1° Variazioni di stile di Giorgio Diaz, Firenze
Taccuino
Una sera di marzo,
all’ora di cena, seduto al tavolo di una trattoria all’interno di un circolo
ricreativo dove mi trovavo per partecipare a una contesa letteraria, notai al
tavolo accanto una giovane bionda, con il taglio dei capelli à la garçonne, il
cui marito si era momentaneamente recato al bagno, che mi fissava con una certa
insistenza con i suoi begli occhi cerulei.
Distolsi lo sguardo,
leggermente imbarazzato, e ordinai al cameriere la specialità della casa, uno
spezzatino di Thyrannosaurus Rex, che conservano da millenni in un enorme
frigorifero.
Ella si alzò e venne
verso di me, che a mia volta mi sollevai, incerto.
“Lei
è lo scrittore Tal dei tali, vero? Quello che scrive in uno strano miscuglio di
linguaggi. Vedo che è solo. Vuole unirsi al nostro tavolo?”
Accettai
con qualche impaccio e dissi al garzone di trasferire la mia apparecchiatura al
tavolo accanto.
Mi
presentò suo marito, sopraggiunto nel frattempo, e iniziò a interrogarmi sulla mia
attività letteraria.
Quando
portarono il vino, glielo offrii, ma lei rifiutò: “non bevo”; e lui aggiunse
con un risolino di compatimento: “è astemia”. Capii subito che non faceva per
me.
Lo
spezzatino era calloso e indigeribile.
Consumato
il pasto, ci trasferimmo nella sala attigua, per partecipare all’agone poetico,
cui entrambi eravamo iscritti.
Posai
con lei per una foto, quasi guancia a guancia.
(…)
Burino (post-romanesco intoscanato)
A’
bbella! Che me stai a sfrucullia’ coll’occhioni cerulei, ‘r guardo torbido?
‘Mmazzate oh, che effetto t’ho fatto, eh? A’ bbionda, vorrei sape’ chi t’ha
fatto quer taglio à la garçonne che pare ‘n catino all’incontrario. T’ho visto
sai che hai aspettato tu’ marito se dasse p’anna’ a piscia’ e poi m’hai
furminato coll’occhiata ‘ssassina. Penza te ch’ero ‘rivato a ‘sto circolo ‘n
incognito pe’ sta’ a vede ‘sta puttanata de concorso letterario ahò, e mo’ me
trovo soletto ar tavolo der ristorante co’ te che me stai a fa’ ‘r filo!
A’
smandracchiona, nun me riguarda’ così che me fai friccica’ le budella. Mo’ ciò
fame. “Ah coso! Vie’ qqua che te devo fa’ ‘n’ordinazzione. Che ciai a magna’?
Er menù è violento?”
“Ah,
ciai ‘no spezzatino di Thyrannosaurus Rex? ‘N frigorifero? Da ‘n millennio
all’artro? E portamelo vai, me voglio attripamme”.
A’
bbona! E’ t’ho vista, sai, di sottecchio, che me vieni a sfrucona’, mannaggia a
te, me tocca arzamme.
So’
io, so’ io, quer tale che scrive come je’ vie’ je’ vie’, so’ io che m’hai
guardato su internette. Me vòi ar tavolo? Co’ tu’ marito? S’incazzasse mica, eh?
Se
proprio ce tieni, ahò, me stai a fa’ la cascamorta, te darò soddisfazione.
“Garçon, attaccame a quer tavolino”.
‘R
tu’ marito? Piacere mio, che famo, se magna? E nun me sta’ a fa’ ‘sta’
manfrina! Ho letto di qui, ho letto di là, ma quanto se’ bravo. Ahò, se magna?
Cominciamo
a trinca’ er rosso. Ne vòi? Nooo, sei ‘stemia? ‘Nnamo bbene! Co’ te manco ‘n
giro de letto, pussa via, sa’!
Mannaggia,
quanto è tiglioso ‘r Thyrannosaurus! M’ha fatto mappazza co’ tutti que’ calli e
mo’ ciò le trippe arrivortate. ‘Nnamo ner saloon a sciroppacce ‘r culturame.
Manco
‘r premio de consolazione, ‘sti paraculi!
Vai,
famose ‘sta foto, ma nun t’appiccica’ che ce vedono!
(…)
Giudizi
Giudizi
Gioco divertente,
divertito, coinvolgente. (Roberto Battestini)
“Taccuino”, ovvero un breve racconto all’apparenza banale (lui che adocchia lei al tavolo di un ristorante), che diventa pirotecnico esercizio di lingua e di stile, dal francese al sapido vernacolo livornese al burino coatto, oppure in stile “dubbio amletico”, “lancio di un romanzo”, dark, ma anche alla maniera di Proust o di Joyce (“in simil Molly”), e come nel cinema di Truffaut. (Marcello Tosi)
Un brillante omaggio a Raymond Queneau che non manca di divertire, grazie alla padronanza dell'autore nel maneggiare e proporre i diversi stili. Un brano apparentemente scialbo acquista spessore narrativo grazie alla caratterizzazione del linguaggio. (Alessandra Carlini)
Dal momento della pubblicazione, i celebri Exercises di Queneau sono divenuti fonte di attrazione come di grattacapi per lettori di ogni genere. Il nostro pretendente supera con successo la prova. Dopo un eccellente disegno di partenza, la versione in lingua, forte di volontarie sbavature, chiama subito l’immaginazione al lavoro. Seguono alcuni episodi riconducibili a varie zone del nostro stivale, testimoni di come svariate parlate si annidino dietro la lingua italiana al singolare intesa. Sfogliando ancora si troveranno versioni per ogni umore e gusto, e l’accostamento scuro/rosato non mancherà di destare una ripagata attenzione. (Fabio Cecchi)
“Taccuino”, ovvero un breve racconto all’apparenza banale (lui che adocchia lei al tavolo di un ristorante), che diventa pirotecnico esercizio di lingua e di stile, dal francese al sapido vernacolo livornese al burino coatto, oppure in stile “dubbio amletico”, “lancio di un romanzo”, dark, ma anche alla maniera di Proust o di Joyce (“in simil Molly”), e come nel cinema di Truffaut. (Marcello Tosi)
Un brillante omaggio a Raymond Queneau che non manca di divertire, grazie alla padronanza dell'autore nel maneggiare e proporre i diversi stili. Un brano apparentemente scialbo acquista spessore narrativo grazie alla caratterizzazione del linguaggio. (Alessandra Carlini)
Dal momento della pubblicazione, i celebri Exercises di Queneau sono divenuti fonte di attrazione come di grattacapi per lettori di ogni genere. Il nostro pretendente supera con successo la prova. Dopo un eccellente disegno di partenza, la versione in lingua, forte di volontarie sbavature, chiama subito l’immaginazione al lavoro. Seguono alcuni episodi riconducibili a varie zone del nostro stivale, testimoni di come svariate parlate si annidino dietro la lingua italiana al singolare intesa. Sfogliando ancora si troveranno versioni per ogni umore e gusto, e l’accostamento scuro/rosato non mancherà di destare una ripagata attenzione. (Fabio Cecchi)
Biografia
2° ex aequo Il vestitino rosso di Giovanni Carullo, Avellino
Che cosa cerchi di
bruciare nel fumo di questa sigaretta, Nives? Che non è nemmeno la prima e
ancora non è sorto il sole. Che cosa è che ti agita le notti e ti spinge fuori
dal letto e poi in terrazza, anche quando è inverno, perchè dentro ti manca
l'aria e senti come una morsa che ti serra il collo? È sempre la solita
domanda, non è vero, Nives? Gli anni passano, il grigio del fumo che espiri
oramai si confonde a quello dei capelli, li stiri con le dita e mentre lo fai,
adesso come sempre, ti accorgi e ti meravigli finanche delle macchie sulla
pelle. Nulla cambia. Le stelle brillano, ogni volta puntuali al loro posto,
sembra nuovo solo il rumore delle macchine per strada, han cambiato i camion
per la raccolta, finalmente sono meno rumorosi. Il custode del ministero,
invece è sempre lo stesso, pensi che ormai gli mancherà poco alla pensione,
puntuale da trent'anni spalanca le finestre.
