lunedì 19 maggio 2014

STANZE

Un romanzo “psico-architettonico-sexy-tragicomico”



Liberamente scaricabile in PDF (www.grazzaniseonline.eu/IMG/pdf/Stanze.pdf) e in formato sfogliabile ISSUU (http://issuu.com/grazzaniseonline.eu/docs/Stanze)

Anche Stanze, in virtù di una consuetudine recentemente adottata da Giambattista Bergamaschi, reca un utile sottotitolo: “Romanzo psico-architettonico-sexy-tragicomico”.
Intende esplicitamente significare che la storia alla cui degustazione il lettore è in procinto di accingersi gli proporrà quanto meno un variegato menu di suggestioni, stimoli ed emozioni tra il serio e il faceto, come a dire che se quella è la vita, in ben più d'un caso proprio non sapremmo se piangerne o riderne, ovvero se scrupolosamente disporci a ricercare le profonde motivazioni razionali dei nostri atti o se questi ultimi non vadano piuttosto letti quali mere, automatiche, sovente “ridicole” reazioni alle più ferine pulsioni affioranti dall'inconscio.
Così, una certa resistenza ad affrontare quel finale in cui qualcosa deluderà tutta una serie di aspettative, determinando, proprio grazie all'individuale esperienza del Male, un significativo cambiamento, forse spiega l'originale Prefazione in itinere... in cui l'autore, francamente dichiarando la propria impasse nel momento stesso in cui la esperisce, rende il lettore confidenzialmente partecipe del travaglio che un certo tipo di “scrittura” gli comporta:

[...] giunto all'interpretazione del secondo sogno, avendo già steso - con piglio quasi definitivo - l'epilogo stesso del racconto, mi ritrovo arenato in mare. [...] pur sapendo prossimo l'approdo, ad una manciata di bracciate dal punto in cui boccheggio, non mi riesce di affrontare l'ultima fatica: colmare quell'insignificante vuoto che non attende se non una decina di paginette in linea con una tensione che deve crescere senza tuttavia rivelare la propria ragione, diligentemente evitando di prefigurare quanto alla fine accadrà. Non il puro e semplice evento drammatico, sicuramente scenografico, bensì quell'inedito ordine d'esistenza che il protagonista, quantunque non per merito proprio, alfine scoprirà o, meglio, dovrà giocoforza accogliere. Magari, anche di buon grado...
Dunque, nel momento stesso in cui candidamente dichiaro la suddetta impasse mi chiedo se il presente racconto vedrà mai una fine o resterà invece nel cassetto, al modo di un piacere mai concluso, d'un “sogno ad occhi aperti” che in via eccezionale rinunci a far quadrare il mondo...

Non soverchio il numero dei personaggi: tre, forse quattro, salvo quelli citati in corrispondenza di determinati riferimenti intertestuali (in uno dei quali l'autore chiama in causa addirittura se stesso, quale narratore “emergente” in grado di attivare un intero sistema di neuroni specchio), perché uno degli aspetti che secondo Bergamaschi non può né deve assolutamente mancare in una buona storia è la “riduzione narrativa” (meglio: “metanarrazione”) di ideologie, saperi logici e soprattutto “poetiche”:

