recensione di Marco Scalabrino
Tutti
compresi nell’Antico Testamento, “i libri sapienziali – detti anche poetici,
per la loro forma letteraria, e didattici, perché insegnano in senso generale
la sapienza – sono: Proverbi, Giobbe, Qohèlet, Cantico dei Cantici, Sapienza,
Siracide, e risalgono ai secoli V - I a.C.”
Ad
essi ovviamente, sebbene in un ordine appena differente, si rapporta Gianmario
Lucini, oltre che, vedremo, ai profeti Isaia, Geremia ed Ezechiele nonché alle
Lamentazioni e ai Salmi.
Cos’è,
in senso biblico, la Sapienza? cosa sono i Sapienziali? quali sono le asperità
teologico-morali che scaturiscono da questa rivisitazione di quei testi, lascio
alla altrui specifica competenza il compito di delucidare.
Il
proposito che mi attiene riguarda un ambito più terreno e altre più concrete domande,
ovvero quali sono stati, quanto alla scrittura, le formulazioni, il registro, gli
esiti.
Sapienziali è il nono lavoro di poesia
di Lucini.
Presentato
in prima assoluta a Trapani, in forza del rapporto di stima letteraria e umana instaurato
con Stefania La Via, al cui acume di attenta operatrice culturale non è
sfuggita la validità del lavoro di Lucini, il volume sarà poi presentato a Sassari,
Cagliari e Alghero.
Nella
nota introduttiva, Lucini scrive che “il lettore si trova davanti a una poesia anche religiosa”, ma che la sua è “una
raccolta anche civile”, ponendo in
corsivo i due anche, quasi a volere produrre una mitigazione della portata spirituale
della silloge.
Mi
permetta l’illustre amico di ritenere la sua una affermazione deliberatamente
provocatoria. I testi, difatti, si richiamano profondamente alle radici della
cultura giudaico-cristiana e la poesia che ne discende è, al contempo,
pienamente civile e pienamente religiosa e a tratti il colloquio col
Trascendente si fa assai serrato.
Sottolinea
poi nella avvertenza Lucini che l’odierna stesura è maturata dalla
insoddisfazione per la prima versione dell’opera dal medesimo titolo; ma, per
le tante modifiche anche strutturali apportate, l’impressione piuttosto è
quella di trovarsi davanti a una opera nuova.
Scontato
che ogni singola parola di questo lavoro meriterebbe la nostra attenzione,
meriterebbe di essere sviscerata in sé e nel rapporto con le altre del contesto
in cui essa gravita, che ogni singola locuzione meriterebbe di essere ponderata
a motivo della attualizzata collocazione che Lucini le conferisce, mi limiterò a
proporre una essenziale selezione degli esiti che Lucini ha realizzato nell’intento
di mettere in atto una sorta di veemente testimonianza della perenne attualità
dei precetti in quelle scritture contenuti. Esempi – mi piace sperare – utili a
stimolare l’interesse del lettore, a questi demandando la facoltà di
approfondire.
Inframmetterò,
al fine di avvalorare l’esposizione, quelle notazioni che, di volta in volta, dovessero
risultare più idonee.
A
partire da quella sul linguaggio che, come nel modello biblico, è la prosodia
libera e salmodiale; un “linguaggio solenne e insieme semplice”, atto a “ricreare
un ambiente di sacralità nel quale possa meglio risuonare la parola che cerca
senso”.
Lucini
apre con un Prologo:
Oggi … il coro del disordine /
frantuma ogni umanesimo … e le parole disanimate cadono / al furore del male …
Troveremo una parola testarda …
una parola d’acqua, una parola di lacrime / una parola di risa e di danza / una
parola per chi nasce e una per chi muore / una parola antica e nuova da
lasciare ...
La
parola e il poeta: un tema, sin dal Vangelo di Giovanni: “Il Verbo si fece
carne”, in apparenza abusato eppure sempreverde se chi scrive ha cosa dire e sa
come scriverlo.
Nessuna parola contiene il
silenzio / ma il silenzio tutte le contiene.
