mercoledì 6 marzo 2013

Vincitori del Concorso Pubblica con noi 2013

Fara Editore e i giurati: Alessandra Carlini, Caterina Camporesi, Fabio Cecchi, Marcello Tosi, Roberto Battestini e Simona Mulazzani sono lieti di premiare per la  



Sez. A – Racconto o raccolta di racconti
per la sezione Poesia v. qui

v. scheda libro
 

Variazioni di stile di Giorgio Diaz, Firenze

Taccuino
Una sera di marzo, all’ora di cena, seduto al tavolo di una trattoria all’interno di un circolo ricreativo dove mi trovavo per partecipare a una contesa letteraria, notai al tavolo accanto una giovane bionda, con il taglio dei capelli à la garçonne, il cui marito si era momentaneamente recato al bagno, che mi fissava con una certa insistenza con i suoi begli occhi cerulei.
Distolsi lo sguardo, leggermente imbarazzato, e ordinai al cameriere la specialità della casa, uno spezzatino di Thyrannosaurus Rex, che conservano da millenni in un enorme frigorifero.
Ella si alzò e venne verso di me, che a mia volta mi sollevai, incerto.
“Lei è lo scrittore Tal dei tali, vero? Quello che scrive in uno strano miscuglio di linguaggi. Vedo che è solo. Vuole unirsi al nostro tavolo?”
Accettai con qualche impaccio e dissi al garzone di trasferire la mia apparecchiatura al tavolo accanto.
Mi presentò suo marito, sopraggiunto nel frattempo, e iniziò a interrogarmi sulla mia attività letteraria.
Quando portarono il vino, glielo offrii, ma lei rifiutò: “non bevo”; e lui aggiunse con un risolino di compatimento: “è astemia”. Capii subito che non faceva per me.
Lo spezzatino era calloso e indigeribile.
Consumato il pasto, ci trasferimmo nella sala attigua, per partecipare all’agone poetico, cui entrambi eravamo iscritti.
Posai con lei per una foto, quasi guancia a guancia.
(…)

Burino (post-romanesco intoscanato)
A’ bbella! Che me stai a sfrucullia’ coll’occhioni cerulei, ‘r guardo torbido? ‘Mmazzate oh, che effetto t’ho fatto, eh? A’ bbionda, vorrei sape’ chi t’ha fatto quer taglio à la garçonne che pare ‘n catino all’incontrario. T’ho visto sai che hai aspettato tu’ marito se dasse p’anna’ a piscia’ e poi m’hai furminato coll’occhiata ‘ssassina. Penza te ch’ero ‘rivato a ‘sto circolo ‘n incognito pe’ sta’ a vede ‘sta puttanata de concorso letterario ahò, e mo’ me trovo soletto ar tavolo der ristorante co’ te che me stai a fa’ ‘r filo!
A’ smandracchiona, nun me riguarda’ così che me fai friccica’ le budella. Mo’ ciò fame. “Ah coso! Vie’ qqua che te devo fa’ ‘n’ordinazzione. Che ciai a magna’? Er menù è violento?”
“Ah, ciai ‘no spezzatino di Thyrannosaurus Rex? ‘N frigorifero? Da ‘n millennio all’artro? E portamelo vai, me voglio attripamme”.
A’ bbona! E’ t’ho vista, sai, di sottecchio, che me vieni a sfrucona’, mannaggia a te, me tocca arzamme.
So’ io, so’ io, quer tale che scrive come je’ vie’ je’ vie’, so’ io che m’hai guardato su internette. Me vòi ar tavolo? Co’ tu’ marito? S’incazzasse mica, eh?
Se proprio ce tieni, ahò, me stai a fa’ la cascamorta, te darò soddisfazione. “Garçon, attaccame a quer tavolino”.
‘R tu’ marito? Piacere mio, che famo, se magna? E nun me sta’ a fa’ ‘sta’ manfrina! Ho letto di qui, ho letto di là, ma quanto se’ bravo. Ahò, se magna?
Cominciamo a trinca’ er rosso. Ne vòi? Nooo, sei ‘stemia? ‘Nnamo bbene! Co’ te manco ‘n giro de letto, pussa via, sa’!
Mannaggia, quanto è tiglioso ‘r Thyrannosaurus! M’ha fatto mappazza co’ tutti que’ calli e mo’ ciò le trippe arrivortate. ‘Nnamo ner saloon a sciroppacce ‘r culturame.
Manco ‘r premio de consolazione, ‘sti paraculi!
Vai, famose ‘sta foto, ma nun t’appiccica’ che ce vedono! (…)


Giudizi
Gioco divertente, divertito, coinvolgente. (Roberto Battestini)

“Taccuino”, ovvero un breve racconto all’apparenza banale (lui che adocchia lei al tavolo di un ristorante), che diventa pirotecnico esercizio di lingua e di stile, dal francese al sapido vernacolo livornese al burino coatto, oppure in stile “dubbio amletico”, “lancio di un romanzo”, dark, ma anche alla maniera di Proust o di Joyce (“in simil Molly”), e come nel cinema di Truffaut. (Marcello Tosi)


Un brillante omaggio a Raymond Queneau che non manca di divertire, grazie alla padronanza dell'autore nel maneggiare e proporre i diversi stili. Un brano apparentemente scialbo acquista spessore narrativo grazie alla caratterizzazione del linguaggio. (Alessandra Carli
ni)

Dal momento della pubblicazione, i celebri Exercises di Queneau sono divenuti fonte di attrazione come di grattacapi per lettori di ogni genere. Il nostro pretendente supera con successo la prova. Dopo un eccellente disegno di partenza, la versione in lingua, forte di volontarie sbavature, chiama subito l’immaginazione al lavoro. Seguono alcuni episodi riconducibili a varie zone del nostro stivale, testimoni di come svariate parlate si annidino dietro la lingua italiana al singolare intesa. Sfogliando ancora si troveranno versioni per ogni umore e gusto, e l’accostamento scuro/rosato non mancherà di destare una ripagata attenzione. (Fabio Cecchi)

Biografia
GiorgioDiaz è nato a Livorno. Fin da bambino ha letto tanto, ma così tanto che a un certo punto si è messo a scrivere per vedere se aveva imparato qualcosa. Dato che andavano di moda i “gialli”, ha provato a scriverne uno; inopinatamente ha vinto un concorso letterario, grazie a un giallista doc, Andrea Pinketts, che lo ha presentato (Boja déh!). Il nibbio dell’Uccellina è scritto in un linguaggio inventato, che mescola vernacoli e lingua colta, ispirandosi (immeritatamente) ar Pasticciaccio; non è stato un bestseller, ma pazienza, ha avuto i suoi lettori. Lui ci ha preso gusto e ha continuato sfruttando le opportunità dei concorsi letterari in rete, e ha pubblicato qualche altro libro. Non ha più smesso. Ama i suoi lettori e spera che loro amino lui. Vive e si diverte a scrivere a Firenze. Ha pubblicato: Il nibbio dell’Uccellina (Società Editoriale ARPANet, 2004, vincitore del concorso 20/04/2004 con presentazione di Andrea G. Pinketts); L’eroe della Grotta delle fate (Midgard Editrice, Perugia, 2007, vincitore del Premio Midgard Historia); Lo sgozzatore di cigni (Edizioni Montag, 2009); Il bianco e il nero (Società Editoriale ARPANet, 2009); La città della solitudine Lettere d’amore di una sconosciuta (Altrimedia Edizioni 2010); Il mare ti accarezza in Giallo Limone 2011, i migliori quindici racconti del premio letterario “Giallo Limone 2011”, Robin edizioni, “I libri bianchi”, 2012. Poesie: L’orologio in Pàssim, Antologia Premio Letterario Panchina, III e IV edizione, 2011, I libri di Emil; in Autori vari, La biblioteca d’oro, Poesie edizione 2011; Le immagini, L’amica silenziosa in Antologia Versi creativi 2011, Edizioni creativa.


