STANZE
Un
romanzo “psico-architettonico-sexy-tragicomico”
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Anche
Stanze,
in virtù di una consuetudine recentemente adottata da Giambattista
Bergamaschi, reca un utile sottotitolo: “Romanzo
psico-architettonico-sexy-tragicomico”.
Intende
esplicitamente significare che la storia alla cui degustazione il
lettore è in procinto di accingersi gli proporrà quanto meno un
variegato menu di suggestioni, stimoli ed emozioni tra il serio e il
faceto, come a dire che se quella è la vita, in ben più d'un caso
proprio non sapremmo se piangerne o riderne, ovvero se
scrupolosamente disporci a ricercare le profonde motivazioni
razionali dei nostri atti o se questi ultimi non vadano piuttosto
letti quali mere, automatiche, sovente “ridicole” reazioni alle
più ferine pulsioni affioranti dall'inconscio.
Così,
una certa resistenza ad affrontare quel finale in cui qualcosa
deluderà tutta una serie di aspettative, determinando, proprio
grazie all'individuale esperienza del Male, un significativo
cambiamento, forse spiega l'originale Prefazione
in itinere...
in cui l'autore, francamente dichiarando la propria impasse nel
momento stesso in cui la esperisce, rende il lettore
confidenzialmente partecipe del travaglio che un certo tipo di
“scrittura” gli comporta:
[...]
giunto all'interpretazione
del secondo sogno, avendo già steso - con piglio quasi definitivo -
l'epilogo stesso del racconto, mi ritrovo arenato in mare. [...] pur
sapendo prossimo l'approdo, ad una manciata di bracciate dal punto in
cui boccheggio, non mi riesce di affrontare l'ultima fatica: colmare
quell'insignificante vuoto che non attende se non una decina di
paginette in linea con una tensione che deve crescere senza tuttavia
rivelare la propria ragione, diligentemente evitando di prefigurare
quanto alla fine accadrà. Non il puro e semplice evento drammatico,
sicuramente scenografico, bensì quell'inedito ordine d'esistenza che
il protagonista, quantunque non per merito proprio, alfine scoprirà
o, meglio, dovrà giocoforza accogliere. Magari, anche di buon
grado...
Dunque,
nel momento stesso in cui candidamente dichiaro la suddetta impasse
mi chiedo se il presente racconto vedrà mai una fine o resterà
invece nel cassetto, al modo di un piacere mai concluso, d'un “sogno
ad occhi aperti” che in via eccezionale rinunci a far quadrare il
mondo...
Non
soverchio il numero dei personaggi: tre, forse quattro, salvo quelli
citati in corrispondenza di determinati riferimenti intertestuali (in
uno dei quali l'autore chiama in causa addirittura se stesso, quale
narratore “emergente” in grado di attivare un intero sistema di
neuroni specchio), perché uno degli aspetti che secondo Bergamaschi
non può né deve assolutamente mancare in una buona storia è la
“riduzione narrativa” (meglio: “metanarrazione”) di
ideologie, saperi logici e soprattutto “poetiche”:
Si
sogna o si scrive per un'esigenza di compensazione.
Tanto
nelle sceneggiature oniriche quanto nelle buone storie ogni
incongruenza finisce per “quadrare”... e in tal modo ritrovare la
stessa verità che fu nei mitologici “errori” degli antichi, la
medesima di cui si alimentano le sante, sincere bugie dei bimbi o il
vago, favoloso, smemorato rammemorare degli anziani.
Scrivere
o narrare non sono che modalità alternative - forse complementari -
del sognare ad occhi aperti, con quanto ne segue: illuminata
condizione dello spirito, in “stato di narrazione”, notturna in
pieno giorno. Da lì soltanto può sgorgare qualcosa di “vero”,
frutto spontaneo di un atto d'amore (lo stesso che consentì a
Sharāzād,
di “salvare” non soltanto se stessa, ma anche e soprattutto il
principe Shāhrīyār,
che perdutamente amava) di
cui il lettore possa ciecamente fidarsi, cui abbandonarsi senza più
timori, qualcosa di terribilmente divergente nei riguardi di una
realtà incapace di soddisfare le nostre più segrete istanze:
scrittura che abnega
se stessa, temporaneamente assente dalla vita [...], che è eversione
ricostruttiva di un'identità sofferente, contenuto essenziale di
quel rapporto a dir poco intimo che è complice ascolto di una
pratica “immersa” - onirica e innamorata - cui sia lecito
riconoscere la natura di un atto gratuito, sublime e "perverso",
concretamente trasformativo.