Giobbe
è il personaggio universalmente noto per la proverbiale pazienza; il suo è il “poema
grandioso dell’innocente oppresso dalla sofferenza immeritata ma che non cessa
di cercare Dio”. Lucini punta la sua attenzione sul capitolo 40, versetti 4-5.
Io sono Giobbe … chiamo per
nome la Giustizia ... Io sono Giobbe ... non ho più forze per rincorrerti … Io
sono Giobbe … ho lottato col Silenzio / l’ho citato in giudizio.
Per
tre volte parla Giobbe, [il corpo ricoperto] di pustole e piaghe … confuso
dal dolore … la mente sconvolta dal
pensiero capovolto; una sola volta parla il Silenzio, (o Dio), la Legge, il Grande Libro.
Da
notare il verbo cincischiare, voce ormai desueta, nel verso: Cincischiano nell’atrio del Tempio.
Proverbi.
Compongono il libro “nove collezioni di proverbi. La prima di esse è una lunga
esortazione ad amare e acquisire la sapienza.” Lucini mira al capitolo 1,
versetto 28.
Io sono la Sapienza … scintilla / che graffia l’orizzonte.
Io sono la Sapienza … parola che straripa dal
suo tempo.
Io sono la Sapienza … orecchio che ascolta /
vibrare altri mondi.
Non vedo che orrori e li chiami
progresso.
Non vedo che rapine e le
chiami giustizia.
Il sale spezza le labbra ai
miei sorrisi.
Il
lavoro di Lucini è prodigo di spunti atti a favorire le nostre notazioni.
Il
sale nel mondo antico era prezioso quanto o più che adesso. Salario è, tuttora, il compenso ricevuto da un lavoratore dipendente per le proprie prestazioni. L’etimologia del termine risale
all’antica Roma,
allorché i soldati delle legioni venivano pagati in grano, vino, olio e specialmente in sale. La sua centralità nella vita dell’uomo è testimoniata
nella letteratura, nella mitologia e nelle religioni. Valga per tutti un passo
del Discorso della Montagna in cui Gesù, rivolgendosi alle folle e ai
discepoli, dice ”Voi siete il sale della terra” (Matteo 5,13). Ben note sono la Via Salaria, attraverso la
quale questo prodotto giungeva da Roma sino alle zone più interne della
penisola, e una fra tutte la magnifica città di Salisburgo, che giusto dal sale
prendono il nome.
Vi
fa capolino il vocabolo legulei, nell’accezione
di uomini di legge pedanti e cavillosi o, peggio, al servizio dei potenti.
Qohèlet.
È una “raccolta di riflessioni disincantate sull’esistenza umana in cui tutto
appare vano e senza senso.” Il richiamo di Lucini è al capitolo 1, versetto 18:
“Dove c’è molta sapienza c’è molta tristezza, se si aumenta la scienza si
aumenta il dolore.”
Quello che stava a destra ora
sta a sinistra / il sopra cambia nel sotto ed è mutato / di segno ogni pensiero
…
Capovolto nel mondo capovolto l’uomo
cerca direzioni / sprofonda nello zenit, ascende nel nadir / scende salendo e
avanzando si ritira …
tutto è perfido e giusto, insano
e saggio.
Quanto
“vento” in questo secondo libro: l’urlo
del vento, versi nel vento, giri nel vento, canto portato dal vento, vento
arroventato, ogni volto si confonde nel vento;
e
nel vortice che esso determina si affaccia “il peggiore dei mali”, si annida: “la
terribile assenza dell’Altissimo”.
Cantico.
La struttura a due voci che si alternano: l’amato e l’amante, il giovane e la
fanciulla, lo sposo e la sposa, l’amico e l’amica, è propria del Cantico, un “idillio che sotto forma
dell’amore fra due giovani suggerisce il rapporto tra Israele e il suo Dio.”
Lucini si sofferma sul capitolo 2, versetto 10.
Amica, cresci un nido nel mio cuore
…
Io
sono desiderio ... oasi e miraggio …
ti offro il mio cielo perché
tu vi possa splendere …
saranno
bastioni i miei fianchi / torri d’avorio i seni.
Sapienza.
Le “riflessioni sul diverso destino di chi segue la vera sapienza e chi la
rifiuta” afferiscono al libro della Sapienza:
“c’è un giudizio di Dio e un’altra vita che attende l’uomo.” Il capitolo
12, versetto 23, è alla ribalta.