ex aequo Il vestitino rosso di Giovanni Carullo, Avellino

Che cosa cerchi di bruciare nel fumo di questa sigaretta, Nives? Che non è nemmeno la prima e ancora non è sorto il sole. Che cosa è che ti agita le notti e ti spinge fuori dal letto e poi in terrazza, anche quando è inverno, perchè dentro ti manca l'aria e senti come una morsa che ti serra il collo? È sempre la solita domanda, non è vero, Nives? Gli anni passano, il grigio del fumo che espiri oramai si confonde a quello dei capelli, li stiri con le dita e mentre lo fai, adesso come sempre, ti accorgi e ti meravigli finanche delle macchie sulla pelle. Nulla cambia. Le stelle brillano, ogni volta puntuali al loro posto, sembra nuovo solo il rumore delle macchine per strada, han cambiato i camion per la raccolta, finalmente sono meno rumorosi. Il custode del ministero, invece è sempre lo stesso, pensi che ormai gli mancherà poco alla pensione, puntuale da trent'anni spalanca le finestre. 
Mentre soffi nell'aria un'altra boccata di fumo, ti domandi se sia proprio vero che sei rimasta viva per tutto il tempo e perché finora niente sia servito a lenire le ferite e allora avverti come sempre tutto intero il puzzo dei ricordi, risale dalla punta dei tuoi piedi, ti infiamma le narici, corri a spegnere la cicca e vai a lavarti, come fai da sessant'anni, che l'acqua fresca, per un momento, almeno per un momento solo, blocchi il flusso dei pensieri.

 È il quattordici settembre, Nives, lo sapevi ma te lo ricorda il giornale radio, cambi in fretta la stazione, oggi non hai voglia di notizie e notiziari, e neppure delle previsioni, che il tempo sia bello, come sessant'anni fa, te lo ha già detto l'alba. Metti un po' di musica, non trovi quella buona, e allora spegni tutto, lasci che sia lo scroscio d'acqua a far da sottofondo ai tuoi pensieri, e poggi la fronte sul palmo delle mani, i gomiti sulle ginocchia, mentre di fronte al muro scorrono le immagini di un film. Regoli lo scroscio, allora, e chiudi gli occhi, è lo stesso film che rivedi da sessant'anni, neanche i colori sono cambiati mai, e neppure sfumano, non si sgrana la pellicola, risenti le voci, e respiri odori e rumori, li riconosci uno per uno, solo il rosso a volte fuoriesce dallo schermo, ma non è il colore delle piastrelle del bagno, è, per adesso, e soltanto all'inizio, il colore del tuo vestitino. 

L'avevi indossata di fretta e furia, tua madre era venuta a svegliarti perchè era quasi un'ora che tuo padre ti chiamava dalla strada. Sentivi le grida dei venditori dalla strada, era giorno di mercato, neanche il tempo di affacciarti alla finestra: – Nives, ma quanto tempo debbo aspettare? - aveva urlato tuo padre, mentre col grembiule bianco si asciugava la fronte dal sudore, facendosi spazio tra la folla vociante che contrattava l'acquisto di un sacco di ceci o di fagioli secchi.
Un balzo ed eri giù, che dalla finestra si faceva prima, e non importa che tuo padre ogni volta ti urlasse di usar le scale, perché avevi appena quattordici anni, e ti sentivi agile come un gatto.
- Sono quasi le undici, devi fare una corsa da Ottavio - aveva detto tuo padre, mentre insieme rientravate nell'osteria - sono finiti i tartufi, stamattina lui ritorna da Bagnoli, ne avrà portato di sicuro. 
Ci sarebbe stata tanta gente per pranzo in quel giorno di mercato, venditori e avventori, e tutti quelli che scendevano dalle contrade e dai paesi per il mercato di Avellino. La pasta ai tartufi era uno dei piatti più richiesti, tu lo sapevi, Nives, ma non ti spiegavi che cosa ci fosse di speciale in quell'odore. Eppure la taverna era sempre piena il martedì, era l'unica osteria sulla piazza del mercato, e a te piaceva girare per i tavoli, e servire i pasti, qualcuno ti lasciava una moneta di mancia, ma mai l'avevi tenuta per te, aprivi il cassetto e l'aggiungevi all'incasso, eppure non lo dicevi mai a tuo padre, chissà poi perché.
Avevi sorriso all'idea di poter andare a casa di Ottavio. (…)

Giudizi

L’autore è un autentico talento sia nelle trame che nella forma, anche se quest’ultima presenta qualche vezzo da scuola di scrittura. (Roberto Battestini)

Sono rimasta conquistata dal come nella brevita del racconto abbiano preso corpo le figure di donna di questi racconti. Forza e fragilità che si incontrano e si scontrano dando vita a personaggi intensi e drammatici. (Simona Mulazzani)

Biografia
Giovanni Carullo è nato ad Avellino circa quarantottoanni fa. Sposato, due figli e sei cani. Laureato in sociologia, allevatore di terranova. Lavora per mangiare e scrive per passione. Ogni tanto gli si accende dentro il fuoco della scrittura e allora lascia che le fiamme divorino(!) la sua anima e si riversino sulla pagina bianca di un foglio di carta o di un documento word. Mai che la scrittura bruci anche qualche grasso, però. Ma lui non dispera. È sempre grato a quanti hanno apprezzato i suoi lavori, mai nessuno però gli ha proposto pubblicazioni senza chiedergli contributi. Ha partecipato al Laboratorio di Scrittura Creativa della scrittrice Antonella Cilento a Napoli. Tra i premi per la narrativa:  1° (con il racconto breve Piacere Marcello) al concorso Hi-tech 2002 sul sito www.dillo.it ; 1° al Kriterion 2003; 3° al Kriterion 2004; 2° al Kriterion 2011; 5° al premio internazionale Margherita Yourcenar 2004; 6° al premio internazionale  Angela Starace 2004; finalista al Città di Empoli – Domenico Rea 2004; 3° (con il racconto La mascella serrata) al concorso L'Inedito 2003. Suoi racconti sono stati pubblicati sulla rivista “Il Segnalibro”, sul sito www.leggendoscrivendo.it , nonché nella raccolta Premio di Rapolano 2004. Ha vinto il premio Energheia 2007 (Matera) miglior testo per la realizzazione di un cortometraggio. Ha pubblicato con Prospettiva Editrice la sua tesi di laurea: Il successo delle Barbie Islamiche. Il racconto lungo La Bocca del Dragone è pubblicato su ilmiolibro.kataweb.it

ex aequo La vita di Bartolomeo di Marcello Zane, Gavardo (BS) 

