarmandola dei tratti più impressionanti di radicalismo contadino e pagano, occasiona ancora oggi, insieme a toccanti testimonianze di fede e devozione di spiccato sapore ancestrale, le più pure ed autentiche manifestazioni di tradizione e colore locale in omaggio al “bel vecchio” (tale è il significato del nome greco Calogero”) che la tradizione popolare vuole dotato di straordinari poteri taumaturgici.
Le notizie agiografiche sul Santo sono tradite dalle biografie contenute in due particolari testi liturgici. Quello più antico è costituito da una rosa di odi composte da un certo Sergio, monaco di Fragalà, dalle quali si ricava che il Santo, nato con molta probabilità a Cartagine, sbarcò in Sicilia nel V sec. d.C., dove visse da eremita in una grotta nei pressi di Lilibeo, l’attuale Marsala, curando gli infermi e convertendo i pagani alla fede cristiana.(1)
L’altro documento, riferentesi alle lezioni dell’Ufficio pubblicato in Sicilia nel 1610, testimonia che Calogero, recatosi da Costantinopoli a Roma per venerare il Papa, di là si recò in Sicilia per cacciarvi i demoni del monte Cronio presso le Terme Selinuntine, odierna Sciacca.(2)
Queste le testimonianze propriamente agiografiche relative al Santo, mentre molteplici e variegate sono le leggende locali fiorite intorno a questi nelle diverse contrade della Sicilia occidentale (Agrigento, Porto Empedocle, Aragona, Naro, area nissena, ecc.), ove più acceso è il suo culto.
In particolare, secondo la tradizione religiosa agrigentina (3), S.Calogero, in occasione di una esiziale pestilenza abbattutasi sulla città di Agrigento, si fece promotore di fervide opere di assistenza e aiuto nei confronti della popolazione falcidiata dal morbo. Egli, recandosi per le strade ad elemosinare presso i cittadini non contagiati, asserragliati in preda alla paura nelle loro case, pane e cibo per i malati indigenti, ricevette quanto richiesto da finestre e balconi dei palazzi ove si recava a fare la questua.
Sin qui l’autorevole ed ortodossa pagina religiosa che giustifica l’agrigentina festività calogerina, la cui celebrazione, però, presenta palesi caratteri rituali ibridi e sincretistici che non possono rientrare a pieno titolo o essere giustificati solo dalla “lezione cattolica” testé riferita. La celebrazione della festa di S. Calogero, difatti, consta di due fasi rituali ben distinte. Una rigidamente ufficiale e ortodossa sul piano cultuale, estrinsecantesi nella Messa solenne officiata dai prelati nella chiesa cinquecentesca dedicata al Santo, l’altra, dichiaratamente eterodossa e patentemente pagana, che si svolge al di fuori della chiesa ove il Santo viene lasciato nelle mani di una folla di fedeli in preda ad un montante tripudio orgiastico e che non prevede alcuna presenza legittimante di autorità religiose o di atti di consacrazione ecclesiastica.
 

Note
(1) Bibliotheca Sanctorum.

(2) Cajetanus, Isagoge, p. 217, 222. 
(3) Leggenda riferita nella tesi di laurea di C. La Cognata, Il culto di S. Calogero nella provincia di Agrigento, Università di Palermo, anno accademico 1952-53, p. 69, ripresa da F. Salvatore Cappuccino, La Selva, Presso la  biblioteca comunale di Naro.               

La statua di S. Calogero viene portata fuori dalla chiesa.


Ballo del Santo davanti al sagrato.



Una volta l’annuncio della festa era fatto dal devoto “portatore della cerva di S. Calogero” che aveva il compito di invitare la città a destarsi per l’imminenza dell’evento religioso. La cerva, come simbolo poetico dell’alleanza tra l’uomo e la natura, è legata indissolubilmente alla leggenda di S. Calogero.
L’antico simulacro dell’animale, scolpito in legno, veniva, difatti, portato in giro per la città da un devoto, dall’alba della prima domenica di luglio. Si candidavano a portare la cerva alcuni devoti, tra i quali il comitato doveva scegliere  quello a cui dovesse andare l’onore. La cerva era posta su un grande vassoio che sosteneva anche la latta cilindrica sigillata per raccogliere le offerte. 


Devoto portatore della cerva.
 

