Primo classificato e unico vincitore
Volevo essere Bill Evans di Sergio Pasquandrea (Perugia)
Sergio Pasquandrea
è nato nel sud-est della Penisola, in uno degli ultimi decenni del
secolo scorso. Il destino, che egli corteggia spassionatamente, lo ha
poi portato a trasferirsi nel centro esatto dello stivale. La poesia, da
lui amata di un amore che sconfina nel masochismo, a volte gli ditta dentro.
Lui scrive. Lei scuote la testa, sconsolata. Quando la Musa tace,
Sergio dispone di numerosi altri modi per far danni: l’insegnamento, il
giornalismo musicale, la ricerca universitaria, il disegno, la tastiera
di un pianoforte. Ha due figli che adora e una moglie che si guadagna la
santità sopportandolo. Fra le ultime pubblicazioni, un racconto/saggio inserito in Letteratura… con piedi.
Trenta secondi di pura bellezza
“Quando ascolti la musica, dopo che è finita,
è andata nell'aria, non puoi più catturarla di nuovo”.
(Eric Dolphy)
Il jazz è musica di attimi. È
fatto di illuminazioni fulminee, di bellezza che lampeggia e poi svanisce nel
volgere di secondi; o frazioni di secondo. L’importante non è mai il prima o il
dopo, ma l’ora. Here and now. To be in
the moment è una delle espressioni più usate dai musicisti per
descrivere il perfetto stato mentale, quello indispensabile per creare grande
musica.
E ci sono momenti, nel jazz, che sembrano condensare la bellezza in dosi quasi insopportabili: la prima nota dell’assolo di Miles Davis su So What, l’inizio del riff in fa minore di A Love Supreme, l’introduzione di Louis Armstrong su West End Blues.
E ci sono momenti, nel jazz, che sembrano condensare la bellezza in dosi quasi insopportabili: la prima nota dell’assolo di Miles Davis su So What, l’inizio del riff in fa minore di A Love Supreme, l’introduzione di Louis Armstrong su West End Blues.
Era il cinque dicembre del
cinquantasette.
Sugli schermi americani
andava in onda un programma intitolato “The Sound of Jazz”. La rete televisiva
CBS aveva messo insieme un cast di giganti: Ben Webster, Lester Young, Gerry
Mulligan, Roy Eldrige, Coleman Hawkins, Count Basie, Pee Wee Russell,
Thelonious Monk, Mal Waldron. Una sfilata di leggende.
A un certo punto, a circa metà
del programma, cominciò a cantare Billie Holiday. Il pezzo era un blues,
intitolato Fine and Mellow: uno dei rari
blues del repertorio di Billie, grande blues
singer che di blues veri e propri non ne cantò quasi mai.
Nella band, tra i
sassofonisti, c'era anche Lester Young. Che quel giorno stava male e non
avrebbe voluto nemmeno suonare. Aveva quarantotto anni, ma era come se ne
avesse avuti cento. Troppa vita, troppa sofferenza, troppa musica, troppa
robaccia nelle vene. Billie ne aveva quarantadue, ma non è che cambiasse molto:
non aveva più che un filo di voce, la sua arte si era consumata nell’alcool,
nella droga, in una vita vissuta senza risparmiarsi niente.
Pare che i due, una volta
amici fraterni (qualcuno dice anche amanti), da qualche tempo non si parlassero
quasi più.
Ma arriva un momento, dopo il
tema cantato da Billie, dopo l’assolo di Ben Webster; un momento in cui Lester
Young si alza, raggiunge il microfono e comincia a suonare, ciondolando un po’
da una parte all'altra.
E fa uno degli assolo più
belli della sua vita.
Sono poco più di trenta
secondi: quattro o cinque frasette blues, semplicissime, elementari. Non più di
una cinquantina di note, in tutto. Ma ognuna sembra spremuta dal midollo di un’intera
esistenza passata tra il fumo dei locali e il fondo delle bottiglie, ognuna
arriva leggermente in ritardo, come se non volesse lasciare lo strumento,
cedere il passo alla successiva (il termine tecnico è to lay back, ma da solo dice poco o niente).
E poi, la faccia di Billie. Appena Lester comincia a suonare,
lei si volta e lo guarda, inclinando la testa, con una tenerezza da stringere
il cuore: socchiude gli occhi, annuisce. Sì, sembra pensare, è sempre lui, è il
vecchio Prez. Che cosa sarebbe il mondo, senza quel sax?
È un attimo. Ed è stato
definito “il più bell’assolo muto della storia del jazz”.
Poi, appena l'assolo di
Lester è finito, Billie ricomincia a cantare
A tutti e due, Billlie e
Lester, restava poco da vivere, e forse lo sapevano. Lester Young avrebbe
trascorso i suoi ultimi mesi in una stanza, sigillato in un mutismo autistico,
senza più suonare, guardando il mondo che passava dietro i vetri, nutrendosi
solo di whisky. Morì il quindici marzo del cinquantanove.
Billie lo seguì poco dopo: il
treuntun maggio dello stesso anno fu ricoverata per una crisi epatica. Un
poliziotto stazionava davanti alla sua camera, perché era sotto arresto per
possesso di droga, per l’ennesima volta. Se ne andò il diciassette luglio,
sola. In banca aveva settanta centesimi, addosso settecentocinquanta dollari in
contanti.
Due morti squallide. Eppure
basta, da solo, quell’attimo; bastano quei trenta secondi di bellezza
abbagliante, a riscattarle di fronte all’eternità.