Quando gli si rivolgeva il saluto, lui si fermava stupito. Pareva sbalordito, quasi sconcertato a volte. Sorpreso e meravigliato: così si potrebbe assentire se in paese non lo conoscessero tutti per questa sua indole chiusa e lontana da smancerie e civettuole sapienze di galateo, panciafichista ed irenico nella disposizione d’animo ombrosa che costituiva del resto la caratteristica di famiglia, trasmessa di generazione in generazione, mendelianamente capricciosa come fosse un gene, oppure tabe, fattore ereditario ineliminabile di estri e di paturnie.
Con un gesto antico, mutuato dal nonno che si dice avesse allo stesso modo additato ai coscritti di Napoleone la strada per sfuggire alla tenaglia stesa dai nivei soldati d’Asburgo ricavandone furbescamente uno zecchino d’oro, si levava istantaneamente il cappello, tenendolo per un attimo sospeso a mezz’aria, quasi per evitare di arroccarsi nelle beghe, di affrontare stralunate temerarietà della disperazione, di reprimere soprassalti di ambizioni e adocchiamenti di sfoghi, per scansare il convulso dimenare di caparbietà e di mene a soverchiare supremi azzardi di rivalsa, o per eludere al meglio impuntature di carattere, estri subitanei, influssi saturnini o pituitosi umori.
Il vecchio feltro, di un grigio sbiadito e consunto, restava lì, quasi fosse un coperchio che si solleva sulla pentola in ebollizione, sbalzato dalla crescente pressione quel poco che bastava per far fuoriuscire il fumante vapore e tornare quindi, esaurita la spinta, nell’originaria posizione. Il volto segaligno, solcato da rughe oblunghe ed estese, si distendeva allora per pochi attimi, per poi tornare a riprendere l’increspata trama intessuta dal tempo, così come si appiana un foglio incartapecorito nelle mani di un sapiente paleografo che, una volta decifrato il contenuto, lo rilascia libero di ritornare avviluppato e compreso nelle medesime pieghe della storia. Un sorriso e via, senza aprire bocca, senza dare aria al ganglio rovente o al rovello psichico dei propri, indecifrabili ai più, pensieri. Impossibile riscontrare a fior di labbra un cenno. Una virgola di bello spirito. Un punto nel quale gli sguardi si potessero incontrare. Una luce di robustezza o financo di ostinazione, di ardenza o di vigore salutare.
Né un disbrigliarsi di sentimenti.
Si chiamava Bartolomeo.
Per la verità il padre, quel giorno di carnevale in cui venne al mondo, forse un poco brillo dopo una notte di lunghe bevute, sostenute senza dubbio alcuno per superare l’emozione dell’arrivo del primo, a lungo desiderato figlio, e complice il poco desto e ancor meno acuto impiegato dell’anagrafe, lo aveva iscritto ai registri dell’esistenza formalmente certificata da marche da bollo e controfirme con una sequela di nomi che nessuno aveva mai pensato, sino ad allora, di affibbiare ai propri figli (temendone certamente l’esacerbata critica per il resto degli anni).
L’impiegato era anch’esso reduce dal carnevale del paese e ancora in preda ad un’eccitazione di umore bacchico, e non fece obiezione a quella richiesta giudicabile senza dubbio un poco eccentrica e bislacca. Non saprei ben dire, ma ho l’impressione che con la sua dipartita – del commesso d’anagrafe dico, quello che non trovò da ridire su di una così stravagante, desueta e capricciosa istanza – e senza quei suoi baffetti giornalmente impomatati con neri intrugli a far capolino sotto la maschera, siano definitivamente scomparsi anche i carnevali, quei carnevali di una volta e alla buona, con un paio di balli e fruscìo di stelle filanti, i coriandoli d’arcobaleno sugli scialletti delle ragazze di ritorno dai Vespri, quattro giovanotti vestiti da donna e le mele caramellate come empireo, ciarle in cimberli e ceffi spiritati nello spalancarsi di bettole e osterie. (…)


Giudizi

Umori gaddiani strabordanti di “ardore istintivo per la vita”, ricchi di stratificazioni linguistiche che disegnano il ritratto, il mondo del protagonista, fin dalla contrastata scelta anagrafica, così come “le sue impuntature di carattere, estri subitanei, influssi saturnini o pituitosi umori”, nelle interminabili logorree mentali “ricorrendo a vocaboli corrosivi e a concetti astrusi d’onnifrugante densità”. (Marcello Tosi)

Notevoli sono le capacità dimostrate dall’autore in questione. La narrazione incede di buon ritmo ed offre ricorrentemente una terminologia alla portata di pochi eletti. Nel bene e nel male, un’impostazione alla Hugo, ossia un’anticentrazione che nel delineare origini-vissuto-miracoli dei personaggi fa scaturire ogni possibile sfumatura dalla tavola pittorica. Per contro, una full immersion in tale opulenza può pregiudicare una sciolta lettura. Si rimane comunque tentati di catapultarsi dove descritto, partire in esplorazione ringraziando Bartolomeo, uomo di altre zone ed altri tempi, dai vari e suggestionanti nomi. (Fabio Cecchi)

Mi ha commosso. Un uomo sconfitto che nell'incontro con una nuova vita ritrova se stesso. Una scrittura ricercata, ma non artificiosa, che ha saputo trasmettermi l'intensità del progetto narrativo. (SimonaMulazzani)


Biografia
Bresciano (valligiano) over 50, dopo aver svolto attività di ricerca post laurea presso la Fondaçao Blumenau (Stato di Santa Caterina, Brasile) grazie ad una borsa di studio elargita dalla stessa, e ottenuto un collocamento presso l’Università Autonoma De Madrid (Spagna) grazie al programma Europeo Leonardo, Marcello Zane ha imparato due o tre cose sulla salinità del sentimento e la sapidità delle relazioni, restando, per dirla con il protagonista del racconto, panciafichista ed irenico nella disposizione d’animo. Nonostante abbia collaborato a vari uffici stampa pubblici e di grandi aziende, scriva libri di carattere storico economico e faccia parte di varie fondazioni culturali e comitati museali, insegni comunicazione in una università, sia socio di una micro casa editrice, trovo fortunatamente il tempo per… scrivere: naturalmente di quel che lega i sogni agli uomini, le speranze alle evenienze ed ogni briccica all’eternità.


ex aequo Meteo di Paolo Giammarroni, Fara Sabina (RI)