L’asserzione:
Il ghigno del boia … ha il nostro volto,
i nostri occhi, ci si scaraventa addosso come un macigno ed è a dir poco agghiacciante
lo scoprirsi il boia di se stessi.
Siracide.
“Vera sapienza è la Tôrah, la Legge.” Due gli estratti di Lucini da Siracide: dal capitolo 4, versetto 28: “Lotta
per la verità sino alla morte e il Signore Dio combatterà al tuo fianco”, e dal
capitolo 7, versetto 3: “Non seminare nei solchi dell’ingiustizia perché non la
raccolga per sette volte”.
Non abita più con noi la
Sapienza. Coloro che ne furono
i saggi, ne sono adesso i detrattori, sono invero dei folli / che confondono scienza e desiderio / in un solo conato.
Un
quadro desolante che però siamo esortati a superare:
Non ti curar di loro … indossa
il tuo zaino, allaccialo alla cintola / e segui l’indizio delle stelle … cammina
con prudenza e non fermarti; / sta’ lontana dall’abbaglio delle fiaccole /
aguzza il tuo sguardo nella notte.
Una
serie di imperativi sorretta da altrettanti futuri forieri di speranza:
Sceglierò un amico silenzioso e
cercheremo un tesoro incorruttibile … saremo un esercito … ci scrolleremo di
dosso la cenere … non varcheremo mai più confini insanguinati.
Isaia.
Il “termine profeta deriva dal greco prophētēs e significa colui che
annuncia, che proclama. Nella lingua ebraica il termine, però, ha un
significato più vasto e racchiude anche quello di essere chiamato”. Si è soliti
distinguere i profeti in maggiori: Isaia, Geremia, Ezechiele e Daniele, e minori:
Gioele, Giona, Zaccaria e altri nove.” Lucini, per le tracce che ne derivano,
si rifà al capitolo 2, versetto 8, al capitolo 29, versetti 11-12 e 13-14, al
capitolo 32, versetti 16-17.
Isaia è
fra le parti più estese e intense della silloge di Lucini e, altresì, fra
quelle che più hanno suscitato in noi occasioni di riflessione.
Ogni giorno improvvisiamo /
nelle fabbriche nelle campagne / con l’ansia schizoide della normalità … la
vera / democrazia misurata a ecoballe / acquedotti funzionali, piani energetici
/ progressi medici e scientifici / stile di vita e biocarburanti / incapsulati
nell’imminenza.
“Democrazia”,
“giustizia”, “libertà” … svuotati dal loro nobile significato. L’accezione che
oggi hanno assunto, per l’uso che ne fa l’uomo, sa di bestemmia, demagogia, negazione
del primigenio valore.
Ci muoviamo … circospetti …
abbiamo soldati bene armati … congegni elettronici dallo spazio che ci scrutano
… viaggiamo blindati, scortati … spendiamo … averi per proteggere gli averi /
sacrifichiamo … terra acqua aria / allo sviluppo del sistema … alimentiamo un
fuoco che divora …
La nostra tecnica controlla
ogni evento / prevede l’orbita degli astri la scienza, / il furore degli atomi
da qui all’eternità: / abbiamo santi e poeti per vincere la morte.
Ogni
cosa è intesa come fosse opera dell’uomo; tutto è ricondotto a suoi conquista e
merito e non già, com’è, a superiore progetto divino. Ancora oltre la facoltà
del libero arbitrio, l’uomo sembra addirittura volersi proiettare alla volta
dell’onnipotenza. Ma egli può solo illudersi di potere dominare il disegno di
Dio, di poterlo superare; le sue opere saranno inesorabilmente devastate.
Unicamente
i miti ardiscono dire: non facciamo più
armi … vogliamo il nostro tempo per capire il donde e il dove / vogliamo la
dignità, non la ricchezza / non vogliamo sciupare più nulla ma prendere in
prestito soltanto / chiedendo il permesso alla natura; ma la flebile eco
della loro voce non valica le frontiere dell’utopia.