È tutta questione di attimi. (…)
Giudizi
Brutte bestie gli appassionati. Di qualunque genere. Con il loro assolutismo, la loro autoreferenzialità di genere, i loro continui maledettissimi rimandi a fatti ed eventi che i loro interlocutori spesso bollano come insignificanti. Con qualche rara eccezione. Questa. Un magnifico viaggio, apparentemente privo di mappe e bussole, con un punto di partenza difficile (per un profano che, come me, percepisce qualche cosa di buono in una giornata buona) che diventa improvvisamente semplice. Pieno di rimandi e note a pié di pagina facili da individuare. Pieno di nomi, di vita, di strane manie e di luoghi. Appassionante e appassionato. (Stefano Martello)
Il Jazz è una questione di feeling: non ci sono mezze
misure, o ce l’hai o non ce l’hai. In questo racconto, pieno di passione, l’autore
trasmette perfettamente la corporeità della musica, il suo entrare quasi
prepotentemente nella vita scandendone il ritmo. (Ardea Montebelli)
Per la competenza e la passione. Perché, con una prosa
chiara e moderna, ha solleticato la mia curiosità umanizzando un genere
musicale col quale non sono mai andata d'accordo. (Gloria Visani)
Chiunque ami la musica (in particolare il jazz) non
potrà che rimanere sbalordito e divertito da questi racconti che testimoniano
una fortissima passione, grande competenza, sincera curiosità e profondo
rispetto per le biografie dei più grandi musicisti jazz della storia. (Silvia Sanchini)
Opere
selezionate
Hermann mille anni dopo di Alessandro Domenighini (Valcamonica)
Alessandro Domenighini è nato nel 1974, vive in Vallecamonica. Ha svolto varie attività professionali, più o meno connesse con una laurea in Giurisprudenza e un master in Economia. È sposato con Anita e padre di Marta, Saverio e Giovanni. Gli piace scrivere brevi racconti, canzoni, teatro, vignette, blog. Gioca a scacchi e ama la sintesi.
La vita del beato Hermann ha qualcosa di meraviglioso e terribile, come capita spesso per le fiabe dei tempi che furono. Bambino deforme di una nobile famiglia del Medioevo, venne abbandonato in un monastero per la vergogna che provocava. I parenti suggerirono più sbrigativamente di ucciderlo, perché allora, si sa, regnava la barbarie. Contro ogni previsione Hermann sopravvisse, divenendo un monaco tra i più colti e capaci del suo mondo. Lo chiamarono miraculum saeculi: consigliere di papi e imperatori, scienziato e poeta, astronomo e musicista. Ogni volta che cantiamo il Salve Regina dovremmo pensare a lui. Forse lo scrisse immaginando la carezza della mamma che non ebbe.
Il giorno fissato Sarah e Agostino vanno in clinica al mattino presto. Passano accanto a un grande albergo con la sua insegna blu. È così difficile dire “H di Hotel”? Un neutrale, corretto, laico “H di Hotel”?
Sarah e l'acca non sono mai andate molto d'accordo. Quand'era bambina gli amichetti di scuola la deridevano chiamandola “Saracca”. Saracca, Saracca, non capisce un'acca... (e taciamo per eleganza il resto della filastrocca). Un pomeriggio dei suoi sette anni tornò a casa in lacrime e piagnucolando chiese spiegazioni alla mamma per quel suo nome bislacco.
«Ma... era il nome della nonna!» disse la mamma con un filo di voce.
«Non è vero, la nonna si chiamava Miriam!»
«Mia nonna!» specificò la mamma. Le avevano dato il nome della bisnonna, che era di Soncino e da Birkenau non tornò più.
(…)
Giudizi
Alessandro Domenighini è nato nel 1974, vive in Vallecamonica. Ha svolto varie attività professionali, più o meno connesse con una laurea in Giurisprudenza e un master in Economia. È sposato con Anita e padre di Marta, Saverio e Giovanni. Gli piace scrivere brevi racconti, canzoni, teatro, vignette, blog. Gioca a scacchi e ama la sintesi.
La vita del beato Hermann ha qualcosa di meraviglioso e terribile, come capita spesso per le fiabe dei tempi che furono. Bambino deforme di una nobile famiglia del Medioevo, venne abbandonato in un monastero per la vergogna che provocava. I parenti suggerirono più sbrigativamente di ucciderlo, perché allora, si sa, regnava la barbarie. Contro ogni previsione Hermann sopravvisse, divenendo un monaco tra i più colti e capaci del suo mondo. Lo chiamarono miraculum saeculi: consigliere di papi e imperatori, scienziato e poeta, astronomo e musicista. Ogni volta che cantiamo il Salve Regina dovremmo pensare a lui. Forse lo scrisse immaginando la carezza della mamma che non ebbe.
Il giorno fissato Sarah e Agostino vanno in clinica al mattino presto. Passano accanto a un grande albergo con la sua insegna blu. È così difficile dire “H di Hotel”? Un neutrale, corretto, laico “H di Hotel”?
Sarah e l'acca non sono mai andate molto d'accordo. Quand'era bambina gli amichetti di scuola la deridevano chiamandola “Saracca”. Saracca, Saracca, non capisce un'acca... (e taciamo per eleganza il resto della filastrocca). Un pomeriggio dei suoi sette anni tornò a casa in lacrime e piagnucolando chiese spiegazioni alla mamma per quel suo nome bislacco.
«Ma... era il nome della nonna!» disse la mamma con un filo di voce.
«Non è vero, la nonna si chiamava Miriam!»
«Mia nonna!» specificò la mamma. Le avevano dato il nome della bisnonna, che era di Soncino e da Birkenau non tornò più.
(…)
Giudizi
Con una prosa commovente e disincantata, poetica ma non patetica, l'autore ci fa entrare nella vita di un uomo come tanti con un lavoro, degli amici, una famiglia e un figlio supereroe, facendoci vivere la straziante quotidianità di un padre speciale. (Gloria Visani)
Un racconto fresco e piacevole alla lettura che mette
a fuoco uno dei problemi più diffusi nel nostro tempo: l’estrema difficoltà a
gestire le relazioni, gli affetti e la vita di coppia. Il dramma della
solitudine scaturisce dalla profonda incapacità di amare gli altri. (Ardea Montebelli)
Non solo mi ha colpito perché è il racconto che ha
scelto il tema più vicino alla mia sensibilità e alla mia esperienza, ma anche
perché è una storia raccontata in maniera autentica, disincantata e al tempo stesso piena di sentimento. Una storia senza retorica, che non vuole suscitare
compassione, ma raccontare di un grande e sincero amore che supera la fragilità,
la malattia e il dolore. (SilviaSanchini)
La linea della nuca di Fabio Orrico (Rimini)
Fabio Orrico è nato a Rimini, dove vive e lavora, nel 1974. Ha pubblicato le placquette L’angolo (La stamperia, 2000) e 20 poesie sullo spaesamento (Santarcangelo, 2002). Con Giulio Perrone Editore ha pubblicato nel 2005 la raccolta di poesie Strategia di contenimento e, per lo stesso editore, nel 2006 ha curato l'antologia Il resto immaginarselo che raccoglie il meglio della produzione del sito letterario www.scrittinediti.it da lui fondato nel 1999 insieme ad alcuni amici. Nel 2013 è uscita la raccolta di saggi in formato e-book L'indicibile nella narrativa italiana, scritta insieme a Simone Cerlini e pubblicata per i tipi di Epublica.
