giovedì 19 gennaio 2012

Su Liquida di Carla Cirillo

Faraeditore, Euro 11,00

recensione di Monia Gaita

È una scrittrice raffinata Carla Cirillo, capace di coadunare nelle proprie sistematiche e sorvegliate considerazioni, l’insanabile coppia opposizionale amore/impossibilità gorghiane dell’amore. In questi deliziosi racconti il tè, il caffè, la cioccolata calda e i liquori non solo consacrano precisi momenti della giornata campiti a colori cangianti e vivaci, ma istituiscono e assicurano una vera e propria scienza infallibile della liquidità naturale e sensibile. Agognando di cogliere il diàpason della totalità del reale, la narratrice supera la propria agnosìa visiva, acustica e tattile di certezze, affidandosi all’aroma sfrontato, cannoso, ambiguo, erbaceo e terrigno delle bevande assaporate, illudendosi o convincendosi forse, che ingerirle le consenta di accedere ad incidenze di soave leggerezza mai sperimentate (v. pag. 19): “Bevve il nuovo caffè. L’amaro della buccia d’arancia si impose su quello dell’arabica diffondendosi rapidissimo sul palato e nel naso. Se l’intento della nuova bevanda era quello di ricordare un agrumeto, era andato a buon fine. Per alcuni istanti il giardino si riempì di arance ai suoi occhi: alberi grondanti di arance piene e mature, arance in ceste sui tavoli, un pavimento di arance sulla ghiaia del giardino e un cielo bombato di arance.” Così, se il tè sa: “Di buono, di bosco, (v. pag. 9) come se si potesse bere un tratto di bosco, alberi e terra filtrata compresi” la pratica di gustarlo in ogni stagione, si abbina ad un sottile, diafano piacere iterativo, come un drappeggiato abito corporeo e mentale alla bellezza che non muore (v. pag. 12): “Magari mille altre cose ci abbandonano, persone e volti che si perdono, ma qualcosa resta. Una abitudine buona. Un modo per inanellare i giorni, altrimenti persi come un filo di perle che una donna portava intorno al collo e che una sera si ruppe, lanciando in terra una cascata di palline bianche.”
Talete di Mileto, filosofo della “physis”, sostenne che il principio originario di tutte le cose fosse l’acqua; qui l’elemento scorrevole include allegoricamente la simmetrìa e dissimmetrìa dei sentimenti umani, effondendo dalle righe il desiderio di comporne e distenderne dissìdi e incongruenze, rendendoli fiumali, invariabili accordi senza fine. Ma il libro è anche un invito, contro i vasi incrinati della felicità, a dissetarci alla gestuazione rituale della semplicità del quotidiano, incollandoci alla magìa del lento osservare, del calmo sorseggiare, quasi a risolvere lo scollamento profondo tra interno ed esterno. È anche questo, credo, il tentativo di ricomposizione dell’essere che Carla Cirillo coltiva, unitamente a quello di una compiuta compenetrazione col Tutto.  
“Vorrei bere questa donna liquefatta nella mia tazza” – dice il protagonista del racconto a pag. 36 – benché il sistema iconico acquattato e formulato nel messaggio traduca, condensandolo, il suo e il nostro sogno di integrarci con ciò che ci circonda, deglutendo differenze, distanze, contenuti e complessità.

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