di Paolo Magnani
In caso di interesse, vi allego copia di un articoletto sul Premio giornalistico intitolato ad Alfredo Panzini indetto dal Comune di Bellaria-Igea Marina, in occasione dei 150 anni dalla nascita dello scrittore e viaggiatore.
L'obiettivo iniziale era di istituire un premio alla migliore tesi di Laurea. Poi, stante la scarsità di mezzi, si è deciso per un premio giornalistico, per il miglior articolo di giornale.
Quando, qualche mese fa, parlando con il Presidente della piccola associazione culturale di Bellaria "Accademia Panziniana", Arnaldo Gobbi ( nipote del "mitico" Finotti, il contadino mezzadro di Panzini che viveva nella casetta posta all'interno del parco della Casa Rossa), gli feci osservare la grande attualità e "modernità" della passione per il ciclo-viaggio di Alfredo Panzini, in un tempo, quello di Panzini, in cui tutti erano presi, chi più chi meno, dalla passione per le prime automobili e per l'aereo, simboli della modernità e del progresso, avevo sperato in un evento che celebrasse questo aspetto di Panzini, per le manifestazioni dei 150 anni dalla nascita.
Il mio desiderio, ma non solo mio, è stato esaudito:
Il premio giornalistico indetto dal Comune di Bellaria e intitolato allo scrittore, per i 150 anni dalla nascita, ha per tema… Panzini in bicicletta! (Il premio per il miglior articolo è di duemila euro).
Al vincitore del premio della prima edizione del 1963, un certo signor Sergio Zavoli, la vincita gli ha portato parecchia fortuna…
Allego anche, a chi non l'ho già mandato, copia un articolo su "Panzini e la bicicletta" scritto, per il quotidiano "La Repubblica", da una giovane e brava studiosa di Padova, la dott.ssa Mariangela Lando.
Saluti
Paolo Magnani
«L'undici di luglio, alle ore due del pomeriggio, io varcavo finalmente, dall'alto della mia bicicletta, il vecchio dazio milanese di Porta Romana. La meta del mio viaggio era lontana: una borgata di pescatori sull'Adriatico, dove io ero atteso in una casetta sul mare: questa borgata supponiamo che sia non lungi dall'antico pineto di Cervia e che, per l'aere puro, abbia il nome di Bellaria. »
(Alfredo Panzini, La lanterna di Diogene, 1907)
Un letterato ciclista
Panzini in bicicletta 2011
di Mariangela Lando
L’immagine di Alfredo Panzini, (nato nel 1863 nelle Marche ma fortemente
romagnolo d’adozione), accostato alla sua immancabile bicicletta è una
rappresentazione ricorrente nella sua narrativa autobiografica. L’autore amava
molto viaggiare e sceglieva quasi sempre la bicicletta per i suoi itinerari.
Una bicicletta di origine americana ma che stando da anni in mia compagnia ha
preso un certo amore per l’Italia, mi permette autonomia di movimento e di
fermata, e soprattutto risparmio di spesa. Questa servizievole bicicletta ha un solo
inconveniente. Io la rilevai da uno dei più famosi uomini sportivi che vi siano in
Italia; gran signore e di generose abitudini (però la bicicletta la pagai a contanti).
Ora quando ci fermiamo in qualche umile osteria, è seccante sentirsi dire ogni
volta, dalla bicicletta: “ Quand’ero col mio primo padrone, dovevi vedere dove si
andava ad alloggiare!”. Tranne questo difetto, è una macchina eccellente che per i
monti fa miglior prova che in piano.
In questi libri di Panzini, Nella terra dei santi e dei poeti, racconto tratto da
Piccole storie del mondo grande (Treves, 1901), La lanterna di Diogene, in cui
campeggia un’immagine di Panzini accanto alla sua inseparabile bici (Treves,
1907), in Viaggio di un povero letterato (Treves, 1919) ed infine in Viaggio con la
giovane ebrea (Mondadori 1935) possiamo seguire attentamente Panzini
viaggiatore che ama immergersi nelle bellezze autentiche della natura, il ciclista
che va alla ricerca di luoghi incontaminati, di paesaggi nuovi, che ricerca
sensazioni lirico descrittive da riportare sotto forma di diario paesaggistico.