Fabio Orrico è nato a Rimini, dove vive e lavora, nel 1974. Ha pubblicato le placquette L’angolo (La stamperia, 2000) e 20 poesie sullo spaesamento (Santarcangelo, 2002). Con Giulio Perrone Editore ha pubblicato nel 2005 la raccolta di poesie Strategia di contenimento e, per lo stesso editore, nel 2006 ha curato l'antologia Il resto immaginarselo che raccoglie il meglio della produzione del sito letterario www.scrittinediti.it da lui fondato nel 1999 insieme ad alcuni amici. Nel 2013 è uscita la raccolta di saggi in formato e-book L'indicibile nella narrativa italiana, scritta insieme a Simone Cerlini e pubblicata per i tipi di Epublica.
Giudizi
Un testo che spicca di agilità descrittiva e
visionaria nel solco del lubrico. La carne che s’arrende e che si dischiude a
metafora con la forza di un rogo passionale. Una scrittura libera, forte, d’impatto,
di denuncia che colora il buio con i chiasmi dell’amore clandestino. (GiorgioMassi)
Vita. Una anarchia che fai finta di governare, giusto per poter dire che sei
coerente e il tuo destino riposa nelle tue scelte sapienti e giuste. Forse con
dei dialoghi troppo “costruiti”, considerando che comunichiamo ossessivamente
tutto quello che ci passa per la testa. Perché oggi, forse, è proprio il
silenzio a dettare la linea. (Stefano Martello)
La MADRE di Antonio Melillo (Almese,
TO)
Antonio Melillo, nato ad Atripalda (AV) il 26/06/1976, residente ad Almese (TO), è nel comitato scientifico del sito di filosofia della letteratura philosophyofliterature.org Direttore delle collane Memoire e Cervo volante presso Liminamentis. Poesia: Durata del mezzogiorno (Carabba, 2011); Lento incendio (LietoColle, 2007). Traduzioni: Resta un’orma, un’ombra..., traduzione da Catullo (L’Arca felice, 2014); ha curato traduzioni poetiche per ClanDestino. Ha curato i volumi Memoire (Liminamentis, 2014), Mito nel Novecento letterario (Liminamentis, 2012).
Quando accade, accogliere la morte e il dolore significherebbe non inspirare gli afrori della decomposizione? Le parole dette prima sono un autoinganno, come legate a brandelli di speranza.
***
Torcere il naso dalla pelle e dai gesti salati non era carino, ma il lenimento delle carezze era uno sforzo sul cuoio ruvido del capo scosso da un lato. Il letto, non d’una sposa, sconsacrato dalla malattia, dal corpo umiliato; il marito gli porgeva gli occhi che ricordano e s’immaginano la solitudine: i figli avevano comunque ancora una vita intera.
Qualcosa che non potesse essere orribile in quel momento non vi era; lei continuava a guardare – ad accusarmi – mentre quella maschera che l’aiutava a respirare s’impregnava di rosso come lagrime, un rantolo interminato.
Tre anni prima mi confessò il malore, le dissi di non preoccuparsi: era lo scirocco che secca la vita dal di dentro; senza sapere cosa significasse. La mattina, eccitata, mi aveva chiesto più volte di andare con lei in campagna, ricordava soltanto com’era camminare in mezzo al grano, aveva lo sguardo scintillante, una bimba; la madre le era morta in novembre e sembrava volersi ingannare con una passeggiata, interrotta, sempre un novembre, con i campi venduti e la vita possibile solo nella città del nord.
Le dissi di no, volevo correre gli amici, non contemplare, del resto non avevo ancora nulla da ricordare. Quando ritornai all’imbrunire, era in casa, sfiancata su una sedia; insistetti, come lei al mattino, ma con gli occhi sfioriti, di dirmi cosa avesse, invece mi evitava; la cena mancava sul tavolo, solo a quel punto, quasi volesse chiedere scusa, mi disse che aveva avuto un mancamento; non capii che lo stomaco la stava rigettando.
***
Forse rigettava non cibo. Se l’egoismo avesse permesso di intuire, avrei pregato, nonostante già sapessi da mia madre che la fede va a braccetto con la disperazione e che il dolore non permette di abbandonarsi al nulla.
(…)
Antonio Melillo, nato ad Atripalda (AV) il 26/06/1976, residente ad Almese (TO), è nel comitato scientifico del sito di filosofia della letteratura philosophyofliterature.org Direttore delle collane Memoire e Cervo volante presso Liminamentis. Poesia: Durata del mezzogiorno (Carabba, 2011); Lento incendio (LietoColle, 2007). Traduzioni: Resta un’orma, un’ombra..., traduzione da Catullo (L’Arca felice, 2014); ha curato traduzioni poetiche per ClanDestino. Ha curato i volumi Memoire (Liminamentis, 2014), Mito nel Novecento letterario (Liminamentis, 2012).
la mia terra,
che fuor di sé mi serra,
vota d’amore
(D. Alighieri) Quando accade, accogliere la morte e il dolore significherebbe non inspirare gli afrori della decomposizione? Le parole dette prima sono un autoinganno, come legate a brandelli di speranza.
***
Torcere il naso dalla pelle e dai gesti salati non era carino, ma il lenimento delle carezze era uno sforzo sul cuoio ruvido del capo scosso da un lato. Il letto, non d’una sposa, sconsacrato dalla malattia, dal corpo umiliato; il marito gli porgeva gli occhi che ricordano e s’immaginano la solitudine: i figli avevano comunque ancora una vita intera.
