venerdì 1 marzo 2013

La crisi dell’anno 2012 - Povera Italia

di Oreste Bonvicini

 
La crisi dell’anno 2012

·      E cos’altro potrà accadere, rifiutando le affermazioni sul non senso della normalità? Ma in questa confusione, tra farabutti che spacciano l’informazione per verità in cerca di consenso..  non è la terra che mancherà, fertile, profumata. Lunga l’attesa intorno alla parola che sentiamo dentro non venire alle labbra se non come frutto di stagione che tarda al tardare del bel tempo. Il desiderio mai sopito è di non tralasciare il già detto, bagaglio ineludibile che accompagna mentre la luce declina..

·      Così  abbiamo appreso che non c’è altro presente che il presente e questo affermo dal mio tavolo di lavoro che improvviso ovunque: mi basta un notes a quadretti ovvero il bianco di uno scontrino di cassa, il retro di un manifestino, lo spazio libero tra colonne e colonne di un quotidiano che nessuno legge. Lo spazio tra le parole è l’intervallo che impone il silenzio, mentre attendiamo il consenso a chiudere, su questo mondo di ferro e fiele, le inenarrabili sequenze dell’abiezione umana fin qui conosciuta.. e dire che avevamo atteso con fiducia l’età che declina come l’autunno dopo la buona stagione.

·      Ora non ho più timore che non rimanga di me memoria, né una parola scritta sulla polvere. Un altare per celebrare queste sensazioni, libero di affermare che il vento cancella anche se flebile si leva e s’appresta il tempo del ritorno, benché non avere più fiducia in questo paese corrotto, è come abbandonare la battaglia, cedere  le armi ad un nemico che colpirà alle spalle.

·      (Eppure) sento ancora l’eco dei richiami: lo sciacquare della marea, il vento balcanico da oriente,  il sole già basso all’orizzonte, oltre il profilo delle colline che a tal punto rendono fredda l’atmosfera dinanzi alle piccole onde che schiumano sulla battigia. Alcune vele si dibattono sul mare, mentre la balera stasera sarà deserta e la musica dispersa per pochi disattenti che ricorderanno a lungo questa breve vacanza frustata dalla pioggia a fine agosto…

·      Siamo lontani dalla nostra terra ma anche ripartendo, porteremo con noi il presente e non troveremo reali differenze tra i profili della terra che pur cambia colore, odore, consistenza mentre la pioggia bagna e impregna. Siamo lontani dal nostro orizzonte, portiamo con noi l’ansia per ciò che raggiunto subito lasciamo..

·      E tanto ci angoscia, questo malanno che ci allontana dalle cose del mondo, incapaci di esserne partecipi mentre tutto intorno cambia. E non sarà degno del nostro pensiero farci da parte, allontanarci non con disdegno, ma con rammarico, col dolore che accompagna l’impotenza che si fa largo e annulla le certezze a lungo cullate per la parola  a cui pochi hanno creduto…

·      È dunque  autunno in questo angolo di mondo .. mentre l’attenzione  è per questo universo di esistenze che rincorrono ancora il sogno. C’è chi ride spensierato camminando sotto la pioggia, come se fosse il segno divino che presto giungerà a redimere l’umanità.

·      Per questo affermo che c’è ancora il desiderio di tradurre con le parole il sentimento e trasformare questo impoetico presente, compresso tra l’indicibile il reale, mentre ci lasciamo incantare dal tempo di cui non riconosciamo che l’attimo in cui tutto accade ma subito si esaurisce. Non c’è coraggio né viltà in tutto questo, ma non dovremo accettare ancora ciò che si appresta, né un mestiere che non sia tra le mani libero e di buon fine. Umano, nel senso letterario del dovere, levandoci al levar del sole, coricandoci allo scemare della luce. Sorgerà ancora il giorno?

·      Cosa dunque animerà i ricordi? Forse attraversare l’andito oltre il quale ogni parola è traccia che dilegua al dileguarsi del tempo e delle ore, sequenza abituale del nostro essere, rigenerati dal rigenerarsi delle stagioni..

·      E serviranno ancora le mani per ricomporre le cose del mondo, come le città irreali che abbiamo attraversato, quelle in cui vivendo abbiamo evocato come oracoli i segni del declino mentre già la vergogna dilagava nelle strade, vuote  nei giorni d’estate, nude e prive d’anima…

·      Eppure sussiste chi del nulla si nutre e nel nulla si crogiola, tra lusso e spreco, e offende il cuore e l’inaridisce, mentre chi soffre tace, o si fa piccolo e sparisce. Già, ma che sa il cuore, torniamo a dire, se non poco  più di quanto è appena accaduto? Dobbiamo discernere tra il tempo e il nulla verso cui abbiamo fatto rotta, mentre la presunta stagione del rinnovamento viene dalle stelle, un percorso che sa d’azzardo e non si confronta con il razionale.  Chi s’avvede di quanto oggi accade, solo dopo, solo dopo, grida al mondo che dio è morto.





Frammenti apocalittici (II)

Si stava chiudendo il cerchio. Il tempo era compiuto e di quel mondo costruito giorno per giorno, non rimase che una raccolta di pagine ingiallite e mille parole che le mani avevano impresso sulla carta, ma non riuscivano più a comprendere.
C’era la sensazione di aver scritto l’impossibile, ovvero solo quanto veduto con la mente e, per questo, irrevocabilmente.
Per questo come per le tribù nomadi che a primavera riducono in cenere la brace ancora rovente quasi con noncuranza, come se non avesse nessun significato ricordare come quella stessa avesse ristorato le notti fredde dell’inverno, e riprendono il cammino verso terre più elevate, tra rocce e vento, salendo i pascoli sempre più in alto. Non avrebbero mai sofferto la città desacralizzata di questo nostro tempo….