La
narrazione “efficace” in alcun modo si pone il problema di
puramente riferire una presunta verità del fatto concreto, ammesso
che una tale chimera possa aver consistenza e qualcuno la conosca
mai.
Soprattutto,
non risulterebbe di alcun inter-esse per alcuno, non ci riguarderebbe
minimamente, né toccherebbe nel profondo, non avrebbe quel potere di
tenerci avvinti che soltanto un narcisistico spiare i nostri stessi
sogni, benché narrati da un altro, può realmente scatenare.
Lo
specifico della narrazione è muovere da un “dato di realtà così
come lo scrittore lo sente”, per integrarlo e calarlo in un
contesto nuovo (quasi mai “dimostrabile” al banale riscontro
della quotidiana esperienza - tanto spesso muta e priva di ogni
superiore luce -, eppur quanto mai “vero” per lui), insomma, per
conferirgli un senso speciale attraverso l'immaginazione.
Proprio
in tale capacità risiede, tutta intera, la magia del sognare ad
occhi aperti. E così, come la poesia, anche l'autentica narrazione è
destinata a rivelarsi più vera del vero, alimentandosi di qualcosa
che lo è di fatto, intimamente, per l'autore: l'inestinguibile
predisposizione a coltivare sogni.
Potrebbe
cimentarvisi chiunque: lo scrittore ne rimarrebbe comunque
l'esclusivo “sacerdote”.
Reduci
dall'inebriante volo, torniamo a planare in seno alla realtà,
corroborati da quello stesso sognare ad occhi aperti, che - allora
sì! - potrà finalmente esser detto, scritto, narrato, perché
davvero cambi il mondo, lo renda migliore, risolva in modo inedito -
ed efficace - nostalgie, tensioni e paure.
Scrivere
non è dunque che la necessaria estensione di quel sognare di cui
tutti abbiam bisogno per non impazzire, una condizione prossima alla
follia che dalla follia ci salva...
Quattro
“visitazioni” pervase di malinconica e quasi rinascimentale
amarezza, nonché di quel certo carattere mistico-ermetico che sembra
conferir loro tutta l'aria di probabili teofanie del “divino”,
scatenano il racconto nel momento stesso in cui il protagonista,
sedicente sodale dell'occulto universo dell'Es, ne azzarda personali
letture narrativamente finalizzate, anche sulla scorta di quanto è
dato leggere nel fortunato volumetto
in
cui Sigmund Freud mostra come nei
sogni le stanze
significhino normalmente la donna, con le diverse entrate e
uscite che la contraddistinguono, e le scale
eloquenti rappresentazioni simboliche dell'atto sessuale.
Da
lì, il piano dell'invenzione
e quello della concreta
realtà
prendono ad intrecciarsi, quasi a sovrapporsi, fino a che la seconda
non si porta del tutto via lo spazio discretamente, romanticamente
occupato dalla prima, come a memento che le due dimensioni non
possono convivere senza alcun rischio oltre un certo limite: una
scelta va necessariamente operata, pena un'esistenza schizoide illusa
della propria integrità.
In
tale non problematico, “dolce” modo il protagonista del racconto
“sogna” di vivere, fino a che un evento di rude evidenza
realistica non gli impone una drastica riconsiderazione, stavolta
nient'affatto mediata da categorie concettuali, della propria
esistenza. Perché è in quella maniera che “a questo mondo”
vanno le cose, ed occorre giocoforza prenderne atto.
Ne
consegue un finale discretamente aperto e interattivo, se al lettore
spetta - pare lecito supporlo - di decidere come e quando la “salute
mentale” trapassi nella “follia” e in che misura
quest'ultima possa davvero considerarsi tale, anziché una sorta di
provvidenziale “varco” verso un differente piano di realtà,
legittimo almeno quanto il precedente: “follia” terapeutica,
cronica, senza una definitiva guarigione, che ne scongiura un'altra,
autentica.
Felice
nella misura in cui può esserlo un uomo, lo scrittore potrà
finalmente concretizzarvi una ben strana aspirazione, quella espressa
un dì a conclusione di un'intervista. Gli chiesero: “Progetti
futuri?”. In tutta franchezza, egli rispose: “Smettere di
scrivere, una buona volta, sul serio e per sempre…”.
M.
G.
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