Nel tempo che non esisteva ancora il Meteo, le stagioni bastavano.
C’erano le stagioni piene e quelle mezze. Tutte ben riconoscibili. Quel silenzioso di nonno Pietro sapeva andare più in là, come un prodiere faccia al vento, a leggere le increspature e le zone piatte. Lui leggeva le nuvole, che è come dire la sostanza dell’aria: la nube spuma gigante o le striscioline immobili, quelle nere da affossare la luce del giorno o le più veloci a disfarsi e a far rimbalzare i tramonti.
Secondo lui, il nonno, era naturale fare la previsione, che però non si chiamava così a quel tempo, ma “mi sa tanto che…”. E il telone copriva in fretta i covoni, le bestie trovavano il loro posto sicuro, oppure si cercavano gli amici per fare domani il lavoretto rimandato.
Con quella perizia, mai insegnata a voce ed imparata con gli occhi, si poteva anche sbagliare. Nessuno rimproverava nessuno: il tempo aveva diritto di fare i capricci. Lo faremo domani… Era bello scoprire poi che – stranamente - il tempo era stato più bello del previsto.
Nel tempo che qualcuno di noi si sentì stretto dentro la nostra misura e trovò dei finanziatori, venne voglia di possedere mappe del cielo. Un anticipo di Meteo.
I progetti di nuove spedizioni venivano discussi su avvolgenti poltrone di morbida pelle rossa. Da cassette di legno pregiato, spuntavano sigari dalle dimensioni imbarazzanti, garantiti da provenienza caraibica. Nelle taverne la punta di altre foglie rinsecchite attorno a miscele nefande veniva divelta da gialli canini e scatarrata a debita distanza: non qui, nell’ampio salotto, dove la regola richiedeva l’apposita taglierina stile Robespierre, prima di una adeguata masticata tra le labbra carnose e l’accensione di un interminabile prospero.
Era titolo di nobiltà avvolgere di quel tabacco coloniale le pesanti tende a far da scudo ai fragili infissi d’epoca.
Apparivano dai rotoli di cartone le nuove edizioni, fresche di pennino in vari colori. Dai diari del precedente comandante o avventuriero, ci si era affrettati ad apportare correzioni e annotazioni. A colpo d’occhio spiccavano corsi d’acqua più eterei o densi, se necessario con freccine direzionali, infilati spesso tra due coriandoli marroni da cui potersi affacciare nella gola. Macchie in verde pastello allagavano la carta ad indicare almeno la presenza arborea, ciuffi resistenti al vento, o prezioso alimento per greggi non bisognevoli di recinti. Era però il verde scuro e l’assenza di nomenclatura a far arricciare i baffi e riscaldare la discussione. (…)


Giudizio

Racconti ambientati in un futuro non troppo lontano. Come spesso accade nelle narrazioni fantascientifiche, l'inquietudine e la drammaticità delle storie prende spunto dal nostro presente, mostrandocene gli elementi potenzialmente negativi. (Alessandra Carlini)


Biografia
Paolo Giammarroni, nato a Roma nel 1951, è d’origini umbre e sabino per scelta. Giornalista economico, consulente in comunicazione, ha creato il “Laboratorio di scrittura funzionale o di servizio”. Dopo vari libri di saggistica, si sta dedicando alla forma breve: racconti, haiku, romanzi brevi, oltre che canzoni e musiche di scena. Ha tradotto Valery, Thich Nhat Hahn, Buarque de Hollanda. Per Rai International ha curato sceneggiature di personaggi come Fallaci, Modugno, Stratos.


ex aequo La colpa di Kafka e altri racconti di Roberto Morpurgo, Bulgarograsso (CO)

Dicono che Franz Kafka soffrisse l’arcano delirio della megalomania, a stento soffocato dalla pur geniale museruola della bombetta, e che il subdolo pretesto della costrizione spirituale lo inducesse a spacciare in pensieri il cinismo con cui invidiava la salute degli eroi.
Rispondono che così dicendo sia non solo consegnata la sua persona alla dubbia custodia della leggenda, ma sia inoltre esposta allo scherno la sua malattia, risaputa almeno quanto il suo temperamento sobrio e schivo e - ancora rispondono - forse anche sentimentale.
Dicono che Franz Kafka giocasse nel segreto di un letto poco e male illuminato con le sacre vestigia di antiche parole, dalla sua mano indecentemente tramutate in caricature, o anche in burattini, affermano infatti che fra le sue dita indegne ogni cosa, specie se nobile, alta, distratta, diviene sensazionale, comune, furtiva e pavida. Aggiungono di non trovarsi in una cattiva disposizione d’animo quando dicono che un suo eventuale processo – parola che adottano per mera ironia –metterebbe addirittura in ridicolo la figura del testimone, e chiunque si trovasse nel caso di sopportare queste responsabilità ne verrebbe distolto dall’indole peregrina dell’imputato, canzonatoria e astrusa, insinuano, come quella di un clown. Diffidano chiunque dall’eventuale ambizione di interpretare le loro parole come un atto di accusa, e anzi dignitosamente domandano che sia invece considerata la seguente circostanza: nessun medico può farsi giudice o accusatore di un proprio paziente, e quando, per ragioni che per il momento non ritengono di dover specificare, si trova nella necessità di produrre un giudizio, affida a un segretario l’ambigua mansione, che non avrà infine altro effetto se non quello di consegnare il reo alle maldestre cure della Leggenda.
Rispondono che così facendo non solo sia consegnata la sua persona al sacrilego esame della diffidenza, ma sia inoltre esposta al dileggio, allo scherno, al ludibrio e persino al malinteso la natura terrena del suo stesso testamento; e con ciò pregano che sia il frutto della pazienza e della cautela, e non invece l’astuzia di un inventore, a illuminare nel tempo il significato ancora oscuro di ciò che hanno chiamato testamento, quasi, a loro dire, una testimonianza indiretta – tanto più pura, tengono a rammentare, del suo stato di salute. (…)


Giudizio
La scrittura, raffinata sospesa fra sogno e realtà, appassiona e coinvolge il pensiero di chi legge. (Caterina Camporesi)


Biografia
Laureato in filosofia, Roberto Morpurgo scrive poesie, aforismi, saggi, racconti, soggetti cinematografici, pièces teatrali. Ha pubblicato in volume L’azzurro del mare (poesie, Joker) Pregiudizi della libertà I (aforismi, Joker), El Djablo (racconti, Puntoacapo, 2009). Ha diretto per la scena e per la radio i suoi atti unici Tubor e L’Autoritratto. Per Schegge d’Autore (RM) e per La corte della Formica (NA) ha curato nel 2008 la messinscena e la regia del suo monologo L’Isola;  sempre al teatro Tordinona di Roma ha poi allestito e diretto le sue pièces Bogey (2009), L’Appello (2010), Pioggerellina nella stanza (2011), L’Intervista (2012). Altre sue pièces sono andate in scena a Roma a cura della compagnia Gnut. Dirige per Puntoacapo la collana di teatro Il Porcospino. Ha vinto il concorso La vita in prosa 2012 con il racconto Muette. Imminente la pubblicazione in volume de L’Autoritratto per i tipi di Falsopiano di Alessandria.