Mentre soffi nell'aria un'altra
boccata di fumo, ti domandi se sia proprio vero che sei rimasta viva per tutto
il tempo e perché finora niente sia servito a lenire le ferite e allora avverti
come sempre tutto intero il puzzo dei ricordi, risale dalla punta dei tuoi
piedi, ti infiamma le narici, corri a spegnere la cicca e vai a lavarti, come
fai da sessant'anni, che l'acqua fresca, per un momento, almeno per un momento
solo, blocchi il flusso dei pensieri.
È il quattordici settembre, Nives, lo
sapevi ma te lo ricorda il giornale radio, cambi in fretta la stazione, oggi
non hai voglia di notizie e notiziari, e neppure delle previsioni, che il tempo
sia bello, come sessant'anni fa, te lo ha già detto l'alba. Metti un po' di
musica, non trovi quella buona, e allora spegni tutto, lasci che sia lo
scroscio d'acqua a far da sottofondo ai tuoi pensieri, e poggi la fronte sul
palmo delle mani, i gomiti sulle ginocchia, mentre di fronte al muro scorrono
le immagini di un film. Regoli lo scroscio, allora, e chiudi gli occhi, è lo
stesso film che rivedi da sessant'anni, neanche i colori sono cambiati mai, e
neppure sfumano, non si sgrana la pellicola, risenti le voci, e respiri odori e
rumori, li riconosci uno per uno, solo il rosso a volte fuoriesce dallo
schermo, ma non è il colore delle piastrelle del bagno, è, per adesso, e
soltanto all'inizio, il colore del tuo vestitino.
L'avevi indossata di fretta
e furia, tua madre era venuta a svegliarti perchè era quasi un'ora che tuo
padre ti chiamava dalla strada. Sentivi le grida dei venditori dalla strada,
era giorno di mercato, neanche il tempo di affacciarti alla finestra: – Nives,
ma quanto tempo debbo aspettare? - aveva urlato tuo padre, mentre col grembiule
bianco si asciugava la fronte dal sudore, facendosi spazio tra la folla
vociante che contrattava l'acquisto di un sacco di ceci o di fagioli secchi.
Un
balzo ed eri giù, che dalla finestra si faceva prima, e non importa che tuo
padre ogni volta ti urlasse di usar le scale, perché avevi appena quattordici
anni, e ti sentivi agile come un gatto.
- Sono quasi le undici, devi fare una
corsa da Ottavio - aveva detto tuo padre, mentre insieme rientravate
nell'osteria - sono finiti i tartufi, stamattina lui ritorna da Bagnoli, ne
avrà portato di sicuro.
Ci sarebbe stata tanta gente per pranzo in quel giorno
di mercato, venditori e avventori, e tutti quelli che scendevano dalle contrade
e dai paesi per il mercato di Avellino. La pasta ai tartufi era uno dei piatti
più richiesti, tu lo sapevi, Nives, ma non ti spiegavi che cosa ci fosse di
speciale in quell'odore. Eppure la taverna era sempre piena il martedì, era
l'unica osteria sulla piazza del mercato, e a te piaceva girare per i tavoli, e
servire i pasti, qualcuno ti lasciava una moneta di mancia, ma mai l'avevi
tenuta per te, aprivi il cassetto e l'aggiungevi all'incasso, eppure non lo
dicevi mai a tuo padre, chissà poi perché.
Avevi sorriso all'idea di poter
andare a casa di Ottavio. (…)
Giudizi
L’autore è un autentico talento sia nelle trame che
nella forma, anche se quest’ultima presenta qualche vezzo da scuola di
scrittura. (Roberto Battestini)
Sono rimasta conquistata dal come nella
brevita del racconto abbiano preso corpo le figure di donna di questi racconti.
Forza e fragilità che si incontrano e si scontrano dando vita a personaggi
intensi e drammatici. (Simona Mulazzani)
Biografia
Giovanni Carullo è nato ad Avellino circa quarantottoanni
fa. Sposato, due figli e sei cani. Laureato in sociologia, allevatore di
terranova. Lavora per mangiare e scrive per passione. Ogni tanto gli si accende
dentro il fuoco della scrittura e allora lascia che le fiamme divorino(!) la
sua anima e si riversino sulla pagina bianca di un foglio di carta o di un
documento word. Mai che la scrittura bruci anche qualche grasso, però. Ma lui
non dispera. È sempre grato a quanti hanno apprezzato i suoi lavori, mai
nessuno però gli ha proposto pubblicazioni senza chiedergli contributi. Ha
partecipato al Laboratorio di Scrittura Creativa della scrittrice Antonella
Cilento a Napoli. Tra i premi per la narrativa: 1° (con il racconto breve
Piacere Marcello) al concorso Hi-tech
2002 sul sito www.dillo.it ; 1° al Kriterion 2003; 3° al Kriterion 2004;
2° al Kriterion 2011; 5° al premio internazionale Margherita Yourcenar 2004; 6°
al premio internazionale Angela Starace 2004; finalista al Città di
Empoli – Domenico Rea 2004; 3° (con il racconto La mascella serrata) al concorso L'Inedito 2003. Suoi racconti sono
stati pubblicati sulla rivista “Il Segnalibro”, sul sito www.leggendoscrivendo.it
, nonché nella raccolta Premio di Rapolano 2004. Ha vinto il premio Energheia
2007 (Matera) miglior testo per la realizzazione di un cortometraggio. Ha
pubblicato con Prospettiva Editrice la sua tesi di laurea: Il successo delle Barbie Islamiche. Il racconto lungo La Bocca del Dragone è pubblicato su ilmiolibro.kataweb.it
2° ex aequo La vita di Bartolomeo di Marcello Zane, Gavardo (BS)
Quando gli si rivolgeva il saluto, lui si fermava stupito. Pareva sbalordito, quasi sconcertato a volte. Sorpreso e meravigliato: così si potrebbe assentire se in paese non lo conoscessero tutti per questa sua indole chiusa e lontana da smancerie e civettuole sapienze di galateo, panciafichista ed irenico nella disposizione d’animo ombrosa che costituiva del resto la caratteristica di famiglia, trasmessa di generazione in generazione, mendelianamente capricciosa come fosse un gene, oppure tabe, fattore ereditario ineliminabile di estri e di paturnie.
2° ex aequo La vita di Bartolomeo di Marcello Zane, Gavardo (BS)
Quando gli si rivolgeva il saluto, lui si fermava stupito. Pareva sbalordito, quasi sconcertato a volte. Sorpreso e meravigliato: così si potrebbe assentire se in paese non lo conoscessero tutti per questa sua indole chiusa e lontana da smancerie e civettuole sapienze di galateo, panciafichista ed irenico nella disposizione d’animo ombrosa che costituiva del resto la caratteristica di famiglia, trasmessa di generazione in generazione, mendelianamente capricciosa come fosse un gene, oppure tabe, fattore ereditario ineliminabile di estri e di paturnie.