Qualcosa che non potesse essere orribile in quel momento non vi era; lei continuava a guardare – ad accusarmi – mentre quella maschera che l’aiutava a respirare s’impregnava di rosso come lagrime, un rantolo interminato.
Tre anni prima mi confessò il malore, le dissi di non preoccuparsi: era lo scirocco che secca la vita dal di dentro; senza sapere cosa significasse. La mattina, eccitata, mi aveva chiesto più volte di andare con lei in campagna, ricordava soltanto com’era camminare in mezzo al grano, aveva lo sguardo scintillante, una bimba; la madre le era morta in novembre e sembrava volersi ingannare con una passeggiata, interrotta, sempre un novembre, con i campi venduti e la vita possibile solo nella città del nord.
Le dissi di no, volevo correre gli amici, non contemplare, del resto non avevo ancora nulla da ricordare. Quando ritornai all’imbrunire, era in casa, sfiancata su una sedia; insistetti, come lei al mattino, ma con gli occhi sfioriti, di dirmi cosa avesse, invece mi evitava; la cena mancava sul tavolo, solo a quel punto, quasi volesse chiedere scusa, mi disse che aveva avuto un mancamento; non capii che lo stomaco la stava rigettando.
***
Forse rigettava non cibo. Se l’egoismo avesse permesso di intuire, avrei pregato, nonostante già sapessi da mia madre che la fede va a braccetto con la disperazione e che il dolore non permette di abbandonarsi al nulla.
(…)
Giudizio
C’è purezza, c’è sangue, c’è infinito. La morte e l’inestricabile desiderio di eterno raccontati con la profondità dell’amore mutilato di un figlio. Un piacere lento, gravitazionale, rapace che cattura il cuore in un effluvio di dolore e auto-consapevolezza. Una meravigliosa catabasi da leggere e rileggere con spirito sempre diverso o immutabile. Un esempio di prosa commista a poesia di alto livello che scavalca l’agonia personale e intima. (Giorgio Massi)
Come la mia vita di Giovanni
Mangarelli (Trento)
Giovanni Mangarelli è nato a Napoli nel 1969, risiede a Trento, frazione Gardolo. Salernitano di adozione, impiegato pubblico, scrive racconti dall’adolescenza, alcuni pubblicati su riviste letterarie, altri con la casa editrice Ibiskos di Empoli.
Partire è stato un errore. La riunione è finita più tardi del previsto, ma non avevo nessuna voglia di fermarmi un’altra notte a Bologna. Mi sono messo in viaggio, ma mi son bastati pochi chilometri per capire che la stanchezza era più forte del desiderio di tornare a casa. Subito dopo aver superato gli Appennini, ho deciso che alla prima uscita, fosse stata anche quella per Frittole, avrei lasciato l’autostrada per andare alla ricerca di un albergo o un motel dove poter dormire.
Ho trovato solo una pensione invece, ma la piccola hall mi ha dato immediatamente un’idea di pulizia e la prima impressione ha sempre contato molto per me.
– Buonasera, è possibile avere una camera, solo per questa notte?
La giovane donna, dietro al bancone, mi risponde con gentilezza: - Certo! Ha qualche esigenza particolare?
– Che ci sia un materasso, tutto il resto stasera è superfluo!
– Allora non c’è alcun problema a soddisfarla -, ribatte sorridendo.
Ho un’illuminazione, il suo sorriso mi ricorda una persona, mi bastano pochi attimi per collegarla ad una vecchia compagna di scuola.
– Può darmi un documento, per cortesia?
Mentre glielo porgo, non riesco a trattenermi dal chiamarla per nome: – Con piacere, Lina!
Lei si blocca immediatamente, resta con la mia patente in mano e senza neanche pensare di aprirla per leggerne il nome, mi guarda, immagino, cercando di ricordarsi di me.
– Ci siamo già conosciuti?
– Più o meno quindici anni fa, ma devi immaginarmi senza occhiali, baffi e con qualche capello in più.
Lina socchiude gli occhi come se potesse in questo modo concentrarsi meglio, solo dopo qualche secondo si rende conto che ha una via più facile per risolvere il piccolo mistero. Apre la patente e non ha bisogno di leggere il nome, la foto sbiadita di un ragazzo appena maggiorenne le apre la mente: – Matteo? Oddio, sei proprio tu!
Lina perde immediatamente quell’aria professionale che ha tenuto fino ad ora, fa il giro del bancone e si avvicina con le braccia protese. Non mi lascio scappare quest’abbraccio inaspettato e spontaneo. (…)
Giudizi
Evito sempre di addentrarmi nel Passato, e se proprio devo/voglio farlo cerco di dotarmi di salvagenti liquidi potenti che mi stordiscano prima che il rito diventi una auto inflizione di dolore. I due punti, dunque, non sono tanto per lo stile (sobrio e rassicurante, come dovrebbe essere una chiacchierata tra due persone che non si parlano da un po’) quanto per il coraggio. (StefanoMartello)
Ivano Mugnaini si è laureato all'Università di Pisa. È autore di narrativa, poesia e saggistica. Scrive per alcune riviste, tra cui «Nuova Prosa», «Gradiva», «Il Grandevetro», «Samgha», «L’Immaginazione». Cura il blog letterario DEDALUS: corsi, testi e contesti di volo letterario. Ha curato la rubrica “Panorami congeniali” sul sito della Bompiani RCS. Suoi testi sono stati letti e commentati più volte in trasmissioni radiofoniche di Rai – Radiouno. Collabora, come autore e consulente, con alcune case editrici. Cura e dirige i “Quaderni Dedalus”, annuari di narrativa contemporanea. Ha pubblicato le raccolta di racconti LA CASA GIALLA e L'ALGEBRA DELLA VITA, i romanzi IL MIELE DEI SERVI e LIMBO MINORE. Tra i critici ed autori che si sono occupati della sua attività letteraria ricordiamo: Vincenzo Consolo, Gina Lagorio, Ferdinando Camon, Raffaele Nigro, Giorgio Saviane, Paolo Maurensig ed altri.