Opere segnalate con pubblicazione di estratti e giudizi in questo blog

Avanti sputa il rospo. Sputai una rana e altri racconti di Lucia Grassiccia (Milano)

Chiuso in casa da undici giorni, nessuno mi cerca. Non alla porta (a dire il vero non posso saperlo), qualche telefonata sì, però. A cui non rispondo perché il telefono è staccato o lascio che squilli. Il più del tempo lo trascorro sdraiato sul letto, comodo. Non credevo di potermi sentire a mio agio per tutte queste ore di seguito fra le lenzuola, è un’autentica rivelazione. Mi sorprende perché non ricordo di essere mai rimasto a letto tanto a lungo – in assenza di malattie – la mia ipotesi precedente era che mi avrebbe stufato.
Il primo giorno è riempito quasi completamente di sonno. A distanza di ore mi sveglio e mi alzo solo per andare in bagno, tre volte. In una di queste approfitto del fatto di essere in piedi per mangiare uno yogurt e delle fragole, non particolarmente dolci come rosso il loro aspetto. Forse è in quell’intervallo dai sonni e dai sogni che mi domando se la notte dopo avrò ancora voglia di dormire. Tuttavia non è proprio voglia il concetto, direi più riserve. Se c’è ancora del sonno da qualche parte di cui possa usufruire. Prima di pormi la questione con serietà, torno a letto, a faccia in giù. E dormo ancora. La notte successiva, con mia sorpresa, continuo a dormire, nonostante la difficoltà di trovare ritagli freschi dove poggiare. Un paio di volte mi ritrovo con gli occhi aperti e rimango sveglio per diversi minuti. Mi mantengo aderente al materasso, a guardare le profondità del buio davanti a me. Sto bene, riposato. Svuotato. Evito di pormi domande, non potrebbero essere più attraenti della mia inattività, in questo momento. Costa fatica evitare di pensare una volta svegli.
Nelle ore diurne il sole, che proietta linee sfumate dalle tapparelle delle imposte basse, è l’unico vero ricordo del mondo esterno.
Il terzo giorno compio lo sforzo di fare una doccia e cambiare maglietta e mutande, anche se dopo non mi sento granché rinnovato come succede talvolta uscendo dall’acqua calda. Solo meno appiccicoso, lavato e accudito nel mio voluminoso accappatoio. Senza lasciare il letto, camminandoci qualche volta sopra, sdraiandomi sulla pancia a piedi alti, leggo a lungo da libri e riviste sparsi in vari angoli della camera. Di rado mi sposto sul tappeto. Un po’ di questa roba stampata si trova nella mia stanza da mesi o anni e non l’ho mai sfogliata. Adesso sono dell’umore giusto, sento quasi il dovere di farlo, come se non potessi attendere occasione migliore. Contrariamente alle mie abitudini, leggo senza ordine, apro a casaccio le pagine. Perché mi sento curioso, dopo una valanga di curiosità sopita. E alle volte gli inizi non soddisfano accuratamente l’impellenza. Fra una lettura e l’altra improvviso brevi dialoghi con me stesso, non più di tre o quattro battute solo pensate, al termine delle quali mi chiedo Credi di venir fuori da una sceneggiatura di Tarantino?, ma non rispondo. All’interno di alcuni momenti, ma solo alcuni, sento come una perdita di significato in quel che faccio o sto per fare. Traccio con le pupille un semicerchio come se volessi divertire un bambino con cui stessi parlando, anche se davanti a me non c’è alcun bambino, ma forse ce n’è uno dietro. Queste carenze di senso si presentano quando ricordo che non c’è nessuno che si aspetti che io faccia cose come quelle che sto facendo, me incluso. Poi smetto di ricordarlo e tutto il significato si adagia nuovamente sulle parole, sulle copertine così diversificate di libri dischi e cose così. Su tutti quei rettangoli sovente rispettosi della sezione aurea, chiusi, aperti, maltrattati, sopravvalutati. Che osservati nel loro mero aspetto sono figure geometriche spurie. (…)


Giudizio
Stile elegante e preciso, coerente con ogni  brano proposto. (Roberto Battestini)

Biografia
Lucia Grassiccia dice di sé: «Da tutti gli anni che ho, mi sfamo di letture e mi disseto di scritture. Nei più recenti ho studiato arteterapia clinica a Milano, prossima alla tesi. Ma la mia terra è la Sicilia, e Modica la città che nel 1986 mi riversò sul mondo. Collaboro ad Artribune per interrogarmi e interrogare sull’arte (www.artribune.com/author/lucia-grassiccia/). Non credo nei pettini.»



Non voglio lasciarti… Ci prendiamo una pausa? Racconti per aiutarti a prendere tempo di Anna de Castiglione (Milano)

"QUALCOSA" DI MISTERIOSO IN VIA TERTULLIANO N. 32

Nella modesta sala di un modesto monolocale in via Tertulliano n. 32, a Milano, 11 persone si guardavano l'un l'altro: chi con curiosità, chi con insofferenza. Ma negli occhi di tutti chiunque avrebbe letto, con assoluta chiarezza, un'identica domanda: perché siamo qui?
Esattamente un mese prima, 148 persone, tra loro molto diverse per età, ceto sociale e professione, erano state raggiunte da uno stesso invito, scritto a mano in elegante corsivo, su carta da lettera color avorio:

Cara/o  Xxxxx,
Lunedì 14 marzo alle 17.00 ti aspetto a casa mia, in via Tertulliano al n. 32, primo piano, per un'importante comunicazione; si tratta di una sorta di confessione-rilevazione che non posso più tenere solo per me. Con l'affetto di sempre,
Maestra Paola

112 delle 248 persone contattate stracciarono l'invito pensando ad un errore; 124, dopo più o meno lungo meditare conclusero di avere qualcosa di meglio da fare e solo le restanti 12, ancora non sapevano dire con esattezza perchè, decisero di accettare l'invito.
L'attesa non fu piu lunga dello stretto necessario; alle 17:10 l'ormai ottantenne Signora Paola entrò in sala e ruppe il silenzio.
I suoi movimenti erano lenti e la voce era malferma, ma nei suoi occhi azzurri, avvolti da una ragnatela di rughe sottili, brillava ancora la Vita e tutte le sue lucine.
"Miei cari ragazzi, vi ringrazio di aver aver accettato l'invito e di essere qui."

Fu in quel momento che suonò alla porta il dott. Bernardo Bianchini, odontoiatra; trent'anni prima, il dott. Bianchini era conosciuto da tutti come Bernardo-il-tardo. Oggi nessuno ricordava più quel suo soprannome, ma la Signora Paola non lo aveva mai dimenticato: sorrise, come se lo aspettasse, e gli lasciò il tempo di prendere posto nell'ultima seggiola rimasta vuota. Poi continuò: "Quello che sto per dirvi non vi piacerà; e, dopo che lo avrete sentito, probabilmente rimpiangerete di avere accettato il mio invito; perciò...siete ancora in tempo, la porta è aperta, potete andarvene. Io, invece, non voglio lasciare questo mondo, lasciando voi all'oscuro. Ora non ho più nulla da perdere e sono arrivata al momento più difficile della vita: quello in cui si deve dire la Verità e riconoscere i propri errori".
Il silenzio sembrò cambiare consistenza; divenne appuntito e duro, ma nessuno accennò ad alzarsi. (…)


Giudizio
Giunge sempre il momento  nel  quale qualcosa prende corpo: è la verità  del cuore. Scrittura agile e coinvolgente. (Caterina Camporesi)

Biografia
Anna de Castiglione dice di sé: «Alle volte l'interesse che suscita la biografia di un autore è inversamente proporzionale all'interesse che suscitano i suoi racconti. Purtroppo, credo che questo sia proprio il mio caso. Però, scrivendo, ho scoperto una parte di me che nemmeno sapevo di avere, la migliore. E l'ho messa tutta lì, solo nei miei racconti. Poiché è inevitabile che ogni cosa abbia un inizio… ho scritto il mio primo racconto nel 2001 (secondo al premio Marguerite Yourcenar); poiché non è detto che ogni cosa abbia una fine, spero che i miei racconti non finiscano mai.»