Con un gesto antico,
mutuato dal nonno che si dice avesse allo stesso modo additato ai coscritti di
Napoleone la strada per sfuggire alla tenaglia stesa dai nivei soldati
d’Asburgo ricavandone furbescamente uno zecchino d’oro, si levava
istantaneamente il cappello, tenendolo per un attimo sospeso a mezz’aria, quasi
per evitare di arroccarsi nelle beghe, di affrontare stralunate temerarietà
della disperazione, di reprimere soprassalti di ambizioni e adocchiamenti di
sfoghi, per scansare il convulso dimenare di caparbietà e di mene a soverchiare
supremi azzardi di rivalsa, o per eludere al meglio impuntature di carattere,
estri subitanei, influssi saturnini o pituitosi umori.
Il vecchio feltro, di
un grigio sbiadito e consunto, restava lì, quasi fosse un coperchio che si
solleva sulla pentola in ebollizione, sbalzato dalla crescente pressione quel
poco che bastava per far fuoriuscire il fumante vapore e tornare quindi,
esaurita la spinta, nell’originaria posizione. Il volto segaligno, solcato da
rughe oblunghe ed estese, si distendeva allora per pochi attimi, per poi
tornare a riprendere l’increspata trama intessuta dal tempo, così come si
appiana un foglio incartapecorito nelle mani di un sapiente paleografo che, una
volta decifrato il contenuto, lo rilascia libero di ritornare avviluppato e
compreso nelle medesime pieghe della storia. Un sorriso e via, senza aprire
bocca, senza dare aria al ganglio rovente o al rovello psichico dei propri,
indecifrabili ai più, pensieri. Impossibile riscontrare a fior di labbra un
cenno. Una virgola di bello spirito. Un punto nel quale gli sguardi si
potessero incontrare. Una luce di robustezza o financo di ostinazione, di
ardenza o di vigore salutare.
Né un disbrigliarsi di
sentimenti.
Si chiamava
Bartolomeo.
Per la verità il
padre, quel giorno di carnevale in cui venne al mondo, forse un poco brillo
dopo una notte di lunghe bevute, sostenute senza dubbio alcuno per superare
l’emozione dell’arrivo del primo, a lungo desiderato figlio, e complice il poco
desto e ancor meno acuto impiegato dell’anagrafe, lo aveva iscritto ai registri
dell’esistenza formalmente certificata da marche da bollo e controfirme con una
sequela di nomi che nessuno aveva mai pensato, sino ad allora, di affibbiare ai
propri figli (temendone certamente l’esacerbata critica per il resto degli
anni).
L’impiegato era anch’esso reduce dal carnevale del paese e ancora in preda ad un’eccitazione di umore bacchico, e non fece obiezione a quella richiesta giudicabile senza dubbio un poco eccentrica e bislacca. Non saprei ben dire, ma ho l’impressione che con la sua dipartita – del commesso d’anagrafe dico, quello che non trovò da ridire su di una così stravagante, desueta e capricciosa istanza – e senza quei suoi baffetti giornalmente impomatati con neri intrugli a far capolino sotto la maschera, siano definitivamente scomparsi anche i carnevali, quei carnevali di una volta e alla buona, con un paio di balli e fruscìo di stelle filanti, i coriandoli d’arcobaleno sugli scialletti delle ragazze di ritorno dai Vespri, quattro giovanotti vestiti da donna e le mele caramellate come empireo, ciarle in cimberli e ceffi spiritati nello spalancarsi di bettole e osterie. (…)
L’impiegato era anch’esso reduce dal carnevale del paese e ancora in preda ad un’eccitazione di umore bacchico, e non fece obiezione a quella richiesta giudicabile senza dubbio un poco eccentrica e bislacca. Non saprei ben dire, ma ho l’impressione che con la sua dipartita – del commesso d’anagrafe dico, quello che non trovò da ridire su di una così stravagante, desueta e capricciosa istanza – e senza quei suoi baffetti giornalmente impomatati con neri intrugli a far capolino sotto la maschera, siano definitivamente scomparsi anche i carnevali, quei carnevali di una volta e alla buona, con un paio di balli e fruscìo di stelle filanti, i coriandoli d’arcobaleno sugli scialletti delle ragazze di ritorno dai Vespri, quattro giovanotti vestiti da donna e le mele caramellate come empireo, ciarle in cimberli e ceffi spiritati nello spalancarsi di bettole e osterie. (…)
Giudizi
Umori gaddiani
strabordanti di “ardore istintivo per la vita”, ricchi di stratificazioni
linguistiche che disegnano il ritratto, il mondo del protagonista, fin dalla
contrastata scelta anagrafica, così come “le sue impuntature di carattere,
estri subitanei, influssi saturnini o pituitosi umori”, nelle interminabili
logorree mentali “ricorrendo a vocaboli corrosivi e a concetti astrusi
d’onnifrugante densità”. (Marcello Tosi)
Notevoli sono le
capacità dimostrate dall’autore in questione. La narrazione incede di buon
ritmo ed offre ricorrentemente una terminologia alla portata di pochi eletti.
Nel bene e nel male, un’impostazione alla Hugo, ossia un’anticentrazione che
nel delineare origini-vissuto-miracoli dei personaggi fa scaturire ogni
possibile sfumatura dalla tavola pittorica. Per contro, una full immersion in
tale opulenza può pregiudicare una sciolta lettura. Si rimane comunque tentati
di catapultarsi dove descritto, partire in esplorazione ringraziando
Bartolomeo, uomo di altre zone ed altri tempi, dai vari e suggestionanti nomi.
(Fabio Cecchi)
Mi ha commosso. Un uomo sconfitto che nell'incontro con una nuova vita
ritrova se stesso. Una scrittura ricercata, ma non artificiosa, che ha
saputo trasmettermi l'intensità del progetto narrativo. (SimonaMulazzani)
Biografia
Biografia
Bresciano
(valligiano) over 50, dopo aver svolto attività di ricerca post laurea presso
la Fondaçao Blumenau (Stato di Santa Caterina, Brasile) grazie ad una borsa di
studio elargita dalla stessa, e ottenuto un collocamento presso l’Università
Autonoma De Madrid (Spagna) grazie al programma Europeo Leonardo, Marcello Zane ha imparato due o
tre cose sulla salinità del sentimento e la sapidità delle relazioni, restando,
per dirla con il protagonista del racconto, panciafichista ed irenico nella
disposizione d’animo. Nonostante abbia collaborato a vari uffici stampa
pubblici e di grandi aziende, scriva libri di carattere storico economico e
faccia parte di varie fondazioni culturali e comitati museali, insegni
comunicazione in una università, sia socio di una micro casa editrice, trovo
fortunatamente il tempo per… scrivere: naturalmente di quel che lega i sogni
agli uomini, le speranze alle evenienze ed ogni briccica all’eternità.
3° ex aequo Meteo di Paolo Giammarroni, Fara Sabina (RI)
Nel tempo che non esisteva ancora il Meteo, le
stagioni bastavano.
C’erano le stagioni piene e quelle mezze. Tutte ben
riconoscibili. Quel silenzioso di nonno Pietro sapeva andare più in là, come un
prodiere faccia al vento, a leggere le increspature e le zone piatte. Lui
leggeva le nuvole, che è come dire la sostanza dell’aria: la nube spuma gigante
o le striscioline immobili, quelle nere da affossare la luce del giorno o le
più veloci a disfarsi e a far rimbalzare i tramonti.
Secondo lui, il nonno, era naturale fare la
previsione, che però non si chiamava così a quel tempo, ma “mi sa tanto che…”.