Quello descritto nella Lanterna di Diogene per esempio è un diario di viaggio che
inizia da Milano dove il prof. Panzini insegnava al Politecnico, attraversa
l’Appennino modenese, per concludersi infine nella spiaggia di Bellaria; un
itinerario per Panzini che diventa una meditazione sulla propria esistenza, un
percorso verso la saggezza, una terapia dell’anima; la bicicletta rappresenta un
mezzo che gli permette maggiormente il contatto con la natura, con l’ambiente
agreste di vita sana e attiva.
Nelle pagine di narrativa autobiografica panziniana, il lettore è proiettato in un
mondo lirico-descrittivo attraversato dalla forza d’animo di Panzini, dalla
vivezza delle sensazioni figurative, dalle connotazioni coloristiche, da accenti
impressionistici.
Ecco un passo tratto dalla Lanterna di Diogene:
La mattina alle sei […] i miei spiriti erano diventati […] vigili e allegri come la
fresca e pura mattinata. Per la lunga viottola suburbana nessuno incontrai, altro
che un giovane imberbe vestito con pulita semplicità che mi veniva dietro. Io ogni
tanto gettavo l’occhio su la gran valle vestita dal sole il quale avea sorpassato il
monte che m’era a ridosso, e dall’altro lato guardavo le mura sovrastanti, grige,
tetre, ma con giardini pensili di molta verdura, e ombrelli fioriti di oleandri,
gaudenti all’ombra.
Un altro viaggio di Panzini è ben descritto in Nella terra dei santi e dei poeti: è un
percorso compiuto da Panzini nel 1898 in occasione del centenario della nascita
di Leopardi, un itinerario che lo porterà a Recanati; leggendo queste intense
pagine letterarie l’impressione è che questa dimensione di viaggio vissuta dal
poeta, si elevi a teorema letterario; qui l’uomo si dimentica di essere viaggiatore
e si immerge nel mondo delle citazioni e delle reminiscenze letterarie. La parola
poetica diventa per l’autore «acqua da rivo», è la poesia che viaggia con Panzini,
lasciando ovunque il sapore della propria essenza. L’autore coniuga quindi nei
propri libri di viaggio, l’essere poeta all’essere itinerante, il racconto diventa un
intenso diario ricco di reminiscenze storico-letterarie in cui il poeta instaura un
nuovo rapporto con la letteratura precedente.
Nella narrativa autobiografica di Alfredo Panzini seguendo i suoi viaggi
itineranti grande spazio hanno le descrizioni che riguardano gli scorci di
paesaggi: in particolare gli spettacoli aurorali costituiscono una preziosa polvere
lirico-aulica del suo racconto autobiografico, La fine e attenta osservazione
dell’autore si riscontra leggendo proprio nelle descrizioni delle prime luci del
mattino: l’alba è l’ora prediletta, della forza dirompente della natura che si
desta alla luce del sole più radioso. Panzini nelle sue descrizioni incornicia spesso
il paesaggio aurorale in lontananza, attribuendogli anche una valenza filosofica.
Alle prime luci dell’alba l’autore può allontanarsi dalla folla per meglio gustare
la natura negli elementi, che proprio all’alba, diventano per lui più distintivi, e il
pensiero maggiormente si arricchisce di sensazioni sensoriali fisiche e tattili.
L’alba rugiadosa già elevava in oriente i padiglioni di porpora. […] In fondo al
campo dilungavano i bianchi, enormi buoi ruminanti. Gli umili tamarischi,
allineati in siepe, parevano al lento osservatore muoversi a ritmo alla brezza
mattutina: leggiadrissima pianta nostra del mare. E la chioma tonda di un eccelso
pino parea che si incendiasse di sole come se le resine che gemono dalle sue vene
avessero più di ogni altra pianta sentito la fiamma e la virtù del sole.