Doppio passo di Elisabetta Segna (Roma)

In certi momenti ho l’impressione di essere, io, qualcosa di terribilmente inferiore. Mi tocca digerire un’intera vita piena di errori e di stupidità. D’altra parte i sentimenti d’inferiorità sono simmetrici alla potenza. Voler essere migliore o più intelligente di quanto si è, anche questo è segno di potenza, essere quel che si è non è facile: occorre prima di tutto imparare a sopportare se stessi, a perdonarsi per carità cristiana i peccati propri. Tutto questo è spaventosamente difficile… (Carl Gustav Jung)

Il traghetto, in quell’isola passava una volta alla settimana e, se il mare non era buono, anche più raramente. Non aveva fretta, due mesi circa la separavano ancora dal momento in cui avrebbe dovuto trasferirsi per alcuni anni in quella città dal nome impronunciabile e di cui, fino a poche settimane prima, ignorava l’esistenza. Ma ancora adesso, seduta sul ponte del traghetto, sentiva la frenesia e l’agitazione che l’avevano accompagnata nell’ultimo periodo. Era consapevole che avrebbe dovuto  avere ancora un po’ di pazienza e che nel giro di pochi giorni avrebbe ritrovato la calma “necessaria”.
“L’appartamento è pieno di sole e, se vuole stare fuori, per lavorare, ha un piccolo giardino con una bella magnolia che fiorirà proprio nel periodo in cui lei sarà nostra ospite” le disse Giulia, la proprietaria.
Il suo desiderio era stato esaudito, l’appartamento era carino, una camera grande con un lettone di legno e un paio di piccoli tavoli, 2 sedie, uno specchio con la cornice di legno, abbastanza grande da potersi vedere per intero, le pareti bianche e spoglie, come tutto il resto della casa, un bianco caldo, riposante, rassicurante, libero. Quei muri erano tutti per lei, per i suoi foglietti, le sue foto e tutto quello che avrebbe voluto vederci.
La cucina aveva una finestra grande quanto la parete ed è lì che avrebbe potuto stare nelle giornate di vento che soffiava spesso sull’isola e in cui, le avevano detto, era difficile anche camminare. Non c’era un armadio nella camera da letto, ma una rientranza nel muro con un bastone per appendere le stampelle con i vestiti e delle mensole. “Meglio così – pensò – i colori dei miei vestiti rallegreranno la stanza”. Si era portata dietro molte  cose che “parlavano” di lei, della sua vita vissuta fino a quel giorno foto, lettere, cartoline, diari e i suoi  confusi e radi ricordi.
Andò subito a dormire, la partenza era stata un po’ affannosa e il viaggio movimentato, era stanca e le lenzuola di lino candido la accolsero come un abbraccio fresco.
Fu la voce di Giulia, che stava curva sui suoi fiori, la prima cosa che udì affacciandosi alla finestra.  
“Fa colazione con noi signorina?”
Il risveglio, quel primo giorno sull’isola, non fu piacevole: il letto nuovo, la luce che aveva invaso la stanza prestissimo e i pochi, ma nuovi rumori, l’avevano infastidita. Era sempre così  quando non dormiva nel suo letto, ma sapeva anche che in due o tre giorni si sarebbe abituata. Aveva dormito fino alle 8 e ormai era tardi per fare la spesa non aveva voglia di andare al bar e poi le faceva piacere parlare con i padroni della casa, sapere un po’ di più di quell’isola.  
“Faccio la doccia e arrivo, grazie.”
“I figli sono andati via a lavorare  all’estero,  ci hanno  chiesto di raggiungerli, ma noi stiamo bene qui. Adesso, in primavera, è il periodo più bello perché si esce quasi tutti i giorni a pesca, si pianta un po’ di orto e la sera l’odore del mare  entra in casa.” (…)


Giudizio
Un viaggio nella memoria e nelle origini di una vita raccontato con dolcezza e intensità. Interlocutori veri? solo nella mente? non importa, l'esseniziale e rincontrare se stessi. (Simona Mulazzani)


Biografia
Elisabetta Segna dice di sé: «Sono nata nel 1956. Mi è capitato di cambiare spesso lavoro, case e città. Ho un diploma di liceo classico, 1 di maestra d’asilo e 1 di documentalista. Tra i vari lavori che ho fatto per mantenermi  (sono andata a vivere da sola a 20 anni) ci sono: contadina, gestrice di una crêperie, venditrice di cose varie (libri, pentole, ecc.), documentalista di audiovisivi presso enti e/o fondazioni. Attualmente sono  operatrice di biblioteca e mi occupo in particolare delle attività culturali e promozione della lettura.  Vivo con un marito, un figlio adolescente e una gatta. Amo leggere, scrivere, camminare, ascoltare le storie delle persone e vorrei avere più tempo per fare tutto questo. Un mio  breve racconto è stato selezionato e pubblicato nella raccolta della Banca della memoria “Io mi ricordo” Einaudi, 2009.


Sognantìco di Franca Oberti (Calco, LC) 

Il Vento. La faceva da padrone, il vento, tra i cunei delle due valli e i boschi dimenticati. Si inseriva di prepotenza in ogni angolo dei monti fino a scompigliare i più esili fili d’erba, quell’erba che forse aveva origini tanto lontane, trasportata da quello stesso vento. Scrollava con rabbia le corolle di fiori e disseminava petali e polline, fecondando ogni più piccolo e remoto anfratto. Lo conoscevano bene gli abitanti di Sognantìco, che spesso si erano trovati essi stessi in balia della sua furia. Si potevano sigillare le finestre e le imposte, ma il suono penetrava ovunque e raccontava storie antiche. Per qualche attimo cessava all’improvviso, e il silenzio calava dai monti come un mantello protettivo; poi la sua furia faceva trasalire e pareva l’ululato di un lupo arrabbiato che non riusciva ad infilarsi nella porta di casa. Ringhiava, rideva, cantava, la sua risata sibilante s’insinuava tra i boschi come un serpente affamato, strisciava sulle piane, spazzolava i cespugli e scivolava dalle tegole dei tetti. Quando penetrava nelle gronde sembrava che una iena stesse ridendo e faceva vibrare ogni corda della paura insita nell’uomo, fin dalla sua infanzia, fin da quando gli venivano raccontate le storie di streghe cattive e ridacchianti che alimentavano la paura, proprio come fa il vento. Durante il giorno, si poteva notare il suo arrivo da lontano; i lunghi alberi cominciavano ad ondeggiare a destra e a sinistra, come se un’enorme mano invisibile scompigliasse le fronde più alte; poi la stessa mano passava di albero in albero fino ad arrivare sempre più vicino, fino a giungere tra gli arbusti dei giardini e degli orti, che si animavano e danzavano un lugubre ballo senza controllo. Li avrebbe divelti, il vento, tanto era rabbioso, se solo gli fosse stato possibile. Una volta ci riuscì e trasportò lontano giovani piante con tutte le radici; provocò incidenti e frane fino a far crollare grandi tronchi sulla strada e a dividere in due una delle valli.
Ogni volta che il vento impazziva, gli abitanti di Sognantìco si chiedevano il perché e il percome di una tale bufera e si ripetevano che non si era mai sentito un vento come quello. Perché è proprio questo che fa paura del vento: che non si vede; però si sente e fa danni e fa spaventare e non si sa quando arriva né quando se ne riparte.
“Le stagioni non sono più quelle di una volta” mormoravano i vecchi saggi del paese, quando potevano riprendere a sedersi fuori, sulle panche e sugli usci di casa; chi sferruzzava, chi si arrotolava una sigaretta, chi riempiva la pipa. “Un vento così non si era mai visto”, e tutti annuivano concordi.
E quando tornava la calma, all’improvviso, creava lo stesso stupore dell’arrivo. Tutto si placava facendo piombare il silenzio sulle valli, talvolta un silenzio che assordava e faceva rimpiangere il vento.
Poi, per qualche giorno, ci si dimenticava di “lui”; ma quello aspettava nascosto, e quando tutti avevano finito per riabituarsi alla calma e al silenzio, ecco che tornava galoppando sulle fronde degli alberi e ricominciava le sue macabre danze, per provocare la paura nella gente, per scuotere gli animi timorosi; perché il vento si nutre di paura, più ne genera e più diventa forte, più si sente potente e più la fa da padrone. (…)