Qua sotto il buio è vivo: c'è aria, ci sono ombre, suoni, odori. Noi abbiamo una radio. Oggi ci siamo toccati le mani, la punta delle dita, bianca, calda. Ho sfiorato le dita forti di Assan e quelle sottili di Salim, ballando con loro nel buio, sognando ciascuno il suo sogno, ad occhi chiusi, anche se abbiamo ancora paura gli uni degli altri. Dopo qualche secondo, con un riso esploso come una bomba contro le pareti, ci siamo offesi in varie lingue e dialetti e ci siamo presi a pugni, con violenza, con amore. Ci siamo seduti a terra, distrutti, fumando le sigarette più sporche e più buone che si siano mai respirate in questo angolo di mondo.
Assan, con i capelli fradici e gli occhietti rossi come il fuoco, mi ha scrutato per un minuto intero, ghignando. Mi ha chiesto di raccontargli ancora una volta quella che lui chiama "la cazzata del secolo": la storia di come sono arrivato sotto il suolo di Milano e il motivo per cui non ho mai camminato nel sole, mai in vita mia.
Cerco una via di fuga, ruoto lo sguardo intorno, verso un bagliore, il sogno di un riflesso nuovo, qualcosa che ieri non c'era. Ma qui il buio è lento e cieco. La luce è solo negli occhi dei miei compagni, fissi su di me come coltelli puntati, forse per gioco, forse per uccidermi, o forse per tagliare a fette l'oscurità e trasformarla in pane di parole. Inizio a raccontare. Perché non ho scampo, perché qui dentro non c'è niente altro da fare, ora, in questa notte che si stringe forte al corpo della terra. Ad essere sincero mi piace dare fiato e voce alla mia storia: ogni volta aggiungo un particolare, vero o inventato, non lo so neppure io. I miei due ascoltatori non se ne accorgono, o fanno finta di niente: è il nostro gioco, nessuno ci controlla, la notte è sorda e la vita quaggiù non arriva, gira al largo, veloce, schifata. Mi piace raccontare ciò che mi è successo in questi anni: finisco quasi per crederci anch'io, e mi convinco a momenti di avere capito, finalmente, di avere visto con chiarezza tutte le scene, da ogni lato. Dura solo un secondo, un attimo dopo mi viene da ridere. Ma Assan e Salim non devono accorgersene. Questo, almeno, deve restare segreto, qualcosa di solo mio. Il racconto è sacro, è il solo tesoro che abbiamo quaggiù: nessun riso, nessun dubbio lo deve intaccare alle loro orecchie e alle loro menti. Dev'essere un sogno più vero del vero. Anche se, io lo so bene, è una verità che con il sogno ha poco a che fare. E' una realtà pazza e dura che mi ha trascinato a forza a giocare in questo sgabuzzino buio grande quanto il mondo. Mi ha chiuso qui, ha sghignazzato un po', poi se n'è andata e m ha dimenticato. O forse no, forse si ricorda di me e mi osserva ancora, nascosta da qualche parte: vuole vedere come mi comporto, come me la cavo. Magari è così, ed io non so se riuscirò ancora a lungo a sopportare il suo sguardo addosso, i suoi occhi di bambina viziata che scruta l'insetto che ha imprigionato sotto un bicchiere sudicio. Non so come mi comporterò domani. Per ora so solo che riesco ancora a sorridere, a guardare i miei compagni quasi con amore, e a parlare. (…)
Giudizio
Giovanni Mangarelli è nato a Napoli nel 1969, risiede a Trento, frazione Gardolo. Salernitano di adozione, impiegato pubblico, scrive racconti dall’adolescenza, alcuni pubblicati su riviste letterarie, altri con la casa editrice Ibiskos di Empoli.
Partire è stato un errore. La riunione è finita più tardi del previsto, ma non avevo nessuna voglia di fermarmi un’altra notte a Bologna. Mi sono messo in viaggio, ma mi son bastati pochi chilometri per capire che la stanchezza era più forte del desiderio di tornare a casa. Subito dopo aver superato gli Appennini, ho deciso che alla prima uscita, fosse stata anche quella per Frittole, avrei lasciato l’autostrada per andare alla ricerca di un albergo o un motel dove poter dormire.
Ho trovato solo una pensione invece, ma la piccola hall mi ha dato immediatamente un’idea di pulizia e la prima impressione ha sempre contato molto per me.
– Buonasera, è possibile avere una camera, solo per questa notte?
La giovane donna, dietro al bancone, mi risponde con gentilezza: - Certo! Ha qualche esigenza particolare?
– Che ci sia un materasso, tutto il resto stasera è superfluo!
– Allora non c’è alcun problema a soddisfarla -, ribatte sorridendo.
Ho un’illuminazione, il suo sorriso mi ricorda una persona, mi bastano pochi attimi per collegarla ad una vecchia compagna di scuola.
– Può darmi un documento, per cortesia?
Mentre glielo porgo, non riesco a trattenermi dal chiamarla per nome: – Con piacere, Lina!
Lei si blocca immediatamente, resta con la mia patente in mano e senza neanche pensare di aprirla per leggerne il nome, mi guarda, immagino, cercando di ricordarsi di me.
– Ci siamo già conosciuti?
– Più o meno quindici anni fa, ma devi immaginarmi senza occhiali, baffi e con qualche capello in più.
Lina socchiude gli occhi come se potesse in questo modo concentrarsi meglio, solo dopo qualche secondo si rende conto che ha una via più facile per risolvere il piccolo mistero. Apre la patente e non ha bisogno di leggere il nome, la foto sbiadita di un ragazzo appena maggiorenne le apre la mente: – Matteo? Oddio, sei proprio tu!