E il telone copriva in fretta i covoni, le bestie trovavano il loro posto
sicuro, oppure si cercavano gli amici per fare domani il lavoretto rimandato.
Con quella perizia, mai insegnata a voce ed imparata
con gli occhi, si poteva anche sbagliare. Nessuno rimproverava nessuno: il
tempo aveva diritto di fare i capricci. Lo faremo domani… Era bello scoprire
poi che – stranamente - il tempo era stato più bello del previsto.
Nel tempo che qualcuno di noi si sentì stretto dentro
la nostra misura e trovò dei finanziatori, venne voglia di possedere mappe del
cielo. Un anticipo di Meteo.
I progetti di nuove spedizioni venivano discussi su
avvolgenti poltrone di morbida pelle rossa. Da cassette di legno pregiato,
spuntavano sigari dalle dimensioni imbarazzanti, garantiti da provenienza
caraibica. Nelle taverne la punta di altre foglie rinsecchite attorno a miscele
nefande veniva divelta da gialli canini e scatarrata a debita distanza: non
qui, nell’ampio salotto, dove la regola richiedeva l’apposita taglierina stile
Robespierre, prima di una adeguata masticata tra le labbra carnose e l’accensione
di un interminabile prospero.
Era titolo di nobiltà avvolgere di quel tabacco
coloniale le pesanti tende a far da scudo ai fragili infissi d’epoca.
Apparivano dai rotoli di cartone le nuove edizioni,
fresche di pennino in vari colori. Dai diari del precedente comandante o
avventuriero, ci si era affrettati ad apportare correzioni e annotazioni. A
colpo d’occhio spiccavano corsi d’acqua più eterei o densi, se necessario con
freccine direzionali, infilati spesso tra due coriandoli marroni da cui potersi
affacciare nella gola. Macchie in verde pastello allagavano la carta ad
indicare almeno la presenza arborea, ciuffi resistenti al vento, o prezioso
alimento per greggi non bisognevoli di recinti. Era però il verde scuro e
l’assenza di nomenclatura a far arricciare i baffi e riscaldare la discussione.
(…)
Giudizio
Racconti ambientati in un futuro non troppo lontano. Come spesso accade
nelle narrazioni fantascientifiche, l'inquietudine e la drammaticità delle
storie prende spunto dal nostro presente, mostrandocene gli elementi
potenzialmente negativi. (Alessandra Carlini)
Biografia
Paolo Giammarroni, nato a Roma nel
1951, è d’origini umbre e sabino per scelta. Giornalista economico, consulente
in comunicazione, ha creato il “Laboratorio di scrittura funzionale o di
servizio”. Dopo vari libri di saggistica, si sta dedicando alla forma breve:
racconti, haiku, romanzi brevi, oltre che canzoni e musiche di scena. Ha
tradotto Valery, Thich Nhat Hahn, Buarque de Hollanda. Per Rai International ha
curato sceneggiature di personaggi come Fallaci, Modugno, Stratos.
3° ex aequo La colpa di Kafka e altri racconti di Roberto Morpurgo, Bulgarograsso (CO)
Dicono che Franz Kafka soffrisse l’arcano delirio
della megalomania, a stento soffocato dalla pur geniale museruola della
bombetta, e che il subdolo pretesto della costrizione spirituale lo inducesse a
spacciare in pensieri il cinismo con cui invidiava la salute degli eroi.
Rispondono che così dicendo sia non solo consegnata la
sua persona alla dubbia custodia della leggenda, ma sia inoltre esposta allo
scherno la sua malattia, risaputa almeno quanto il suo temperamento sobrio e
schivo e - ancora rispondono - forse anche sentimentale.
Dicono che Franz Kafka giocasse nel segreto di un
letto poco e male illuminato con le sacre vestigia di antiche parole, dalla sua
mano indecentemente tramutate in caricature, o anche in burattini, affermano
infatti che fra le sue dita indegne ogni cosa, specie se nobile, alta,
distratta, diviene sensazionale, comune, furtiva e pavida. Aggiungono di non
trovarsi in una cattiva disposizione d’animo quando dicono che un suo eventuale
processo – parola che adottano per mera ironia –metterebbe addirittura in
ridicolo la figura del testimone, e chiunque si trovasse nel caso di sopportare
queste responsabilità ne verrebbe distolto dall’indole peregrina dell’imputato,
canzonatoria e astrusa, insinuano, come quella di un clown. Diffidano chiunque
dall’eventuale ambizione di interpretare le loro parole come un atto di accusa,
e anzi dignitosamente domandano che sia invece considerata la seguente
circostanza: nessun medico può farsi giudice o accusatore di un proprio
paziente, e quando, per ragioni che per il momento non ritengono di dover
specificare, si trova nella necessità di produrre un giudizio, affida a un
segretario l’ambigua mansione, che non avrà infine altro effetto se non quello
di consegnare il reo alle maldestre cure della Leggenda.
Rispondono che così
facendo non solo sia consegnata la sua persona al sacrilego esame della
diffidenza, ma sia inoltre esposta al dileggio, allo scherno, al ludibrio e
persino al malinteso la natura terrena del suo stesso testamento; e con ciò
pregano che sia il frutto della pazienza e della cautela, e non invece
l’astuzia di un inventore, a illuminare nel tempo il significato ancora oscuro
di ciò che hanno chiamato testamento, quasi, a loro dire, una testimonianza
indiretta – tanto più pura, tengono a rammentare, del suo stato di salute. (…)
Giudizio
La scrittura, raffinata
sospesa fra sogno e realtà, appassiona e coinvolge il pensiero di chi legge. (Caterina Camporesi)
Biografia
Laureato in filosofia, Roberto Morpurgo scrive poesie, aforismi, saggi, racconti, soggetti
cinematografici, pièces teatrali. Ha pubblicato in volume L’azzurro del mare (poesie, Joker) Pregiudizi della libertà I (aforismi, Joker), El Djablo (racconti, Puntoacapo, 2009). Ha diretto per la scena e
per la radio i suoi atti unici Tubor e
L’Autoritratto. Per Schegge d’Autore
(RM) e per La corte della Formica (NA) ha curato nel 2008 la messinscena e la
regia del suo monologo L’Isola;
sempre al teatro Tordinona di Roma ha poi allestito e diretto le sue pièces Bogey (2009), L’Appello (2010), Pioggerellina
nella stanza (2011), L’Intervista
(2012). Altre sue pièces sono andate in scena a Roma a cura della compagnia
Gnut. Dirige per Puntoacapo la collana di teatro Il
Porcospino. Ha vinto il concorso La vita in prosa 2012 con il racconto Muette. Imminente la pubblicazione in
volume de L’Autoritratto per i tipi
di Falsopiano di Alessandria.
Opere segnalate con pubblicazione di
estratti e giudizi in questo blog
Avanti sputa il rospo. Sputai
una rana e altri racconti di Lucia Grassiccia (Milano)
Chiuso in casa da undici giorni, nessuno mi cerca. Non
alla porta (a dire il vero non posso saperlo), qualche telefonata sì, però. A
cui non rispondo perché il telefono è staccato o lascio che squilli. Il più del
tempo lo trascorro sdraiato sul letto, comodo. Non credevo di potermi sentire a
mio agio per tutte queste ore di seguito fra le lenzuola, è un’autentica
rivelazione. Mi sorprende perché non ricordo di essere mai rimasto a letto
tanto a lungo – in assenza di malattie – la mia ipotesi precedente era che mi
avrebbe stufato.