Giudizio
Una scrittura umile e convincente ed un’efficace ripartizione danno una positiva riuscita per il racconto. La voce narrante riesce a non ricadere in un resa scontata nonostante l’unità di luogo conferita al progetto letterario, evocando Sognantìco con delicata sapienza. La parte conclusiva soprattutto riscuote un preciso assenso. (Fabio Cecchi)


Biografia 
Franca Oberti dice di sé: «Due righe di me che ho attraversato la vita? Non che pensi di essere al traguardo, anzi, se mi guardo allo specchio non mi riconosco, mi chiedo chi sia quella vecchia, mentre lo spirito ventenne continua a spronarmi nello scrivere, nella professione, nel sociale, mi incita ancora al gioco e al divertimento. Sessanta e non sentirli… Vivo con mio marito, i nostri due figli vivono accanto a noi; ho tre gatti che mi coccolano e tanti ricordi intensi e meravigliosi. La salute? Sorvoliamo! Scrivo, leggo e coltivo le amicizie; aiuto il mio prossimo per quanto possibile “e quando sento il vuoto intorno a me, mi chiudo, piccola ostrica, sul fondo, nascosta”.»



Tutto al 50% di Manlio Ranieri (Bari)

Mi guardo allo specchio.
Quello che vedo è mediamente soddisfacente, ma i miei sono occhi tarati sull’età che mi porto addosso e che ho impietosamente marcata sulla carta d’identità, come promemoria nel caso dovessi dimenticarmene.
Cosa che tendo a fare spesso, peraltro.
La mia vita di eccessi moderati, comunque, non ha prodotto danni irreversibili.
Cerco di immaginarmi con lo sguardo di due ragazze ventenni, ma l’immedesimazione mi è difficile.
Ancora non ho capito realmente cosa sia successo ieri.
Torno da quella che abbiamo chiamato una turnè.
Sì, beh, quando hai quindici anni e metti su una band hai un’idea piuttosto differente di quella che potrebbe essere una turnè: ti figuri hotel di lusso da mettere a soqquadro, da cui farti cacciare, serate alcoliche, nottate insonni, ragazze che vanno e vengono dai camerini.
Bello.
Ti fai questa idea a furia di stereotipi sui gruppi rock maledetti, sulla pazzia degli artisti.
Poi fai un po’ di gavetta, i primi concerti nei pub, con un pubblico composto essenzialmente da amici, qualche notte bianca in piazza in qualche manifestazione comunale, un’apparizione in prima serata nel locale più rinomato della scena indie della città, con un concerto tutto per te. Magari persino con il gruppo spalla.
In quel momento ti sembra di essere arrivato da qualche parte.
Il demo. Qualche piazzamento di riguardo in qualche inutile concorso per band emergenti.
L’ascesa sembra funzionare, sembra muoversi nella direzione giusta.
È solo che prima o poi arriva il crinale. Lo immaginavi più elevato, di solito, ed invece ti ci trovi sopra. Intorno a te ci sono tutti i tuoi colleghi, gli altri gruppi che non hanno il vento in poppa come il tuo. Sono più in basso. Li vedi dall’alto. Ma non troppo.
Ci rimani per un po’, cammini da un punto all’altro, ti guardi intorno, cerchi nuovi punti di osservazione, nuove vallate da ammirare per non stancarti.
Ma prima o poi ti stanchi.
Ed allora ti rendi conto che sei su una vetta, quindi l’unica possibilità di movimento che hai è quella di intraprendere la china verso il basso.
Da questo punto di vista, in fondo, quello che abbiamo raggiunto alla veneranda età di 35 anni io e i miei compagni dei Tuttoal50%  è invidiabile: dopo due cd prodotti da un’etichetta onesta ma tanto piccola da sembrare una cimice fastidiosa nel mondo elefantiaco del mercato discografico abbiamo deciso di tentare il tutto per tutto. Un album meditato, scritto con il massimo della concentrazione e dell’ispirazione, registrato con cura. Poi messo in rete, gratuitamente a disposizione di chi avesse voglia di scaricarlo. E poi via con una serie di concerti a otto euro – perché cinque era troppo poco e la doppia cifra del dieci poteva spaventare – in tutti i locali d’Italia dove si suona rock. Ogni show annunciato da un tam tam imponente, manifesti, passaparola attraverso i social network, volantinaggi.
Spese, spese e spese. Divise a metà fra il gruppo e la casa discografica, così come gli utili dei concerti, visto che il cd era distribuito liberamente in formato mp3.
Una piccola follia disperata. (…)


Giudizio
“Una piccola follia disperata”, dove l’unica possibilità di movimento che resta è quella di intraprendere “la china verso il basso”, vivendo al 50%. Il crollo dei sogni, la disillusione giovanile, transita in un flusso di sguardi, di parole non dette, di sorrisi accennati, mentre un vento gelido spazza la città. Stati emotivi in cui sentire che l’esclusione stessa è scambio di bisogni vitali, dare e ricevere “la possibilità di vivere in prima persona”. (Marcello Tosi)


Biografia
«Mi chiamo Manlio Ranieri, nato a Bari nel 1974, di professione ingegnere. Scrivo da una quindicina di anni. Ad oggi ho pubblicato una raccolata di racconti (Di Notte, ed. Palomar, 2001) e due romanzi (Correre per rimanere immobili, ed. Akkuaria, 2008 e Fra santi e falsi dèi, ed. Akkuaria, 2010). Ho partecipato anche ad antologie di racconti (Qualcosa da dire, ed. Kora, 2005, Con gli occhi di un gatto, ed. Akkuaria, 2007, Haiti chiama Bari, ed. Levante, 2010). Ho scritto anche molti altri romanzi e racconti, ma ho preferito mantenerli inediti in mancanza di una proposta editoriale adeguata. I principali riconoscimenti in premi letterari sono stati: Premio nazionale di narrativa Aci S. Antonio (2001, primo classificato); premio “I veli della luna” (2007, primo classificato); premio “Creatività itinerante” (2010, primo classificato); premio “Città di Martinsicuro” (2011, terzo classificato); premio internazionale “Il convivio” (2011, secondo classificato).»



Due racconti di Fausto Toccaceli (Cagli, PU)

Viaggio in ambasciata
Proseguire, perseguire qualcosa 
significa lottare contro ogni cosa.
L’universo fa tutto il possibile per impedire
ad un’idea sventurata di arrivare al suo termine.