Lina perde immediatamente quell’aria professionale che ha tenuto fino ad ora, fa il giro del bancone e si avvicina con le braccia protese. Non mi lascio scappare quest’abbraccio inaspettato e spontaneo. (…)
Giudizi
Evito sempre di addentrarmi nel Passato, e se proprio devo/voglio farlo cerco di dotarmi di salvagenti liquidi potenti che mi stordiscano prima che il rito diventi una auto inflizione di dolore. I due punti, dunque, non sono tanto per lo stile (sobrio e rassicurante, come dovrebbe essere una chiacchierata tra due persone che non si parlano da un po’) quanto per il coraggio. (StefanoMartello)
Un racconto che intreccia presente e passato e ci
mostra che a volte le scelte più importanti prescindono dalla nostra volontà e
che la vita è un miscuglio strano di fattori imprevedibili. (Silvia Sanchini)
Il treno da Versailles di Oreste Bonvicini (Casal Cermelli, AL)
Oreste Bonvicini è nato ad Alessandria nel 1958. Risiede a Casal Cermelli (AL). Dice di sé: “Ho sempre volto barra alla scrittura, ma il tempo, durante la navigazione, ha visto errori di rotta, con il vento o la burrasca rimandarmi al largo o verso sconosciuti lidi. Ora, benché s’alternino lunghi periodi di bonaccia con l’illusione che patria sia l’ovunque, scorgo il tramonto che s’allunga mentre Itaca non è più la meta…”
Radici
Benché le avessimo definiti radici quasi per divertimento, tutte le foto di famiglia erano conservati nel cassetto della sala, sotto le tovaglie che venivano spiegate solo nei giorni importanti, fosse una festa o una commemorazione.
Quella sequenza di immagini che ad occhi profani non avrebbe avuto significato alcuno, a noi apparivano come la cronologia perfetta benché un po’ sbiadita del passato, invecchiata con noi e per noi. Foto di bambini, di adolescenti, di giovani ormai anziani, di morti da anni di cui pochi ricordi riaffioravano o solo particolari che ci consentivano di rinnovare il luogo e la stagione in cui le fotografie erano state scattate. Erano l’archivio della memoria, ma rappresentava altresì la prova concreta delle nostre radici. E mai termine ci parve tanto adeguato quando lo imponemmo in prima pagina, tra le foto più vecchie e ormai stinte, dove volti da un irrecuperabile passato ci osservavano confusi ma anche orgogliosi.
I contorni delle foto in bianco e nero erano frastagliati, un decoro che sembrava valicare, con la qualità della carta ed il contrasto dell’immagine, il tempo concesso al ricordo e faceva mostra di sé con il bollo in rilevo del nome del fotografo.
Le radici passarono di casa in casa per salvaguardarne la nostalgia che infondevano ad ogni sguardo. Erano le domeniche d’autunno i giorni deputati al riordino, al “ripasso della storia”, appuntando nel contempo, nelle ultime pagine, poche nuove fotografie degne di memoria dell’ estate appena trascorsa. Una parola, un sorriso, destavano qualche interrogativo e spesso, per un rito che si ripeteva, le domande si riproponevano ogni anno, quasi fosse necessario ascoltare, dalla voce, quanto le immagini non potevano più raccontare.
Erano i particolari non colti dall’obbiettivo, era la presenza di qualcuno a pochi passi non rientrato nell’inquadratura, era la storia di un ritorno dopo un lungo viaggio, avendo in quelle foto profuso tutte le emozioni, tutto il racconto. Le stesse domande, rivolte da bambini, poi dai figli, ora dai nipoti, erano i nomi che non solo volevamo rammentare, ma ascoltare dalle labbra di chi, prima di noi, li aveva conosciuti, quando il tempo era ormai trascorso, per sentirli una volta ancora tra noi vivi.
(…)
Giudizio
Il treno da Versailles di Oreste Bonvicini (Casal Cermelli, AL)
Oreste Bonvicini è nato ad Alessandria nel 1958. Risiede a Casal Cermelli (AL). Dice di sé: “Ho sempre volto barra alla scrittura, ma il tempo, durante la navigazione, ha visto errori di rotta, con il vento o la burrasca rimandarmi al largo o verso sconosciuti lidi. Ora, benché s’alternino lunghi periodi di bonaccia con l’illusione che patria sia l’ovunque, scorgo il tramonto che s’allunga mentre Itaca non è più la meta…”
Radici
Benché le avessimo definiti radici quasi per divertimento, tutte le foto di famiglia erano conservati nel cassetto della sala, sotto le tovaglie che venivano spiegate solo nei giorni importanti, fosse una festa o una commemorazione.
Quella sequenza di immagini che ad occhi profani non avrebbe avuto significato alcuno, a noi apparivano come la cronologia perfetta benché un po’ sbiadita del passato, invecchiata con noi e per noi. Foto di bambini, di adolescenti, di giovani ormai anziani, di morti da anni di cui pochi ricordi riaffioravano o solo particolari che ci consentivano di rinnovare il luogo e la stagione in cui le fotografie erano state scattate. Erano l’archivio della memoria, ma rappresentava altresì la prova concreta delle nostre radici. E mai termine ci parve tanto adeguato quando lo imponemmo in prima pagina, tra le foto più vecchie e ormai stinte, dove volti da un irrecuperabile passato ci osservavano confusi ma anche orgogliosi.
I contorni delle foto in bianco e nero erano frastagliati, un decoro che sembrava valicare, con la qualità della carta ed il contrasto dell’immagine, il tempo concesso al ricordo e faceva mostra di sé con il bollo in rilevo del nome del fotografo.
Le radici passarono di casa in casa per salvaguardarne la nostalgia che infondevano ad ogni sguardo. Erano le domeniche d’autunno i giorni deputati al riordino, al “ripasso della storia”, appuntando nel contempo, nelle ultime pagine, poche nuove fotografie degne di memoria dell’ estate appena trascorsa. Una parola, un sorriso, destavano qualche interrogativo e spesso, per un rito che si ripeteva, le domande si riproponevano ogni anno, quasi fosse necessario ascoltare, dalla voce, quanto le immagini non potevano più raccontare.
Erano i particolari non colti dall’obbiettivo, era la presenza di qualcuno a pochi passi non rientrato nell’inquadratura, era la storia di un ritorno dopo un lungo viaggio, avendo in quelle foto profuso tutte le emozioni, tutto il racconto. Le stesse domande, rivolte da bambini, poi dai figli, ora dai nipoti, erano i nomi che non solo volevamo rammentare, ma ascoltare dalle labbra di chi, prima di noi, li aveva conosciuti, quando il tempo era ormai trascorso, per sentirli una volta ancora tra noi vivi.