Il primo giorno è riempito quasi completamente di
sonno. A distanza di ore mi sveglio e mi alzo solo per andare in bagno, tre
volte. In una di queste approfitto del fatto di essere in piedi per mangiare
uno yogurt e delle fragole, non particolarmente dolci come rosso il loro
aspetto. Forse è in quell’intervallo dai sonni e dai sogni che mi domando se la
notte dopo avrò ancora voglia di dormire. Tuttavia non è proprio voglia il
concetto, direi più riserve. Se c’è ancora del sonno da qualche parte di cui
possa usufruire. Prima di pormi la questione con serietà, torno a letto, a
faccia in giù. E dormo ancora. La notte successiva, con mia sorpresa, continuo
a dormire, nonostante la difficoltà di trovare ritagli freschi dove poggiare.
Un paio di volte mi ritrovo con gli occhi aperti e rimango sveglio per diversi
minuti. Mi mantengo aderente al materasso, a guardare le profondità del buio
davanti a me. Sto bene, riposato. Svuotato. Evito di pormi domande, non
potrebbero essere più attraenti della mia inattività, in questo momento. Costa
fatica evitare di pensare una volta svegli.
Nelle ore diurne il sole, che proietta linee sfumate
dalle tapparelle delle imposte basse, è l’unico vero ricordo del mondo esterno.
Il terzo giorno compio lo sforzo di fare una doccia e
cambiare maglietta e mutande, anche se dopo non mi sento granché rinnovato come
succede talvolta uscendo dall’acqua calda. Solo meno appiccicoso, lavato e
accudito nel mio voluminoso accappatoio. Senza lasciare il letto, camminandoci
qualche volta sopra, sdraiandomi sulla pancia a piedi alti, leggo a lungo da
libri e riviste sparsi in vari angoli della camera. Di rado mi sposto sul
tappeto. Un po’ di questa roba stampata si trova nella mia stanza da mesi o
anni e non l’ho mai sfogliata. Adesso sono dell’umore giusto, sento quasi il
dovere di farlo, come se non potessi attendere occasione migliore.
Contrariamente alle mie abitudini, leggo senza ordine, apro a casaccio le
pagine. Perché mi sento curioso, dopo una valanga di curiosità sopita. E alle
volte gli inizi non soddisfano accuratamente l’impellenza. Fra una lettura e
l’altra improvviso brevi dialoghi con me stesso, non più di tre o quattro
battute solo pensate, al termine delle quali mi chiedo Credi di venir fuori da
una sceneggiatura di Tarantino?, ma non rispondo. All’interno di alcuni
momenti, ma solo alcuni, sento come una perdita di significato in quel che
faccio o sto per fare. Traccio con le pupille un semicerchio come se volessi
divertire un bambino con cui stessi parlando, anche se davanti a me non c’è
alcun bambino, ma forse ce n’è uno dietro. Queste carenze di senso si
presentano quando ricordo che non c’è nessuno che si aspetti che io faccia cose
come quelle che sto facendo, me incluso. Poi smetto di ricordarlo e tutto il
significato si adagia nuovamente sulle parole, sulle copertine così
diversificate di libri dischi e cose così. Su tutti quei rettangoli sovente
rispettosi della sezione aurea, chiusi, aperti, maltrattati, sopravvalutati.
Che osservati nel loro mero aspetto sono figure geometriche spurie. (…)
Giudizio
Stile elegante e preciso,
coerente con ogni brano proposto. (Roberto Battestini)
Biografia
Lucia
Grassiccia dice di sé: «Da tutti gli anni che ho, mi sfamo di
letture e mi disseto di scritture. Nei più recenti ho studiato arteterapia
clinica a Milano, prossima alla tesi. Ma la mia terra è la Sicilia, e Modica la
città che nel 1986 mi riversò sul mondo. Collaboro ad Artribune per
interrogarmi e interrogare sull’arte (www.artribune.com/author/lucia-grassiccia/).
Non credo nei pettini.»
Non voglio lasciarti… Ci prendiamo una pausa? Racconti per aiutarti
a prendere tempo di Anna de
Castiglione (Milano)
"QUALCOSA" DI MISTERIOSO IN VIA TERTULLIANO
N. 32
Nella modesta sala di un modesto monolocale in via
Tertulliano n. 32, a Milano, 11 persone si guardavano l'un l'altro: chi con
curiosità, chi con insofferenza. Ma negli occhi di tutti chiunque avrebbe
letto, con assoluta chiarezza, un'identica domanda: perché siamo qui?
Esattamente un mese prima, 148 persone, tra loro molto
diverse per età, ceto sociale e professione, erano state raggiunte da uno
stesso invito, scritto a mano in elegante corsivo, su carta da lettera color
avorio:
Cara/o Xxxxx,
Lunedì 14 marzo alle 17.00 ti aspetto a
casa mia, in via Tertulliano al n. 32, primo piano, per un'importante
comunicazione; si tratta di una sorta di confessione-rilevazione che non posso
più tenere solo per me. Con l'affetto di sempre,
Maestra Paola
112 delle 248 persone contattate stracciarono l'invito
pensando ad un errore; 124, dopo più o meno lungo meditare conclusero di avere
qualcosa di meglio da fare e solo le restanti 12, ancora non sapevano dire con
esattezza perchè, decisero di accettare l'invito.
L'attesa non fu piu lunga dello stretto necessario;
alle 17:10 l'ormai ottantenne Signora Paola entrò in sala e ruppe il silenzio.
I suoi movimenti erano lenti e la voce era malferma,
ma nei suoi occhi azzurri, avvolti da una ragnatela di rughe sottili, brillava
ancora la Vita e tutte le sue lucine.
"Miei cari ragazzi, vi ringrazio di aver aver
accettato l'invito e di essere qui."
Fu in quel momento che suonò alla porta il dott.
Bernardo Bianchini, odontoiatra; trent'anni prima, il dott. Bianchini era conosciuto
da tutti come Bernardo-il-tardo. Oggi nessuno ricordava più quel suo
soprannome, ma la Signora Paola non lo aveva mai dimenticato: sorrise, come se
lo aspettasse, e gli lasciò il tempo di prendere posto nell'ultima seggiola
rimasta vuota. Poi continuò: "Quello che sto per dirvi non vi piacerà; e,
dopo che lo avrete sentito, probabilmente rimpiangerete di avere accettato il
mio invito; perciò...siete ancora in tempo, la porta è aperta, potete
andarvene. Io, invece, non voglio lasciare questo mondo, lasciando voi
all'oscuro. Ora non ho più nulla da perdere e sono arrivata al momento più
difficile della vita: quello in cui si deve dire la Verità e riconoscere i
propri errori".
Il silenzio sembrò cambiare consistenza; divenne
appuntito e duro, ma nessuno accennò ad alzarsi. (…)
Giudizio
Giunge sempre il momento nel quale qualcosa prende corpo: è la
verità del cuore. Scrittura agile e coinvolgente. (Caterina Camporesi)
Biografia
Anna de Castiglione dice di sé:
«Alle volte l'interesse che suscita la biografia di un autore è inversamente
proporzionale all'interesse che suscitano i suoi racconti. Purtroppo, credo che
questo sia proprio il mio caso. Però, scrivendo, ho scoperto una parte di me
che nemmeno sapevo di avere, la migliore. E l'ho messa tutta lì, solo nei miei
racconti. Poiché è inevitabile che ogni cosa abbia un inizio… ho scritto il mio
primo racconto nel 2001 (secondo al premio Marguerite Yourcenar); poiché non è
detto che ogni cosa abbia una fine, spero che i miei racconti non finiscano
mai.»