Si sogna o si scrive per un'esigenza di compensazione.
Tanto nelle sceneggiature oniriche quanto nelle buone storie ogni incongruenza finisce per “quadrare”... e in tal modo ritrovare la stessa verità che fu nei mitologici “errori” degli antichi, la medesima di cui si alimentano le sante, sincere bugie dei bimbi o il vago, favoloso, smemorato rammemorare degli anziani.
Scrivere o narrare non sono che modalità alternative - forse complementari - del sognare ad occhi aperti, con quanto ne segue: illuminata condizione dello spirito, in “stato di narrazione”, notturna in pieno giorno. Da lì soltanto può sgorgare qualcosa di “vero”, frutto spontaneo di un atto d'amore (lo stesso che consentì a Sharāzād, di “salvare” non soltanto se stessa, ma anche e soprattutto il principe Shāhrīyār, che perdutamente amava) di cui il lettore possa ciecamente fidarsi, cui abbandonarsi senza più timori, qualcosa di terribilmente divergente nei riguardi di una realtà incapace di soddisfare le nostre più segrete istanze: scrittura che abnega se stessa, temporaneamente assente dalla vita [...], che è eversione ricostruttiva di un'identità sofferente, contenuto essenziale di quel rapporto a dir poco intimo che è complice ascolto di una pratica “immersa” - onirica e innamorata - cui sia lecito riconoscere la natura di un atto gratuito, sublime e "perverso", concretamente trasformativo.
La narrazione “efficace” in alcun modo si pone il problema di puramente riferire una presunta verità del fatto concreto, ammesso che una tale chimera possa aver consistenza e qualcuno la conosca mai.
Soprattutto, non risulterebbe di alcun inter-esse per alcuno, non ci riguarderebbe minimamente, né toccherebbe nel profondo, non avrebbe quel potere di tenerci avvinti che soltanto un narcisistico spiare i nostri stessi sogni, benché narrati da un altro, può realmente scatenare.
Lo specifico della narrazione è muovere da un “dato di realtà così come lo scrittore lo sente”, per integrarlo e calarlo in un contesto nuovo (quasi mai “dimostrabile” al banale riscontro della quotidiana esperienza - tanto spesso muta e priva di ogni superiore luce -, eppur quanto mai “vero” per lui), insomma, per conferirgli un senso speciale attraverso l'immaginazione.
Proprio in tale capacità risiede, tutta intera, la magia del sognare ad occhi aperti. E così, come la poesia, anche l'autentica narrazione è destinata a rivelarsi più vera del vero, alimentandosi di qualcosa che lo è di fatto, intimamente, per l'autore: l'inestinguibile predisposizione a coltivare sogni.
Potrebbe cimentarvisi chiunque: lo scrittore ne rimarrebbe comunque l'esclusivo “sacerdote”.
Reduci dall'inebriante volo, torniamo a planare in seno alla realtà, corroborati da quello stesso sognare ad occhi aperti, che - allora sì! - potrà finalmente esser detto, scritto, narrato, perché davvero cambi il mondo, lo renda migliore, risolva in modo inedito - ed efficace - nostalgie, tensioni e paure.
Scrivere non è dunque che la necessaria estensione di quel sognare di cui tutti abbiam bisogno per non impazzire, una condizione prossima alla follia che dalla follia ci salva...

Quattro “visitazioni” pervase di malinconica e quasi rinascimentale amarezza, nonché di quel certo carattere mistico-ermetico che sembra conferir loro tutta l'aria di probabili teofanie del “divino”, scatenano il racconto nel momento stesso in cui il protagonista, sedicente sodale dell'occulto universo dell'Es, ne azzarda personali letture narrativamente finalizzate, anche sulla scorta di quanto è dato leggere nel fortunato volumetto in cui Sigmund Freud mostra come nei sogni le stanze significhino normalmente la donna, con le di­verse entrate e uscite che la contraddistinguono, e le scale eloquenti rappresentazioni simboliche dell'atto ses­suale.
Da lì, il piano dell'invenzione e quello della concreta realtà prendono ad intrecciarsi, quasi a sovrapporsi, fino a che la seconda non si porta del tutto via lo spazio discretamente, romanticamente occupato dalla prima, come a memento che le due dimensioni non possono convivere senza alcun rischio oltre un certo limite: una scelta va necessariamente operata, pena un'esistenza schizoide illusa della propria integrità.
In tale non problematico, “dolce” modo il protagonista del racconto “sogna” di vivere, fino a che un evento di rude evidenza realistica non gli impone una drastica riconsiderazione, stavolta nient'affatto mediata da categorie concettuali, della propria esistenza. Perché è in quella maniera che “a questo mondo” vanno le cose, ed occorre giocoforza prenderne atto.
Ne consegue un finale discretamente aperto e interattivo, se al lettore spetta - pare lecito supporlo - di decidere come e quando la “salute mentale” trapassi nella “follia” e in che misura quest'ultima possa davvero considerarsi tale, anziché una sorta di provvidenziale “varco” verso un differente piano di realtà, legittimo almeno quanto il precedente: “follia” terapeutica, cronica, senza una definitiva guarigione, che ne scongiura un'altra, autentica.
Felice nella misura in cui può esserlo un uomo, lo scrittore potrà finalmente concretizzarvi una ben strana aspirazione, quella espressa un dì a conclusione di un'intervista. Gli chiesero: “Progetti futuri?”. In tutta franchezza, egli rispose: “Smettere di scrivere, una buona volta, sul serio e per sempre…”.


M. G. 

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