(…)
Giudizio
La metafora del viaggio e il ricordo ci guidano in questo tenero racconto ricco di spunti per riflettere sul senso del tempo e gli affetti famigliari. (Ardea Montebelli)
Furto con pianto di Paolo Calabrò (Caserta) lunedì, tarda mattinata
Paolo Calabrò è laureato in Scienze dell'informazione (Salerno) e in Filosofia (Napoli). Dal 2009 gestisce il sito ufficiale in italiano del filosofo francese Maurice Bellet. Redattore del settimanale «Il Caffè» di Caserta e del mensile «l’Altrapagina» di Città di Castello (PG), collabora con il bimestrale «Testimonianze» e con i mensili «Lo Straniero» e «Sapere» e con le riviste online «Filosofia e nuovi sentieri» e «Pagina3». Ha pubblicato Le cose si toccano. Raimon Panikkar e le scienze moderne (Diabasis, 2011) e diversi articoli sulla filosofia di Panikkar e Bellet, l'ultimo dei quali è “Il pensiero è impuro. L’epistemologia relazionale di Raimon Panikkar oltre il 'nuovo realismo'” («Filosofia e nuovi sentieri», dicembre 2013).
Da quando mio padre ha risolto il “caso” della rettoria di San Leopoldo, sono diventato una piccola celebrità a Puntammare. È successo solo due settimane fa, ma ogni giorno quando vado a scuola vedo qualcuno guardare nella mia direzione e poi mettersi a sussurrare qualcosa al vicino, con la mano davanti alla bocca. È vero che è facile diventare famosi qui: non succede mai niente neanche a Caserta, figuriamoci in un paesino come questo, sulla costa, schiacciato fra Mondragone e Sessa Aurunca. Ed è vero pure che quasi sicuramente fra due settimane già si sarà smesso di parlarne. Comunque sia, da quando il tg locale ha dato quella notizia, facendo il nome di Nico Baselice, tutti parlano di me come del figlio del comandante della polizia municipale (e il fatto che poi mio padre sia l’unico vigile urbano del comune, perde ogni importanza).
Quello che mi sembra strano, invece, è che Delicata (la figlia di Antonio Bartiromo, il postino che ha collaborato con papà), che sa bene com’è andata, possa credere non solo che mio padre sia un grande investigatore, ma perfino che anch’io ne abbia le doti.
«Devi aiutarmi a risolvere il problema di Sisina» mi dice. Alla sua compagna di classe hanno rubato un anello prezioso, due settimane fa. Proprio all’inizio dell’anno scolastico. È successo durante l’ora di educazione fisica, mentre tutti erano in palestra. Lei dice di averlo lasciato nello zainetto per evitare che si sfilasse con il movimento, e accusa Miki, un loro compagno.
«Miki ha avuto l’occasione, e anche il movente» mi dice.
“Se hai questa dimestichezza con i delitti e i moventi, perché non te lo risolvi da sola il problema?”. È la prima cosa che mi viene in mente, e mi sembra così azzeccata che a momenti gliela dico davvero. Per fortuna riesco a trattenermi.
«A scuola danno tutti la colpa a lui» aggiunge.
«Lo so. Non si parla d’altro».
Il mio commento la induce a pensare che è giunto il momento di fornire quello che probabilmente reputa un dettaglio-chiave:
«Anche Serena lo ha lasciato».
Serena, una ragazza ricca di quelle che quando vanno da qualche parte l’aroma dei loro soldi le precede e le annuncia. Per le sue compagne di scuola funziona un po’ come la carta moschicida, però al contrario; mentre quella non le attrae ma finisce con l’intrappolarle, lei invece le attrae: ognuna vorrebbe essere sua amica, ma lei le respinge tutte. O quasi. (…)
Giudizio
Un ragazzino si improvvisa detective… per amore. Tenero e divertente, originale e non superficiale, nella sua semplicità. (Gloria Visani)
Il paradiso sulla terra di Ivano Mugnaini (Massarosa, LU)Furto con pianto di Paolo Calabrò (Caserta) lunedì, tarda mattinata
Paolo Calabrò è laureato in Scienze dell'informazione (Salerno) e in Filosofia (Napoli). Dal 2009 gestisce il sito ufficiale in italiano del filosofo francese Maurice Bellet. Redattore del settimanale «Il Caffè» di Caserta e del mensile «l’Altrapagina» di Città di Castello (PG), collabora con il bimestrale «Testimonianze» e con i mensili «Lo Straniero» e «Sapere» e con le riviste online «Filosofia e nuovi sentieri» e «Pagina3». Ha pubblicato Le cose si toccano. Raimon Panikkar e le scienze moderne (Diabasis, 2011) e diversi articoli sulla filosofia di Panikkar e Bellet, l'ultimo dei quali è “Il pensiero è impuro. L’epistemologia relazionale di Raimon Panikkar oltre il 'nuovo realismo'” («Filosofia e nuovi sentieri», dicembre 2013).
Da quando mio padre ha risolto il “caso” della rettoria di San Leopoldo, sono diventato una piccola celebrità a Puntammare. È successo solo due settimane fa, ma ogni giorno quando vado a scuola vedo qualcuno guardare nella mia direzione e poi mettersi a sussurrare qualcosa al vicino, con la mano davanti alla bocca. È vero che è facile diventare famosi qui: non succede mai niente neanche a Caserta, figuriamoci in un paesino come questo, sulla costa, schiacciato fra Mondragone e Sessa Aurunca. Ed è vero pure che quasi sicuramente fra due settimane già si sarà smesso di parlarne. Comunque sia, da quando il tg locale ha dato quella notizia, facendo il nome di Nico Baselice, tutti parlano di me come del figlio del comandante della polizia municipale (e il fatto che poi mio padre sia l’unico vigile urbano del comune, perde ogni importanza).
Quello che mi sembra strano, invece, è che Delicata (la figlia di Antonio Bartiromo, il postino che ha collaborato con papà), che sa bene com’è andata, possa credere non solo che mio padre sia un grande investigatore, ma perfino che anch’io ne abbia le doti.