Doppio passo di Elisabetta Segna (Roma)
In certi momenti ho
l’impressione di essere, io, qualcosa di terribilmente inferiore. Mi tocca
digerire un’intera vita piena di errori e di stupidità. D’altra parte i
sentimenti d’inferiorità sono simmetrici alla potenza. Voler essere migliore o
più intelligente di quanto si è, anche questo è segno di potenza, essere quel
che si è non è facile: occorre prima di tutto imparare a sopportare se stessi,
a perdonarsi per carità cristiana i peccati propri. Tutto questo è
spaventosamente difficile… (Carl Gustav Jung)
Il traghetto, in quell’isola passava una volta alla
settimana e, se il mare non era buono, anche più raramente. Non aveva fretta,
due mesi circa la separavano ancora dal momento in cui avrebbe dovuto
trasferirsi per alcuni anni in quella città dal nome impronunciabile e di cui,
fino a poche settimane prima, ignorava l’esistenza. Ma ancora adesso, seduta
sul ponte del traghetto, sentiva la frenesia e l’agitazione che l’avevano
accompagnata nell’ultimo periodo. Era consapevole che avrebbe dovuto avere ancora un po’ di pazienza e che
nel giro di pochi giorni avrebbe ritrovato la calma “necessaria”.
“L’appartamento è pieno di sole e, se vuole stare
fuori, per lavorare, ha un piccolo giardino con una bella magnolia che fiorirà
proprio nel periodo in cui lei sarà nostra ospite” le disse Giulia, la
proprietaria.
Il suo desiderio era stato esaudito, l’appartamento
era carino, una camera grande con un lettone di legno e un paio di piccoli
tavoli, 2 sedie, uno specchio con la cornice di legno, abbastanza grande da
potersi vedere per intero, le pareti bianche e spoglie, come tutto il resto
della casa, un bianco caldo, riposante, rassicurante, libero. Quei muri erano
tutti per lei, per i suoi foglietti, le sue foto e tutto quello che avrebbe
voluto vederci.
La cucina aveva una finestra grande quanto la parete
ed è lì che avrebbe potuto stare nelle giornate di vento che soffiava spesso
sull’isola e in cui, le avevano detto, era difficile anche camminare. Non c’era
un armadio nella camera da letto, ma una rientranza nel muro con un bastone per
appendere le stampelle con i vestiti e delle mensole. “Meglio così – pensò – i
colori dei miei vestiti rallegreranno la stanza”. Si era portata dietro
molte cose che “parlavano” di lei,
della sua vita vissuta fino a quel giorno foto, lettere, cartoline, diari e i
suoi confusi e radi ricordi.
Andò subito a dormire, la partenza era stata un po’
affannosa e il viaggio movimentato, era stanca e le lenzuola di lino candido la
accolsero come un abbraccio fresco.
Fu la voce di Giulia, che stava curva sui suoi fiori,
la prima cosa che udì affacciandosi alla finestra.
“Fa colazione con noi signorina?”
Il risveglio, quel primo giorno sull’isola, non fu
piacevole: il letto nuovo, la luce che aveva invaso la stanza prestissimo e i
pochi, ma nuovi rumori, l’avevano infastidita. Era sempre così quando non dormiva nel suo letto, ma
sapeva anche che in due o tre giorni si sarebbe abituata. Aveva dormito fino
alle 8 e ormai era tardi per fare la spesa non aveva voglia di andare al bar e
poi le faceva piacere parlare con i padroni della casa, sapere un po’ di più di
quell’isola.
“Faccio la doccia e arrivo, grazie.”
“I figli sono andati via a lavorare all’estero, ci hanno
chiesto di raggiungerli, ma noi stiamo bene qui. Adesso, in primavera, è
il periodo più bello perché si esce quasi tutti i giorni a pesca, si pianta un
po’ di orto e la sera l’odore del mare
entra in casa.” (…)
Giudizio
Un viaggio nella memoria e nelle origini di una vita raccontato con
dolcezza e intensità. Interlocutori veri? solo nella mente? non importa,
l'esseniziale e rincontrare se stessi. (Simona Mulazzani)
Biografia
Elisabetta Segna
dice di sé: «Sono nata nel 1956. Mi è capitato di cambiare spesso lavoro, case
e città. Ho un diploma di liceo classico, 1 di maestra d’asilo e 1 di
documentalista. Tra i vari lavori che ho fatto per mantenermi (sono
andata a vivere da sola a 20 anni) ci sono: contadina, gestrice di una
crêperie, venditrice di cose varie (libri, pentole, ecc.), documentalista di
audiovisivi presso enti e/o fondazioni. Attualmente sono operatrice di
biblioteca e mi occupo in particolare delle attività culturali e promozione
della lettura. Vivo con un marito, un figlio adolescente e una gatta. Amo
leggere, scrivere, camminare, ascoltare le storie delle persone e vorrei avere
più tempo per fare tutto questo. Un mio breve racconto è stato
selezionato e pubblicato nella raccolta della Banca della memoria “Io mi
ricordo” Einaudi, 2009.
Sognantìco di Franca Oberti (Calco, LC)
Il Vento. La faceva da padrone, il vento, tra i cunei delle
due valli e i boschi dimenticati. Si inseriva di prepotenza in ogni angolo dei
monti fino a scompigliare i più esili fili d’erba, quell’erba che forse aveva
origini tanto lontane, trasportata da quello stesso vento. Scrollava con rabbia
le corolle di fiori e disseminava petali e polline, fecondando ogni più piccolo
e remoto anfratto. Lo conoscevano bene gli abitanti di Sognantìco, che spesso
si erano trovati essi stessi in balia della sua furia. Si potevano sigillare le
finestre e le imposte, ma il suono penetrava ovunque e raccontava storie
antiche. Per qualche attimo cessava all’improvviso, e il silenzio calava dai
monti come un mantello protettivo; poi la sua furia faceva trasalire e pareva
l’ululato di un lupo arrabbiato che non riusciva ad infilarsi nella porta di
casa. Ringhiava, rideva, cantava, la sua risata sibilante s’insinuava tra i
boschi come un serpente affamato, strisciava sulle piane, spazzolava i cespugli
e scivolava dalle tegole dei tetti. Quando penetrava nelle gronde sembrava che
una iena stesse ridendo e faceva vibrare ogni corda della paura insita
nell’uomo, fin dalla sua infanzia, fin da quando gli venivano raccontate le
storie di streghe cattive e ridacchianti che alimentavano la paura, proprio
come fa il vento. Durante il giorno, si poteva notare il suo arrivo da lontano;
i lunghi alberi cominciavano ad ondeggiare a destra e a sinistra, come se
un’enorme mano invisibile scompigliasse le fronde più alte; poi la stessa mano
passava di albero in albero fino ad arrivare sempre più vicino, fino a giungere
tra gli arbusti dei giardini e degli orti, che si animavano e danzavano un
lugubre ballo senza controllo. Li avrebbe divelti, il vento, tanto era rabbioso,
se solo gli fosse stato possibile. Una volta ci riuscì e trasportò lontano
giovani piante con tutte le radici; provocò incidenti e frane fino a far
crollare grandi tronchi sulla strada e a dividere in due una delle valli.
Ogni volta che il vento impazziva, gli abitanti di
Sognantìco si chiedevano il perché e il percome di una tale bufera e si
ripetevano che non si era mai sentito un vento come quello. Perché è proprio
questo che fa paura del vento: che non si vede; però si sente e fa danni e fa
spaventare e non si sa quando arriva né quando se ne riparte.