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Ma se dovessimo tornare sui nostri passi, gli stessi da cui siamo fuggiti, non sarebbe ammettere una sconfitta, bensì volgere lo sguardo consapevole verso la libertà, non con l’ansia per l’ignoto, ma con la consapevolezza di aver oltrepassato i confini del deserto che abbiamo realizzato intorno e dentro le città.
Certi limiti li abbiamo scelti e imposte con le parole, che al contrario dovevano aiutarci a non perseverare nell’errore. Non ci sarà altro tempo e nuove attese…

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Ci piace pensare che sia possibile ancora inseguire fino alla morte quella minima pace a cui tutti aspiriamo, ma che pochi potranno raggiugere. Ora che abbiamo compreso l’inganno, ecco tornare le ombre delle usate paure. Se tutto si rivelasse ancora un sogno, e non sorgesse un’altra primavera, ecco il bagliore all’orizzonte che non è ghiaccio, ma sulle strade e sulle piazze tornando il freddo e la paura…

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Ma alla fine non è la stessa industrializzazione che ci ha costretti ai falsi bisogni, alla materialità delle cose, allontanandoci dalla natura, dal riposo, con susseguente fuga dalla città, soffrendo la pressione psicologico della quotidianità, nell’inumana codifica della sottile tirannia che le false democrazie hanno favorito ovvero generato. Siamo tutti consapevoli e colpevoli?
È forse un falso bisogno la necessitò di fuggire e riscoprire la libertà di non impegnarsi nella quotidianità che le legge degli uomini ci impongono? La convivenza si è fatta ardua ed il silenzio e la solitudine talvolta sembrano la nostra unica via di salvezza.
(liberi di scegliere l’orizzonte la terra dove fermarsi per qualche tempo o per sempre, se in armonia con la natura, con noi stessi. O ripartire ancora)

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Quale il segreto delle civiltà remote? Di resistere alla morte lasciando un segno,. Di incidere in vita con una punta la pietra. E ì vaginale solco da cui tutto scaturisce e verso cui tutto torna, scrivere come la vita sarà vissuta.. Intensamente.,
dei secoli abbiamo smarrito l’attitudine negli anfratti del confronto tra bene e male, esaltate le posizioni delle crescente intemperanze del pensiero religioso imperante, illuminati solo, nel secolo recente, del pensiero freudiano e delle sue recondite rivelazioni….


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Siamo sempre in procinto di attraversare una soglia. È quella della nostra casa, dove per la prima volta transitiamo verso l’esterno, dal conosciuto al nuovo, dal tepore al freddo, dal riparo alla luce. Entrare ed uscire, un atteggiamento che sa di vita e morte. E lo ripetiamo ogni giorno, finché qualcosa non ci costringe ad osservare il mondo al riparo dei  vetri della nostra finestra. Allora quel distacco contagia la nostra mente, l’indurisce, la costringe nella malattia.
Un po’ come confessare di non sentirsi parte del mondo conosciuto, vissuto. Di essere sempre in procinto di partire verso una nuova meta, anche un viaggio brevissimo, ma idealmente lontano dal conosciuto, un viaggio di sola andata anche se il viaggio è tale solo se ci sarà ritorno. Si torna da ogni viaggio irrevocabilmente mutati.

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Ebbene viveva la sensazione complessa che i libri letti e riletti, frequentati, fossero deposito di mille conoscenze che si erano poi riversate in lui, sedimentate per assimilazione.
E pur provando a confutare quella sensazione, infine l’aveva amata. Fatta sua.
Sono i libri il mio universo, disse un giorno. Ed io vivo in quell’universo. E ogni pagina ogni  istante della mia vita non so se veramente vissuta o raccolta sulle pagine di un libro. Sono sotto una cupola di cristallo che mi protegge e mi condanna. Alla follia infine? O all’irrealtà? Ma tutto ciò si rivela concreto, più di ogni altra realtà umana vissuta.

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Le tracce del nostro tempo, allo sguardo di ipotetici archeologi del futuro, saranno ammassi di PET e PVC, irriconoscibili, qua e la incise le composizioni, vaticinanti i tempi previsti della biodegradabilità. Nei secoli a venire, forse ormai privi della presenza umana..  

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Siamo andati altrove abbiamo smesso l’abito del viaggiatore, il nostro è un cammino senza domani senza passato. Ci offende vivere ai margini dell’intelligenza..



Povera Italia…

“Non la solitudine economica, non la mancanza di una tetto, del pane quotidiano, ma l’isolamento, il non essere parte della società. La condivisione di un progetto comune, l’esserne parte, rendono l’uomo veramente libero…”
Ma questo pensiero non si addice al nostro paese, afflitto da un male sociale che  non si sana, con l’incapacità di essere una comunità e non un insieme inidoneo a pensare un progetto senza enfasi retorica che svela corporativismi entro cui racchiudere i gruppi che schierati dietro ad una sigla, alzata un vessillo, indossano una divisa confondendo il fare con la competizione, e svelano una dipendenza ideologica a fascismi senza remissione mai completamente rimossi e che latenti sussistono nell’animo degli italiani.


Oreste Bonvicini è nato ad Alessandria nel 1958. Risiede a Casal Cermelli (AL). Dice di sé:

“Ho sempre volto barra alla scrittura, ma il tempo, durante la navigazione, ha visto errori di rotta, con il vento o la burrasca rimandarmi al largo o verso sconosciuti lidi. Ora, benché s’alternino lunghi periodi di bonaccia con l’illusione che patria sia l’ovunque, scorgo il tramonto che s’allunga mentre Itaca non è più la meta…”

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