Durante la processione che si snoda per le strade medievali e arabe della città come un torrente in piena, ora mareggiante ora rifluente, la statua nera del monaco basiliano viene seguita da una folla immensa di fedeli entusiasti, accaldati, vocianti e sudati, mentre un manipolo di tamburi dà luogo ad una fantasia assordante e trascinante di sapore prettamente pagano – la “Tammuriata di S. Calò” – residuo odierno di uno dei tanti rituali  calogerini, oggi caduti in desuetudine (vedi la processione della cerva di S. Calogero e i giochi di S. Calogero), chiamato “La Diana”.
Della Diana, autentico poema ritmico–contrappuntistico di tamburi in cui culminava la serie di figure ritmico–musicali tambureggianti sviluppantisi in un variegato concerto di ritardazioni e crescendi, ci ha doviziosamente informato a suo tempo lo studioso G. Pitré: “Ad un tratto tutti sospendono di battere sulla tesa pelle: alzano le mazzuole in alto, le incrociano, le intrecciano, le fanno scricchiolare; poi un colpo sul cerchio del tamburo, un altro o due sulla loro testa: e tutto questo con tanta esattezza di tempo e di armonia che riesce un vero partito a tamburi!”
(1)
 

Tamburinai

Mentre ha luogo l’esecuzione della Diana dai balconi viene gettato a pioggia sui fedeli e sullo stesso Santo del pane speciale benedetto, confezionato a pagnottelle (il cosiddetto pane di S. Calogero). I fedeli che seguono il fercolo del santo bizantino in processione in tale occasione manifestano il proprio temperamento più segreto dando vita ad atti di adorazione diretta e confidenza fisica col santo, che sarebbero ritenuti irriverenti e addirittura sacrileghi (talora furono considerati tali dall’autorità ecclesiastica) se fossero intesi in un senso assoluto e non proporzionati allo speciale culto che ha verso questo santo il popolo dei devoti e dei postulanti grazie.

Nota

(1) G. Pitré, Feste patronali in Sicilia, Palermo 1889, p. 371.




Atti di devozione e confidenza fisica nei confronti di S. Calogero.



Lancio del pane sul fercolo del Santo basiliano.
 
La moltitudine degli adoranti, difatti, ad ogni sosta del santo basiliano, momento questo in cui la venerazione dei fedeli raggiunge vertici frenetici e parossistici, come travolta da un acceso trasporto mistico e allo stesso tempo fisico verso il Santo, si spinge fin sopra la statua per abbracciarla, toccarla e baciarla in un’atmosfera di invasata esaltazione di carattere quasi primordiale. L’assistere a tale spettacolo, la cui regia e coreografia è palesemente ancestrale (balli del Santo, scrolloni della statua, abbacchiatura dei grappoli umani che scalano il simulacro), è, a dir poco, travolgente sul piano emotivo e finisce col rapire estaticamente tutti gli astanti.




San Calogero: l
Ercole di memoria ciceroniana
 

Sulla base di quanto abbiamo documentato, è lecito ipotizzare dalla scrivente che il culto di S. Calogero abbia origine decisamente pagana.
Ciò mi induce di necessità a ricercarne l’archetipo cultuale nel vasto pantheon classico greco-romano sulla scorta dei caratteri folkloristici ed etnografici individuati. Il primo elemento che mi fa pensare ad una probabile connessione storica tra il culto del Santo e una figura eroica del mito greco, è la cerva.
Fonti di tipo fotografico ed  etno-folklorico ne testimoniano di fatto la presenza: durante la processione di S. Calogero un devoto, denominato “portatore della cerva”, reggeva in passato su un vassoio il simulacro di una cerva provvista di corna, elemento insolito, questo, per un simile animale, considerato che gli esemplari femmine non hanno le corna. Ricercando tra le fonti mitiche del mondo greco una possibile corrispettiva situazione mitica, ritengo plausibile rinvenire questa nel mito di Eracle e, in particolare nel ciclo delle fatiche dell’eroe.
Il riferimento va alla “cattura della cerva di Cerinea”, terza fatica del mitico personaggio. Si narra difatti che Eracle, come fatica impostagli da Euristeo, dovesse catturare una cerva dalle corna dorate, animale sacro ad Artemide, la dea della caccia. Il compito era vincolato da un obbligo al quale Eracle non poteva sottrarsi: non doveva in nessun modo provocarne la morte. Dopo ben un anno di ricerche, l’eroe la trovò e la catturò. Artemide, a seguito della felice conclusione della fatica, si adirò con l’eroe. La cerva, come animale sacro legato ad una figura di culto, oltre ad essere presente nel mito di Eracle è presente nel culto calogerino. Come già detto essa, era, una volta, uno degli elementi “cardine” della processione. Nella leggenda calogerina si racconta che fosse stata questa particolare cerva a sfamare il Santo basiliano, allattandolo.