“Le stagioni non sono più quelle di una volta”
mormoravano i vecchi saggi del paese, quando potevano riprendere a sedersi
fuori, sulle panche e sugli usci di casa; chi sferruzzava, chi si arrotolava una
sigaretta, chi riempiva la pipa. “Un vento così non si era mai visto”, e tutti
annuivano concordi.
E quando tornava la calma, all’improvviso, creava lo stesso stupore dell’arrivo. Tutto si placava facendo piombare il
silenzio sulle valli, talvolta un silenzio che assordava e faceva rimpiangere
il vento.
Poi, per qualche giorno, ci si dimenticava di “lui”;
ma quello aspettava nascosto, e quando tutti avevano finito per riabituarsi
alla calma e al silenzio, ecco che tornava galoppando sulle fronde degli alberi
e ricominciava le sue macabre danze, per provocare la paura nella gente, per
scuotere gli animi timorosi; perché il vento si nutre di paura, più ne genera e
più diventa forte, più si sente potente e più la fa da padrone. (…)
Giudizio
Una scrittura umile
e convincente ed un’efficace ripartizione danno una positiva riuscita per il
racconto. La voce narrante riesce a non ricadere in un resa scontata nonostante
l’unità di luogo conferita al progetto letterario, evocando Sognantìco con
delicata sapienza. La parte conclusiva soprattutto riscuote un preciso assenso.
(Fabio Cecchi)
Biografia
Franca Oberti dice di sé: «Due
righe di me che ho attraversato la vita? Non che pensi di essere al traguardo,
anzi, se mi guardo allo specchio non mi riconosco, mi chiedo chi sia quella
vecchia, mentre lo spirito ventenne continua a spronarmi nello scrivere, nella
professione, nel sociale, mi incita ancora al gioco e al divertimento. Sessanta
e non sentirli… Vivo con mio marito, i nostri due figli vivono accanto a noi;
ho tre gatti che mi coccolano e tanti ricordi intensi e meravigliosi. La
salute? Sorvoliamo! Scrivo, leggo e coltivo le amicizie; aiuto il mio prossimo
per quanto possibile “e quando sento il vuoto intorno a me, mi chiudo, piccola
ostrica, sul fondo, nascosta”.»
Tutto al 50% di Manlio Ranieri (Bari)
Mi guardo allo specchio.
Quello che vedo è mediamente soddisfacente, ma i miei
sono occhi tarati sull’età che mi porto addosso e che ho impietosamente marcata
sulla carta d’identità, come promemoria nel caso dovessi dimenticarmene.
Cosa che tendo a fare spesso, peraltro.
La mia vita di eccessi moderati, comunque, non ha
prodotto danni irreversibili.
Cerco di immaginarmi con lo sguardo di due ragazze
ventenni, ma l’immedesimazione mi è difficile.
Ancora non ho capito realmente cosa sia successo ieri.
Torno da quella che abbiamo chiamato una turnè.
Sì, beh, quando hai quindici anni e metti su una band
hai un’idea piuttosto differente di quella che potrebbe essere una turnè: ti
figuri hotel di lusso da mettere a soqquadro, da cui farti cacciare, serate
alcoliche, nottate insonni, ragazze che vanno e vengono dai camerini.
Bello.
Ti fai questa idea a furia di stereotipi sui gruppi
rock maledetti, sulla pazzia degli artisti.
Poi fai un po’ di gavetta, i primi concerti nei pub,
con un pubblico composto essenzialmente da amici, qualche notte bianca in
piazza in qualche manifestazione comunale, un’apparizione in prima serata nel
locale più rinomato della scena indie della città, con un concerto tutto per
te. Magari persino con il gruppo spalla.
In quel momento ti sembra di essere arrivato da
qualche parte.
Il demo. Qualche piazzamento di riguardo in qualche
inutile concorso per band emergenti.
L’ascesa sembra funzionare, sembra muoversi nella
direzione giusta.
È solo che prima o poi arriva il crinale. Lo
immaginavi più elevato, di solito, ed invece ti ci trovi sopra. Intorno a te ci
sono tutti i tuoi colleghi, gli altri gruppi che non hanno il vento in poppa
come il tuo. Sono più in basso. Li vedi dall’alto. Ma non troppo.
Ci rimani per un po’, cammini da un punto all’altro,
ti guardi intorno, cerchi nuovi punti di osservazione, nuove vallate da
ammirare per non stancarti.
Ma prima o poi ti stanchi.
Ed allora ti rendi conto che sei su una vetta, quindi
l’unica possibilità di movimento che hai è quella di intraprendere la china
verso il basso.
Da questo punto di vista, in fondo, quello che abbiamo
raggiunto alla veneranda età di 35 anni io e i miei compagni dei
Tuttoal50% è invidiabile: dopo due
cd prodotti da un’etichetta onesta ma tanto piccola da sembrare una cimice
fastidiosa nel mondo elefantiaco del mercato discografico abbiamo deciso di
tentare il tutto per tutto. Un album meditato, scritto con il massimo della
concentrazione e dell’ispirazione, registrato con cura. Poi messo in rete,
gratuitamente a disposizione di chi avesse voglia di scaricarlo. E poi via con
una serie di concerti a otto euro – perché cinque era troppo poco e la doppia
cifra del dieci poteva spaventare – in tutti i locali d’Italia dove si suona
rock. Ogni show annunciato da un tam tam imponente, manifesti, passaparola
attraverso i social network, volantinaggi.
Spese, spese e spese. Divise a metà fra il gruppo e la
casa discografica, così come gli utili dei concerti, visto che il cd era
distribuito liberamente in formato mp3.
Una piccola follia disperata. (…)
Giudizio
“Una piccola follia
disperata”, dove l’unica possibilità di movimento che resta è quella di
intraprendere “la china verso il basso”, vivendo al 50%. Il crollo dei sogni,
la disillusione giovanile, transita in un flusso di sguardi, di parole non
dette, di sorrisi accennati, mentre un vento gelido spazza la città. Stati
emotivi in cui sentire che l’esclusione stessa è scambio di bisogni vitali, dare
e ricevere “la possibilità di vivere in prima persona”. (Marcello Tosi)
Biografia
«Mi chiamo
Manlio Ranieri, nato a Bari nel 1974, di professione ingegnere. Scrivo da una
quindicina di anni. Ad oggi ho pubblicato una raccolata di racconti (Di
Notte, ed. Palomar, 2001) e due romanzi (Correre per rimanere
immobili, ed. Akkuaria, 2008 e Fra santi e falsi dèi, ed.
Akkuaria, 2010). Ho partecipato anche ad antologie di racconti (Qualcosa
da dire, ed. Kora, 2005, Con gli occhi di un gatto, ed.
Akkuaria, 2007, Haiti chiama Bari, ed. Levante, 2010). Ho scritto
anche molti altri romanzi e racconti, ma ho preferito mantenerli inediti in
mancanza di una proposta editoriale adeguata. I principali riconoscimenti in
premi letterari sono stati: Premio nazionale di narrativa Aci S. Antonio
(2001, primo classificato); premio “I veli della luna” (2007, primo
classificato); premio “Creatività itinerante” (2010, primo
classificato); premio “Città di Martinsicuro” (2011, terzo
classificato); premio internazionale “Il convivio” (2011, secondo
classificato).»
Due racconti di Fausto Toccaceli (Cagli, PU)
Viaggio in ambasciata
Proseguire,
perseguire qualcosa
significa lottare
contro ogni cosa.
L’universo fa tutto
il possibile per impedire
ad un’idea
sventurata di arrivare al suo termine.
“Sisay!
Sisay!, vieni con me!?”
“Dove!”
“In
ambasciata!”. Dopo dieci secondi, eccolo tirato a lucido e pronto per il
viaggio.