«Devi aiutarmi a risolvere il problema di Sisina» mi dice. Alla sua compagna di classe hanno rubato un anello prezioso, due settimane fa. Proprio all’inizio dell’anno scolastico. È successo durante l’ora di educazione fisica, mentre tutti erano in palestra. Lei dice di averlo lasciato nello zainetto per evitare che si sfilasse con il movimento, e accusa Miki, un loro compagno.
«Miki ha avuto l’occasione, e anche il movente» mi dice.
“Se hai questa dimestichezza con i delitti e i moventi, perché non te lo risolvi da sola il problema?”. È la prima cosa che mi viene in mente, e mi sembra così azzeccata che a momenti gliela dico davvero. Per fortuna riesco a trattenermi.
«A scuola danno tutti la colpa a lui» aggiunge.
«Lo so. Non si parla d’altro».
Il mio commento la induce a pensare che è giunto il momento di fornire quello che probabilmente reputa un dettaglio-chiave:
«Anche Serena lo ha lasciato».
Serena, una ragazza ricca di quelle che quando vanno da qualche parte l’aroma dei loro soldi le precede e le annuncia. Per le sue compagne di scuola funziona un po’ come la carta moschicida, però al contrario; mentre quella non le attrae ma finisce con l’intrappolarle, lei invece le attrae: ognuna vorrebbe essere sua amica, ma lei le respinge tutte. O quasi. (…)
Giudizio
Un ragazzino si improvvisa detective… per amore. Tenero e divertente, originale e non superficiale, nella sua semplicità. (Gloria Visani)
Ivano Mugnaini si è laureato all'Università di Pisa. È autore di narrativa, poesia e saggistica. Scrive per alcune riviste, tra cui «Nuova Prosa», «Gradiva», «Il Grandevetro», «Samgha», «L’Immaginazione». Cura il blog letterario DEDALUS: corsi, testi e contesti di volo letterario. Ha curato la rubrica “Panorami congeniali” sul sito della Bompiani RCS. Suoi testi sono stati letti e commentati più volte in trasmissioni radiofoniche di Rai – Radiouno. Collabora, come autore e consulente, con alcune case editrici. Cura e dirige i “Quaderni Dedalus”, annuari di narrativa contemporanea. Ha pubblicato le raccolta di racconti LA CASA GIALLA e L'ALGEBRA DELLA VITA, i romanzi IL MIELE DEI SERVI e LIMBO MINORE. Tra i critici ed autori che si sono occupati della sua attività letteraria ricordiamo: Vincenzo Consolo, Gina Lagorio, Ferdinando Camon, Raffaele Nigro, Giorgio Saviane, Paolo Maurensig ed altri.
Qua sotto il buio è vivo: c'è aria, ci sono ombre, suoni, odori. Noi abbiamo una radio. Oggi ci siamo toccati le mani, la punta delle dita, bianca, calda. Ho sfiorato le dita forti di Assan e quelle sottili di Salim, ballando con loro nel buio, sognando ciascuno il suo sogno, ad occhi chiusi, anche se abbiamo ancora paura gli uni degli altri. Dopo qualche secondo, con un riso esploso come una bomba contro le pareti, ci siamo offesi in varie lingue e dialetti e ci siamo presi a pugni, con violenza, con amore. Ci siamo seduti a terra, distrutti, fumando le sigarette più sporche e più buone che si siano mai respirate in questo angolo di mondo.
Assan, con i capelli fradici e gli occhietti rossi come il fuoco, mi ha scrutato per un minuto intero, ghignando. Mi ha chiesto di raccontargli ancora una volta quella che lui chiama "la cazzata del secolo": la storia di come sono arrivato sotto il suolo di Milano e il motivo per cui non ho mai camminato nel sole, mai in vita mia.
Cerco una via di fuga, ruoto lo sguardo intorno, verso un bagliore, il sogno di un riflesso nuovo, qualcosa che ieri non c'era. Ma qui il buio è lento e cieco. La luce è solo negli occhi dei miei compagni, fissi su di me come coltelli puntati, forse per gioco, forse per uccidermi, o forse per tagliare a fette l'oscurità e trasformarla in pane di parole. Inizio a raccontare. Perché non ho scampo, perché qui dentro non c'è niente altro da fare, ora, in questa notte che si stringe forte al corpo della terra. Ad essere sincero mi piace dare fiato e voce alla mia storia: ogni volta aggiungo un particolare, vero o inventato, non lo so neppure io. I miei due ascoltatori non se ne accorgono, o fanno finta di niente: è il nostro gioco, nessuno ci controlla, la notte è sorda e la vita quaggiù non arriva, gira al largo, veloce, schifata. Mi piace raccontare ciò che mi è successo in questi anni: finisco quasi per crederci anch'io, e mi convinco a momenti di avere capito, finalmente, di avere visto con chiarezza tutte le scene, da ogni lato. Dura solo un secondo, un attimo dopo mi viene da ridere. Ma Assan e Salim non devono accorgersene. Questo, almeno, deve restare segreto, qualcosa di solo mio. Il racconto è sacro, è il solo tesoro che abbiamo quaggiù: nessun riso, nessun dubbio lo deve intaccare alle loro orecchie e alle loro menti. Dev'essere un sogno più vero del vero. Anche se, io lo so bene, è una verità che con il sogno ha poco a che fare. E' una realtà pazza e dura che mi ha trascinato a forza a giocare in questo sgabuzzino buio grande quanto il mondo. Mi ha chiuso qui, ha sghignazzato un po', poi se n'è andata e m ha dimenticato. O forse no, forse si ricorda di me e mi osserva ancora, nascosta da qualche parte: vuole vedere come mi comporto, come me la cavo. Magari è così, ed io non so se riuscirò ancora a lungo a sopportare il suo sguardo addosso, i suoi occhi di bambina viziata che scruta l'insetto che ha imprigionato sotto un bicchiere sudicio. Non so come mi comporterò domani. Per ora so solo che riesco ancora a sorridere, a guardare i miei compagni quasi con amore, e a parlare. (…)
Giudizio
Vita di strada vissuta con chimica lucidità. Luoghi estatici della memoria che sembrano virare al presente con la furia del bello. L’ansia che tempesta l’ordinario, che profonde di fluida emotività e coriaceo orgoglio esistenziale. (Giorgio Massi)
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