Tesoro degli Ateniesi. Metopa nord. Eracle e la cerva, museo di Delfi.


Eracle stacca le corna d’oro alla cerva di Cerinea. La scena è dipinta su un vaso attico a figure nere rinvenuto a Vulci, datato intorno alla metà del sec. VI a.C. (London, British Museum).

Ercole con la cerva. Finissimo bronzo, derivante da un originale lisippeo, proveniente da Pompei, dove fungeva da fontana nell’impluvium dell’atrio di una casa signorile. Fu donato alla raccolta Salnitriana da Francesco I.



Un altro elemento a favore dell’ipotesi avanzata è deducibile dai documenti agiografici del Santo ed è appunto l’origine straniera di questo. Da una rosa di odi composte da un certo Sergio, monaco di Fragalà, apprendiamo che il luogo natio del Santo fu con tutta probabilità Cartagine; egli sbarcò in Sicilia nel V secolo d.C. dove visse da eremita in una grotta nei pressi dell’attuale Marsala. Dall’analisi di ulteriori fonti letterario-mitologiche sulla figura di Eracle, emerge che il culto dell’eroe era largamente diffuso in tutte le città greche della Sicilia, anche se il centro principale della leggenda era il lembo occidentale, area questa dove dalla Grecia, secondo il mito, era approdato il figlio di Alcmena e Zeus. Giunto sulla sponda italiana dello stretto di Messina, Eracle, secondo quanto affermato da Diodoro Siculo (Biblioteca Storica, IV 22-23-24), avrebbe fatto passare le sue mandrie in Sicilia. L’eroe corse lungo tutta la costa settentrionale dell’isola e le ninfe del luogo, perché si ristorasse, fecero scaturire dal suolo le acque termali di Imera e Segesta. I mitografi parlavano del passaggio dell’eroe con le sue mandrie anche da altre
parti della Sicilia.
Pertanto, Diodoro riferisce che Eracle, dopo aver lasciato la regione di Erice, si recò nella città che fu chiamata successivamente Siracusa. Colà offrì sacrifici a Core e gli indigeni impararono da lui il rituale dei sacrifici e delle feste, che da allora furono celebrate ogni anno. Altro centro della leggenda di Eracle fu Agirio ove si racconta che l’eroe ricevette per la prima volta onori divini. A tal proposito il Ciaceri (1) e altri studiosi moderni riconoscono che i riti in onore di Eracle, di carattere popolare  locale, si sono conservati ad Agirio nel culto di un S. Filippo guaritore.


Nota
(1) E. Ciaceri, Culti e miti nella storia dell’antica Sicilia, Firenze 1981, p. 281.


 

Un altro indizio che lega i due culti è la Diana. Questa, come già detto, è una serie di figure ritmico-musicali, durante la quale viene gettato il pane benedetto dai balconi come rievocazione di quando S. Calogero passava per le vie della città a chiedere cibo per i malati di peste. Anche il culto pagano di Eracle era legato alla figura di Diana, l’Artemide greca. Infatti l’eroe doveva catturare la cerva di Cerinea, sacra alla dea.
Anche nelle Verrine di Cicerone troviamo un elemento essenziale che ci riporta al culto di  S. Calogero: l’accesa devozione tributata dagli Agrigentini ad Ercole. Analizzando, difatti, il passo 94  del IV libro delle orazioni ciceroniane, di seguito riportato, ho avuto modo di individuare delle chiare affinità tra il culto del santo basiliano e quello dell’eroe greco.


In Verrem II, 4, 94 :

Herculis templum est apud Agrigentinos non longe a foro, sane sanctum apud illos et religiosum. Ibi est ex aere simulacrum ipsius Herculis, quo non facile dixerim quidquam me vidisse pulchrius (tametsi non tam multum in istis rebus intellego quam multa vidi), usque eo, iudices, ut rictum eius ac mentum paulo sit attritius, quod in precibus et gratulationibus non solum id venerari, verum etiam osculari solent. Ad hoc templum, cum esset iste Agrigenti, duce Timarchide, repente nocte intempesta servorum armatorum fit concursus atque impetus. Clamor a vigilibus fanique custodibus tollitur. Qui primo cum obsistere ac defendere conarentur, male mulcati clavis ac fustibus repelluntur…