“A
che ora torniamo?” – di un etiope che chiede l’ora del ritorno da un giro in
città, c’è almeno da dubitare che abbia altro per la testa.
“Perché!,
cos’hai da fare?”
“Alle
cinque vorrei andare a scuola, ho bisogno di parlare con un professore…”
“Ok,
ok… sono le tre; tra circa mezz’ora saremo lì; alle quattro ho appuntamento per
il visto; dieci minuti per la formalità e ripartiamo”. Il ragazzo non risponde
neanche, sorride e mi fa cenno che per lui si può partire.
Poco
traffico in giro, vista l’ora. I soliti camion fermi - con l’immancabile pietra
ad informare la sosta - per una foratura o per un principio di incendio
ritardano di qualche minuto il nostro arrivo; siamo comunque in largo anticipo;
riusciamo per di più a fare una piccola tappa e ad ammirare il bosco
verdeggiante di eucalipti nei pressi dell’ambasciata tedesca.
“Bello
è!”
“Che
alberi sono?”
“Sono
eucalipti…”
“Ah!
Ho capito!… In amarico si chiamano Ba Hir Zaf.”
“…
Tu in Dancalia non li hai mai visti perché non ci sono, non è un albero
autoctono e per di più vive solo in luoghi umidi, piovosi. Li ha portati un
francese consigliere di Menelik, dopo un consulto con la regina Taitù.”
“ A
sì!… E quanti ne ha portati?” lo guardo esterrefatto.
“Ma
che domanda è!… Quanti vuoi che ne abbia portati! Magari un centinaio e di piccole
dimensioni, poi si sono riprodotti. L’eucalipto è un albero che cresce
velocemente e si moltiplica altrettanto velocemente; nell’arco di una ventina
d’ anni tutto l’Entotto ne è stato ricoperto… Vedi lassù! Guarda quanti!”.
“Certo
che li vedo! Saranno alti almeno trenta metri…”
“Anche
di più!… ”
Mette
la mano sul cruscotto e, distendendo pollice e mignolo, partendo da sinistra,
fa per prendere delle misure - mi guarda e ride - tornando indietro
ogniqualvolta sbatte sul finestrino.
“Che
stai facendo?”
“Niente”
continua a ridere - sto cercando di capire quanti palmi occorrono per fare un
metro, così poi moltiplico per cinquanta e vedo quanti palmi sono in totale.”
“Vuoi che ti scenda o cosa!”
“Vuoi che ti scenda o cosa!”
Ridiamo
entrambi, mentre, come bambini, battiamo il cruscotto come fosse un tamburo.
La strada si inerpica e le case diradano. Un’auto, LADA 1960, si immette sulla strada che stiamo percorrendo da una via secondaria…
La strada si inerpica e le case diradano. Un’auto, LADA 1960, si immette sulla strada che stiamo percorrendo da una via secondaria…
“Ecco!
Vedi!?”
“
Cosa!”
“Il
tuo connazionale non ha usato la freccia.”
“Non
sa guidare.”
“Lo
vedo che non sa guidare, è evidente. Tu che hai fatto qualche lezione di guida
sai quando si deve mettere la freccia?”
“Certo
che lo so. La freccia si mette quando si svolta a destra o a sinistra e quando
ci si immette su una strada principale da una secondaria.”
“Bravo!…
Bravo, proprio come in questo caso. Peccato che poi tu non sappia tenere un
volante in mano né tantomeno inserire una marcia… Lo sappiamo che non sai usare
il pedale della frizione.”
Il ragazzo china il capo e perde il sorriso. (…)
Il ragazzo china il capo e perde il sorriso. (…)
Giudizio
Due brevi episodi raccontano con il gusto
dell'aneddoto la vita di un italiano in Etiopia. Tra spunti comici e sprazzi di
reportage ci vengono restituiti episodi al limite dell'assurdo in cui il vero
protagonista è l’incontro tra due culture diverse ma conviventi. (Alessandra Carlini)
Biografia
Come nascono i racconti. «E sono io: F T, finalmente bambino a tergo
lemmi e simulacri. A volte, è piacevole stare sopra le nuvole… Credimi: compie
il senso del finito.
Il
silenzio, l’ansia del non ritorno, l’azzurro increspato dai cirri immacolati;
l’aria, che separa dall’umano e rende fosche le tinte dei laghi e dei boschi.
Un
sussurro, un clamore: solo dentro di me. Lì fuori è tutto immobile… Respira
piano.»
La perfezione cosmica e altri microracconti di Oreste
Bonvicini (Casal Cermelli, AL)
Al crepuscolo…
“Non
siate saggi più di quanto occorre, ovvero siate sobriamente saggi.” (San Paolo)
E
se il passato, che grazie ad un particolare insignificante, ad un banale od
inatteso evento, riemerge dalla notte del tempo suscitando il ricordo del
giorno più bello vissuto in una città lontana, o di un’estate affrontando i
ripidi pendii delle valli alpine che più volte cercammo con intelligenza di
risuscitare dalla memoria e che durante una conversazione con amici con cui
condividemmo quelle esperienze o la stessa passione ci scalda il cuore e
l’anima infiamma, forse ritroveremo una luce che pensavamo sopita. Ma non sarà
sufficiente per riscoprire l’intima essenza di quanto ci fece realmente
innamorare. Di quei giorni nulla rimane ed i particolare che ci sforzeremo di
rievocare non saranno che incompleti ricordi che la volontà ci impone di
riportare alla luce.
Le
conversazioni riservate dinanzi alla fiamma nel camino non disturbano la
lettura. Talvolta, alzando gli occhi al baluginare della fiamma, come se un
refolo di vento, calato giù dal camino, attirando verso l’alto la lingua rossa
del fuoco, ridestano in noi la realtà ovvero lo scorrere ineluttabile del tempo
che mai inganna.
In
cielo il tramonto è già oltre l’orizzonte dove sussiste ancora un tratto di
luce. La casa è accogliente, il tepore si leva dal braciere mentre la nostra
mano stringe la copertina del libro in cui si immerge tra le pagine un dito,
posto a mezzo di una descrizione che vorremmo rileggere ancora. Il giorno
s’accheta mentre il tempo si consuma nelle abitudini.
Non
c’è ora che non rimanga senza un suo sapere, un impegno, un dovere, un piccolo
piacere, ma nel contempo non c’è ora in cui non ci paia di rivedere il cammino
affrontato.
Il
sonno che dipinge i sogni allegri o gli incubi colmi d’ansia che turbano il
risveglio, cancellerà i pensieri quotidiani nascondendo per sempre il passato,
recente o remoto, in un anfratto della mente da cui non sarà mai più
razionalmente destato. E quando qualcosa sembrerà riemergere, sarà in seguito
al contatto con una realtà simile al sogno, un involontario evento che
apparentemente nega l’intelligenza e privilegia l’irrazionale. (…)
Giudizio
Una
scrittura gradevole che accoglie riflessioni sul passare del tempo in grado di
donare significati al divenire. (Caterina Camporesi)
Biografia
Oreste Bonvicini è nato ad
Alessandria nel 1958. Risiede a Casal Cermelli (AL). Dice di sé: «Ho sempre
volto barra alla scrittura, ma il tempo, durante la navigazione, ha visto
errori di rotta, con il vento o la burrasca rimandarmi al largo o verso
sconosciuti lidi. Ora, benché s’alternino lunghi periodi di bonaccia con
l’illusione che patria sia l’ovunque, scorgo il tramonto che s’allunga mentre
Itaca non è più la meta…»
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