“Sisay! Sisay!, vieni con me!?”
“Dove!”
“In ambasciata!”. Dopo dieci secondi, eccolo tirato a lucido e pronto per il viaggio.
“A che ora torniamo?” – di un etiope che chiede l’ora del ritorno da un giro in città, c’è almeno da dubitare che abbia altro per la testa.
“Perché!, cos’hai da fare?”
“Alle cinque vorrei andare a scuola, ho bisogno di parlare con un professore…”
“Ok, ok… sono le tre; tra circa mezz’ora saremo lì; alle quattro ho appuntamento per il visto; dieci minuti per la formalità e ripartiamo”. Il ragazzo non risponde neanche, sorride e mi fa cenno che per lui si può partire.
Poco traffico in giro, vista l’ora. I soliti camion fermi - con l’immancabile pietra ad informare la sosta - per una foratura o per un principio di incendio ritardano di qualche minuto il nostro arrivo; siamo comunque in largo anticipo; riusciamo per di più a fare una piccola tappa e ad ammirare il bosco verdeggiante di eucalipti nei pressi dell’ambasciata tedesca.
“Bello è!”
“Che alberi sono?”
“Sono eucalipti…”
“Ah! Ho capito!… In amarico si chiamano Ba Hir Zaf.”
“… Tu in Dancalia non li hai mai visti perché non ci sono, non è un albero autoctono e per di più vive solo in luoghi umidi, piovosi. Li ha portati un francese consigliere di Menelik, dopo un consulto con la regina Taitù.”
“ A sì!… E quanti ne ha portati?” lo guardo esterrefatto. 
“Ma che domanda è!… Quanti vuoi che ne abbia portati! Magari un centinaio e di piccole dimensioni, poi si sono riprodotti. L’eucalipto è un albero che cresce velocemente e si moltiplica altrettanto velocemente; nell’arco di una ventina d’ anni tutto l’Entotto ne è stato ricoperto… Vedi lassù! Guarda quanti!”.
“Certo che li vedo! Saranno alti almeno trenta metri…”
“Anche di più!… ”
Mette la mano sul cruscotto e, distendendo pollice e mignolo, partendo da sinistra, fa per prendere delle misure - mi guarda e ride - tornando indietro ogniqualvolta sbatte sul finestrino.
“Che stai facendo?”
“Niente” continua a ridere - sto cercando di capire quanti palmi occorrono per fare un metro, così poi moltiplico per cinquanta e vedo quanti palmi sono in totale.”
“Vuoi che ti scenda o cosa!”
Ridiamo entrambi, mentre, come bambini, battiamo il cruscotto come fosse un tamburo.
La strada si inerpica e le case diradano. Un’auto, LADA 1960, si immette sulla strada che stiamo percorrendo da una via secondaria…
“Ecco! Vedi!?”
“ Cosa!”
“Il tuo connazionale non ha usato la freccia.”
“Non sa guidare.”
“Lo vedo che non sa guidare, è evidente. Tu che hai fatto qualche lezione di guida sai quando si deve mettere la freccia?”
“Certo che lo so. La freccia si mette quando si svolta a destra o a sinistra e quando ci si immette su una strada principale da una secondaria.”
“Bravo!… Bravo, proprio come in questo caso. Peccato che poi tu non sappia tenere un volante in mano né tantomeno inserire una marcia… Lo sappiamo che non sai usare il pedale della frizione.”
Il ragazzo china il capo e perde il sorriso. (…)


Giudizio
Due brevi episodi raccontano con il gusto dell'aneddoto la vita di un italiano in Etiopia. Tra spunti comici e sprazzi di reportage ci vengono restituiti episodi al limite dell'assurdo in cui il vero protagonista è l’incontro tra due culture diverse ma conviventi. (Alessandra Carlini)


Biografia
Come nascono i racconti. «E sono io: F T, finalmente bambino a tergo lemmi e simulacri. A volte, è piacevole stare sopra le nuvole… Credimi: compie il senso del finito.
Il silenzio, l’ansia del non ritorno, l’azzurro increspato dai cirri immacolati; l’aria, che separa dall’umano e rende fosche le tinte dei laghi e dei boschi.
Un sussurro, un clamore: solo dentro di me. Lì fuori è tutto immobile… Respira piano.»



La perfezione cosmica e altri microracconti di Oreste Bonvicini (Casal Cermelli, AL)

Al crepuscolo…

“Non siate saggi più di quanto occorre, ovvero siate sobriamente saggi.” (San Paolo)
E se il passato, che grazie ad un particolare insignificante, ad un banale od inatteso evento, riemerge dalla notte del tempo suscitando il ricordo del giorno più bello vissuto in una città lontana, o di un’estate affrontando i ripidi pendii delle valli alpine che più volte cercammo con intelligenza di risuscitare dalla memoria e che durante una conversazione con amici con cui condividemmo quelle esperienze o la stessa passione ci scalda il cuore e l’anima infiamma, forse ritroveremo una luce che pensavamo sopita. Ma non sarà sufficiente per riscoprire l’intima essenza di quanto ci fece realmente innamorare. Di quei giorni nulla rimane ed i particolare che ci sforzeremo di rievocare non saranno che incompleti ricordi che la volontà ci impone di riportare alla luce.
Le conversazioni riservate dinanzi alla fiamma nel camino non disturbano la lettura. Talvolta, alzando gli occhi al baluginare della fiamma, come se un refolo di vento, calato giù dal camino, attirando verso l’alto la lingua rossa del fuoco, ridestano in noi la realtà ovvero lo scorrere ineluttabile del tempo che mai inganna.
In cielo il tramonto è già oltre l’orizzonte dove sussiste ancora un tratto di luce. La casa è accogliente, il tepore si leva dal braciere mentre la nostra mano stringe la copertina del libro in cui si immerge tra le pagine un dito, posto a mezzo di una descrizione che vorremmo rileggere ancora. Il giorno s’accheta mentre il tempo si consuma nelle abitudini.
Non c’è ora che non rimanga senza un suo sapere, un impegno, un dovere, un piccolo piacere, ma nel contempo non c’è ora in cui non ci paia di rivedere il cammino affrontato.
Il sonno che dipinge i sogni allegri o gli incubi colmi d’ansia che turbano il risveglio, cancellerà i pensieri quotidiani nascondendo per sempre il passato, recente o remoto, in un anfratto della mente da cui non sarà mai più razionalmente destato. E quando qualcosa sembrerà riemergere, sarà in seguito al contatto con una realtà simile al sogno, un involontario evento che apparentemente nega l’intelligenza e privilegia l’irrazionale. (…)


Giudizio
Una scrittura gradevole che accoglie riflessioni sul passare del tempo in grado di donare significati al divenire. (Caterina Camporesi)

Biografia
Oreste Bonvicini è nato ad Alessandria nel 1958. Risiede a Casal Cermelli (AL). Dice di sé: «Ho sempre volto barra alla scrittura, ma il tempo, durante la navigazione, ha visto errori di rotta, con il vento o la burrasca rimandarmi al largo o verso sconosciuti lidi. Ora, benché s’alternino lunghi periodi di bonaccia con l’illusione che patria sia l’ovunque, scorgo il tramonto che s’allunga mentre Itaca non è più la meta…»


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