[In Agrigento, non lontano dal foro, sorge un tempio di Ercole veramente sacro per gli abitanti e da essi molto venerato. Al suo interno è custodita una statua in bronzo raffigurante proprio Ercole, e credo di poter asserire senza difficoltà di non aver mai visto nulla di più bello (anche se in cose di questo genere io non sono un intenditore così raffinato come richiederebbe il gran numero di opere d’arte che ho visto); la sua divina bellezza, o giudici, è tale che le labbra socchiuse e il mento della statua sono un po’ consunti, perché i fedeli nelle preghiere e nei ringraziamenti non si limitano a venerarla ma si spingono fino a baciarla. Mentre Verre si tova ad Agrigento, succede un fatto improvviso; a notte fonda un gruppo di schiavi armati, sotto la guida di Timarchide, accorre in massa verso questo tempio e lo prende d’assalto. Si levano grida d’allarme da parte degli uomini della ronda e dei custodi del santuario; in un primo momento essi, nel tentativo di resistere all’aggressione e di organizzare la difesa, vengono ridotti a mal partito e respinti a colpi di mazza e di bastone…]


Agrigento - Il Tempio di Ercole
In questi passo si racconta, infatti, dell’esistenza nei pressi del foro di Agrigento di un tempio di Ercole particolarmente sacro agli abitanti della città. Esso custodiva al suo interno uno splendido simulacro bronzeo dell’eroe dalle labbra e dal mento consunti a causa degli accesi omaggi devozionali tributati dai fedeli alla statua. Cicerone, a tal proposito, riferisce, infatti, che «in precibus et gratulationibus non solum id venerari, verum etiam osculari solent» [mentre pregano e ringraziano il dio i fedeli abitualmente non si limitano a venerarla ma si spingono fino a baciarla].
Il racconto poi prosegue con la menzione di un tentativo di furto operato ai danni della statua dell’eroe per mano degli sgherri di Verre. Mentre, infatti, Verre, governatore della Sicilia nel 73 a.C., si trovava ad Agrigento, un gruppo di schiavi armati sotto la guida di Timarchide accorse in massa verso il tempio di Ercole prendendolo d’assalto. Gli aggressori, divelti i chiavistelli e sfondati i battenti del tempio, tentarono di rimuovere la statua del dio facendo leva con dei pali.
In seguito al frastuono suscitato da quella masnada di ladri, si diffuse per l’intera città la notizia che il tempio di Ercole era stato assalito e che la statua dell’eroe stava per essere rubata.
In breve tempo da tutta quanta la città accorse la gente in massa verso il santuario per impedire la sacrilega rimozione della statua. Tra gli Agrigentini e gli schiavi al soldo di Verre si verificò un fitto lancio di pietre. Gli aggressori, avuta la peggio, si diedero quindi alla fuga desistendo dal loro criminoso piano.
Il racconto di Cicerone costituisce, a mio avviso, una preziosa testimonianza per lo studio da me condotto in quanto rappresenterebbe un elemento storicamente probante la mutuazione da me sostenuta del culto di S. Calogero di Agrigento da quello tributato in loco ad Ercole in età ciceroniana.
La particolare venerazione di cui era fatta oggetto la statua di Ercole dagli Agrigentini, estrinsecantesi, appunto, in veri e propri atti di confidenza fisica con il dio, sembra trovare pieno riscontro in tempi moderni nelle modalità rituali del culto di S. Calogero che ha luogo ancora nella stessa città.
La veridicità della fonte ciceroniana è altresì testimoniata dalla presenza nell’area della Valle dei Templi di Agrigento dei resti del Tempio di Ercole di cui fa menzione Cicerone.
Quello dedicato ad Eracle è il più arcaico dei templi agrigentini. Esso può datarsi alla fine del VI sec a.C. costruito in calcare locale, in stile dorico, esastilo, di pianta allungata con 6 x 15 colonne. In queste, alte m 10,7, è evidente la rastremazione; il capitello di forma schiacciata è separato dal fusto della colonna da una gola. Nell’interno, attorniata da un ampio corridoio, si trova la cella di dimensioni lunghe e strette (m. 47,67 x 13,90). Completava il profilo del tetto un’alta sima calcarea decorata  con teste di leoni nello stile della metà del V sec. a.C. (Museo di Agrigento).



Agrigento: tempio di Eracle. Pianta.