Voglio un poema che canti il
mio inferno / dal purgatorio salga al paradiso / da questa morte mi riporti
alla vita. Un evidente percorso
dantesco, enfatizzato dalla reiterazione dei versi: Dove sono quelle labbra, quelle voci? / Dove guarda la luce di quegli
occhi?
Geremia.
Nato in un tempo senza fede né speranza,
Geremia vive sul piano personale il dramma di una “parola” che deve annunciare
e che non è ascoltata. Lucini punta i riflettori sul capitolo 2, versetto 18, e
scrive: Sono la furente puttana del
potere / che da trecento anni seduce i poveri, li rende / schiavi felici,
middle class dell’orrore / pronta a sbranare per un idolo di carta.
Lamentazioni.
Il nostro autore si richiama al capitolo 5, versetti 4-5. Se riuscirà a recuperare
l’innocenza degli inizi, si annuncia, l’uomo potrà riaprire la rossa
speranza e ritrovare la via della
pace.
Ezechiele.
Il linguaggio di Ezechiele è carico di immagini complesse, spesso
caratterizzato da azioni simboliche, destinate a illustrarne in modo efficace
il messaggio: la sacralità di Dio, il vivere accanto a Dio nella purezza e
nella santità. Lucini si riallaccia al capitolo 34, versetti 3-4.
Quando mai trovammo giustizia
sulla terra? / Hai mai veduto un potente preoccuparsi per un povero? / Hai mai
veduto un esercito proteggere i bambini?
I potenti sprecano i beni del
mondo per gli eserciti / rubano il pane ai poveri per costruire armamenti / le
loro armi uccidono ancora prima di essere usate / perché sono fatte col pane
sottratto agli affamati. È
tremenda e altrettanto veritiera questa ultima affermazione.
I
Salmi sono 150 preghiere in forma
poetica che, pur formando un libro del tutto a parte, vengono inseriti nella
Bibbia nel libro dei Sapienziali.
La notte stellata, negli occhi
ti brilla la notte, e poi verrà la notte, tuo sguardo nella notte, luci della
notte, la notte è una madre tenerissima, gli artigli della notte, fin che viene
la notte, il respiro della notte ... il
termine notte è uno fra i più diffusi
della silloge.
Dal suo ventre uscimmo
perfetti … colmi di luce e stupore / ascoltavamo il silenzio dell’amore … fin
quando agimmo con mitezza e con giustizia / l’astro dell’amore visitò i nostri
cortili.
In
origine era la perfezione, dovuta all’agire di Dio, dall’essere stati partoriti
dal suo ventre, dall’accettare di
essere sue creature. Successivamente l’uomo è montato in superbia e dal suo
agire scriteriato è generata la sua disperazione: il nostro cantare … è un turbinio di polvere … una voragine di vento ci
dorme nella bocca / e le parole vi stridono ... non più parole, ma vocali e consonanti.
Ritorna,
ridotta a mero suono, a inconsulta emissione di fiato che maldestramente incespica,
si sfalda, la parola. Ritorna nell’attesa del tempo in cui sarà la Giustizia e il Giudizio … [e] il mondo dormirà nell’unica / parola che tutte le contiene.
Si
chiude, così, il cerchio sul tema della “parola” iniziato a pagina 13, nel
Prologo.
Nel
suo lungo e duro dispiegarsi, nella spasmodica ricerca del Trascendente, Sapienziali è, dunque, l’analisi della attuale
nostra situazione storica in rapporto al senso della Storia e le questioni che
il poeta si pone mi pare siano, in estrema sintesi: da dove siamo venuti? cosa
davvero siamo? dove stiamo andando?
Nel
tentativo “di riattualizzare il pensiero biblico-mitico, conferendogli la
dignità di giudizio della Storia”, il libro è a mio avviso importante per l’attualità
del messaggio o meglio per la particolarità della visione del Nostro.
Sapienziali è un libro laico che parla con Dio
religiosamente; un libro la cui ambizione è quella di “eliminare
la cesura laico-religioso per ritrovare l’autentica capacità di dialogo con l’Essere”,
un libro che dalla Bibbia, dai suoi temi e dai suoi intenti, cerca “una ragione
per proporsi come poesia per l’uomo del nostro tempo”.
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