Già albeggiava. Che puro che ridente mattino! Quali verdure profonde, allineate
ordinate! E qua e là ampi rettangoli gialli, formati dalle stoppie di grano, reciso
pur ieri. I covoni del grano d’oro si allineavano a perdita d’occhio; e la bianchezza
dei buoi si muoveva già per rompere le stoppie, nella frescura dell’alba. Dolce
mattino georgico! Oh palpitare del lago di Virgilio!
Alfredo Panzini incontra all'alba il mondo più semplice e genuino, nel proprio
itinerario vagante egli ha modo di conoscere il mondo dei pescatori, degli uomini
agresti, un universo che si sveglia ai primi chiarori perché questo è il momento
più propizio per dedicarsi al lavoro.
Per il lettore gli incontri con le persone, l’attaccamento alle vecchie tradizioni,
l’assaporamento di consuetudini del passato, si fondono a costituire un senso di
appartenenza di stampo decisamente conservatore.
Davanti al quadro vespertino della natura, la vista del paesaggio e delle persone
incontrate modificano il pensiero dell’autore, indirizzandolo verso modelli
alternativi di interpretazione della realtà.
Il pensiero per Panzini è associato alla percezione della fisicità femminile al
tramonto.
Si può osservare, leggendo alcuni passi, come gli incontri femminili al tramonto
“entrino” a connotare i paesaggi e le città; emerge una sensualità femminile che
tocca l’animo di Panzini proiettandolo verso un mondo permeato dall’eros tipico
della classicità; divagazioni che portano lo scrittore verso una ricercata
rappresentazione simbolica.
Verso occidente il cielo era di fiamma. V’era nell’aria la lucentezza vivida d’un
temporale lontano.
Su lo spaldo della ferrata, dove più feriva il vento, quivi sorgeva nera, la figura di
Imperia. La ricca gonna e i capelli le ventilavano dietro. D’una mano reggeva la
sottile macchina perché il vento non la sbattesse a terra; dall’altra teneva
impugnato il berretto, onde la fronte e tutto il viso – un viso forte, quasi maschile
ma lumeggiato da due grandissime vertiginose pupille nuove di donne – era esposto
al vento. No ella non contemplava i cavalloni del mare che di fianco correvano
come lancieri bianchi all’assalto, su per un gran verde piano. Bensì come assorta,
godeva della sferzata del vento, quasi esso formasse con lei una carezza brutale.
Era lei la donna piccola, misteriosa. Quella donna l’avevo sorpresa altre volte nei
giorni prima; ma non nei ritrovi, non in alcun crocchio: bensì sola, in giro per la
campagna deserta. Molte volte io mi ero fermato per vederla passare, perché ella
era ben strana! […].
La attesi al quarto vespero ma non comparve più e non più la rividi. Bensì la rividi
con gli occhi della mente. […]
Troppo fremevano gli alti pioppi, troppo io fremeva entro di me per non
confermarmi nell’opinione che ella non fosse la famosa imitatrice dei grandi
spasimi della voluttà e dell’amore.
Le pagine più intense, che ci riportano al Panzini lirico e sentimentale, sono
quelle che riguardano il suo luogo d’appartenenza: Bellaria, quell’Ort, quella
punta di lancia, che rappresenta per l’autore il contatto più autentico, più vero,
punto di convergenza e di raccolta della propria vita, indispensabile ancoraggio
dell’anima.
Ed è proprio a Bellaria di ritorno da un viaggio, sulla riva del mare, che Panzini
rievoca emblematicamente Renato Serra; per Serra l’adesione alla guerra era
stata frutto di una scelta esistenziale. Panzini evita di dare giudizi assoluti: non
gli interessa tematizzare il periodo storico dall’umanità che lo ha vissuto. Nel suo
Diario sentimentale ricorda l’amico così:
L’anno scorso egli era qui, su questa terrazza, a questa mensa, quasi riguardoso, e
beveva l’acqua.
All’annunzio della sua morte, io sono fuggito lungo la riva del mare. Ma egli pure
era qui! […].
L’agosto dello scorso anno, noi andavamo come fraticelli lungo la riva di questo
mare, e recitammo insieme.[…] Ora le onde del mare buttano davanti a me, su la
spiaggia, il tuo corpo bianco, naufrago di un immenso naufragio.
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