Faraeditore, Euro 11,00
recensione di Monia Gaita
È una scrittrice raffinata Carla Cirillo, capace di coadunare nelle proprie
sistematiche e sorvegliate considerazioni, l’insanabile coppia opposizionale
amore/impossibilità gorghiane dell’amore. In questi deliziosi racconti il tè,
il caffè, la cioccolata calda e i liquori non solo consacrano precisi momenti
della giornata campiti a colori cangianti e vivaci, ma istituiscono e
assicurano una vera e propria scienza infallibile della liquidità naturale e
sensibile. Agognando di cogliere il diàpason della totalità del reale, la
narratrice supera la propria agnosìa visiva, acustica e tattile di certezze,
affidandosi all’aroma sfrontato, cannoso, ambiguo, erbaceo e terrigno delle
bevande assaporate, illudendosi o convincendosi forse, che ingerirle le
consenta di accedere ad incidenze di soave leggerezza mai sperimentate
(v. pag. 19): “Bevve il nuovo caffè.
L’amaro della buccia d’arancia si impose su quello dell’arabica diffondendosi
rapidissimo sul palato e nel naso. Se l’intento della nuova bevanda era quello
di ricordare un agrumeto, era andato a buon fine. Per alcuni istanti il
giardino si riempì di arance ai suoi occhi: alberi grondanti di arance piene e
mature, arance in ceste sui tavoli, un pavimento di arance sulla ghiaia del
giardino e un cielo bombato di arance.” Così, se il tè sa: “Di buono, di bosco, (v. pag. 9) come se si potesse bere un tratto di bosco,
alberi e terra filtrata compresi” la pratica di gustarlo in ogni stagione,
si abbina ad un sottile, diafano piacere iterativo, come un drappeggiato abito
corporeo e mentale alla bellezza che non muore (v. pag. 12): “Magari mille altre cose ci abbandonano, persone e volti che si
perdono, ma qualcosa resta. Una abitudine buona. Un modo per inanellare i
giorni, altrimenti persi come un filo di perle che una donna portava intorno al
collo e che una sera si ruppe, lanciando in terra una cascata di palline
bianche.”
Talete
di Mileto, filosofo della “physis”, sostenne che il principio originario di
tutte le cose fosse l’acqua; qui l’elemento scorrevole include allegoricamente
la simmetrìa e dissimmetrìa dei sentimenti umani, effondendo dalle righe il
desiderio di comporne e distenderne dissìdi e incongruenze, rendendoli fiumali,
invariabili accordi senza fine. Ma il libro è anche un invito, contro i vasi
incrinati della felicità, a dissetarci alla gestuazione rituale della
semplicità del quotidiano, incollandoci alla magìa del lento osservare, del
calmo sorseggiare, quasi a risolvere lo scollamento profondo tra interno ed
esterno. È anche questo, credo, il tentativo di ricomposizione dell’essere che
Carla Cirillo coltiva, unitamente a quello di una compiuta compenetrazione col
Tutto.
“Vorrei bere questa donna
liquefatta nella mia tazza” – dice il protagonista del racconto a pag. 36 –
benché il sistema iconico acquattato e formulato nel messaggio traduca,
condensandolo, il suo e il nostro sogno di integrarci con ciò che ci circonda,
deglutendo differenze, distanze, contenuti e complessità.
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