Conclusioni 
 

Al termine di questa ricerca, mirante a dar credito all’ipotesi di una derivazione “storica” del culto agrigentino di S. Calogero da quello tributato nella stessa città in epoca romana ad Ercole, riepilogo in sintesi le tappe che nel corso delle indagini svolte mi hanno condotto a presentare come verosimile e fededegna sul piano storico e scientifico una simile ipotesi.
La mutuazione, da me sostenuta, del culto calogerino da quello di Ercole sarebbe suggerita da molteplici riscontri in campo mitico, letterario ed archeologico (Le Verrine di Cicerone - Il mito di Eracle - Il Tempio di Ercole di Agrigento - Le rappresentazioni vascolari e scultoree della III fatica dell’eroe) che testimonierebbero l’appartenenza di entrambe le nostre figure ad un identico orizzonte cultuale e rituale. Nella festa calogerina è possibile, difatti, cogliere una gamma di espressioni e atteggiamenti che chiaramente rimandano a un codice della corporeità e dell’esteriorità indubbiamente remoto.
In questa grande festa siciliana il contenuto orgiastico di connotazione pagana, sia pure in modo controllato, continua a far sentire la sua presenza e potenza. La valenza orgiastica del rito emerge, difatti, in molti segmenti dell’iter cerimoniale in onore del santo, ma raggiunge l’apice nella fase in cui il folto numero di portatori conduce a spalla, in una atmosfera la cui intensità drammatica sfugge alla “misura” imposta dalla Chiesa, la pesante statua processionale.
I portatori si fanno merito in tale occasione di “fari abballari lu Santu”, eludendo sovente il controllo della gerarchia ecclesiastica. Non dissimilmente orgiastici sono i significati legati alla nudità rituale (vedi bambini denudati che vengono spesso accostati alla statua del Santo durante le molteplici soste processionali) e ai comportamenti “eccessivi” dei devoti agrigentini che, nello sciogliere le loro promesse di voto, si lasciano andare a veri e propri atti di confidenza fisica con la statua del santo. Queste notazioni, unite alla presenza della cerva e alla “Diana”, sembrano testimoniare con tutta chiarezza la stretta connessione tra il culto di S. Calogero e quello di Ercole. Questo legame è ancora molto visibile nella celebrazione agrigentina, anche se la dinamiche del cambiamento cui la comunità contadina locale nel corso del secolo scorso è andata incontro parrebbero, a volte, occultarla.
La festa all’interno delle modificazioni del tessuto sociale e religioso della comunità agrigentina si è andata parallelamente trasformando, perdendo, difatti, molti dei collegamenti funzionali e simbolici con la struttura sociale e religiosa del gruppo che un tempo la produceva.
Le modificazioni sono avvenute nel senso della “addomesticazione” cristiana della festa, ma la sopravvivenza di taluni aspetti più radicalmente pagani di essa mi ha consentito di focalizzare e scoprire le superstiti connessioni con gli elementi residui della cultura tradizionale pagana cui il rito calogerino è legato.
Giunta al termine del mio modesto lavoro, auspico che le risultanze di questo possano essere sposate da chi mi riserverà l’onore di condividere il cammino della mia ricerca. Essa ha, difatti, costituito per me un viaggio a ritroso nel tempo del Sacro, un “ritorno” a quello che si è lasciato, ma non si è ancora del tutto perduto.


Bibliografia

 
AA.VV. – Viaggio attraverso le feste dell’Agrigentino – Agrigento 1982.
J. Berard – La Magna Grecia – Piccola Biblioteca Einaudi.
M.T. Cicerone – Le Verrine (IV, 94-95).
E. Ciaceri – Culti e miti nella storia dell’antica Sicilia – Firenze 1981.
A. Cattabiani – Santi d’Italia – Milano 1993.
E. De Martino – Sud e magia – Milano 1959.
E. De Martino – La terra del rimorso – Mondadori.
M.A. Di Leo – Feste patronali di Sicilia 1997.
Diodoro Siculo – Biblioteca Storica IV 22,23,24.
M. Eliade – Trattato di storia delle religioni.
M. Eliade – Il sacro e il profano – Novara 1996.
J. Frazer – Il ramo d’oro – Roma 1992.
C. Levi – Cristo si è fermato a Eboli.
F. Lubker – Lessico ragionato dell’antichità classica – Zanichelli.
G. Pitré – Spettacoli e feste popolari siciliane – Palermo 1881.
G. Pitré – Feste patronali in Sicilia – Palermo 1900.
G. Pitré – La famiglia, la casa, la vita del popolo siciliano – Palermo 1913.
L. Sciascia – Feste religiose in Sicilia – Bari 1965.
A. Uccello – Pani e dolci in Sicilia – Palermo 1976.
Tusa e De Miro – La Sicilia occidentale, itinerari archeologici.

Materiale audiovisivo e museale:
Il rito e il sangue
E cupole
Mostra “Ercole: l’eroe, il mito”, Biblioteca di via Senato 14, Milano (Aprile e Ottobre 2001).
Mostra fotografica sulla festa di S. Calogero – Agrigento 1982.