giovedì 19 gennaio 2012

Su El Djablo di Roberto Morpurgo

Puntoacapo, Novi Ligure, 2009

 Nota recensiva del curatore Ivano Mugnaini 


I racconti di Roberto Morpurgo hanno la capacità di collocarsi in quella dimensione specifica, quella terra sottile e fascinosa, compresa tra gli oceani della verità e della fantasia. Il rischio potrebbe essere quello delle sabbie mobili: ossia la perdita della consistenza delle due dimensioni specifiche, quella concreta e quella che potremmo definire onirica. Ma il vantaggio, i frutti potenziali di quel suolo specifico sono notevoli: il potere dell'immaginazione nutre di sé anche la dimensione reale, trasfigurandola, mettendone in luce aspetti di rigogliosa esuberanza. Ebbene, grazie ad una serie ampia e generosa di dettagli che contribuiscono ad evocare in modo possente il "colore locale", Morpurgo sa evitare benissimo il rischio a cui si è fatto cenno e sa esplorare e coltivare altrettanto bene le potenzialità del terreno narrativo che ha scelto e generato.
Si tratta di un gioco di prestigio, un inganno, un trucco, le carte si muovono veloci, la mano è più rapida dell’occhio. E ciò che sembra non è, o, almeno, non è come si pensa possa e debba essere. E, nello stravolgimento, nel ribaltamento delle attese, c’è lo spazio della sorpresa, la visione del reale e dell’immaginario, del vero e del falso, la cronaca di mondi possibili e la metafora propria di ogni arte. Morpurgo è autore che ragiona costantemente su ciò che scrive, e, nell’atto di pensare, crea di nuovo, rimescola ulteriormente grafemi, significanti e significati, descrizioni e metafore. Ne sono ulteriore prova e conferma le parole con cui, commentando il suo El Djablo, sposta i confini, esplora nuovi orizzonti di senso e suggestione, pur restando nell’alveo di una creazione che ha nella sua natura multiforme e polisemica uno dei suoi punti di forza.

Erratico come don Chisciotte, patetico come Sancho Pancha, il protagonista che diede il suo nome a questo libro – l’ubiquo e omonimo protagonista di El Djablo: non consiste se non in una lettera – un lapsus alfabetico. Fedele alla propria origine, il diavolo di cui narra il quasi omonimo libro si conferma buon consigliere, nonché ottimo commensale di avventure. Diciannove in tutto, a parte la sua stessa, la meno intrinseca e significativa. È altresì raro che un libro scelga una lingua per elogiarne un’altra, e segua un sentiero per incaricarlo di dimostrare l’assenza del Santuario (assenza riscattata poi però dalla invadente  tenacia del Pellegrino). Santuario che il Lettore ritroverà in forma di simulacro nelle rade pagine di Maison la Muerte; Pellegrino che incontrerà in ogni riga di El Fátima; sentiero che seguirà,  perdendovisi, fra i meandri dei molti El (El Maquillador, El Coquillador, El Mono, El Borracho…) che – quasi a rinnovarci il ricordo dell’omonima pellicola di Luis Buñuel – monotoni annunciano la goffa e inemendata mascolinità dei personaggi nominati. El Djablo è un libro in prosa ma non un libro di prosa: è, infatti e opportunamente, una lunga versificazione dello spazio che di esso spazio – della sua originaria orizzontalità – profitta e sottilmente abusa. Il tempo vi scorre lento, o frenetico ma come un’ondina di risacca, e ignavo o consolatorio come la foglia che al posto della Mela sarebbe caduta su Isaac Newton,  non avesse egli preteso di emulare Guglielmo Tell. Ecco un eroe che la pur sempre lodevole Lettrice mai troverà in queste pagine unanimi, cosmopolite o ispaniche che dir si voglia: e perciò non ticinesi. Vi fa difetto la serietà cronografica del Logos addotto a surrettizia giustificazione dell’Ingranaggio: vi mancano i banchieri, i bancari, i bancarottieri. I fallimenti di cui narra El Djablo sono infatti sempre misticamente vittoriosi: né alle sue vittime si potrebbe chiedere miglior riscatto che quello di essersi lasciate enumerare, escutere, elogiare.  E le vittime di cui discorre non son poi se non vittime di sé stesse, sebbene mai, guai a pensarlo, capaci degli ilari triviali truismi che ammiccano nell’astemio Chi è causa del suo mal, pianga sé stesso. Carmen, Estèban, Estrella, Ninguno - l’asino di Amecameca, la scimmia sacrificale di El Mono…piangono per la gioia di una vanità iperbolica – sovrana – priva di senso e così di rimedio. Non certo per illustrare, con il Proverbio, il proverbiale cinismo dei Popoli alloggiati dal Globo a sud di Thule.


La “nota creativa” dell’autore lo ribadisce: i racconti di El Djablo hanno luogo in un mondo "ispanico" in senso ampio e ben connotato: c'è il Messico, gli Aztechi, gli indios e i conquistadores, c'è Cuba, l'isola di sogno, aspra e autentica, c'è il dolore e le vicende di sopraffazione, lo scontro tra civiltà diverse.  Morpurgo sa dare un aspetto credibile alle storie che narra: inserendo brani in lingua spagnola e note in cui spiega con cura tutti i risvolti delle storie, compreso il legame tra verità e leggenda, quel sapore specifico di un mondo che combatte la pena e il sangue versato costruendo, con pathos ed ironia, una realtà parallela, non meno autentica, non meno assetata di vita, fino al punto in cui il realismo si fa magico, e le due dimensioni si fondono, creando mondi possibili, privi di confini, non più soggetti alle leggi della logica e del tempo. Coerente con il progetto e l'intento di condurre il lettore in questo mondo esotico eppure concreto e verosimile, Morpurgo plasma in questi suoi racconti un linguaggio ad hoc, scorrevole e tuttavia ricco, come un albero con foglie e fiori coloratissimi. Alterna a frasi di pura e semplice descrizione degli eventi, altre espressioni che costantemente ci chiamano in causa, invitandoci ad accettare il gioco e la sfida narrativa per eccellenza, quella tra immedesimazione e straniamento. È un linguaggio forte, quello di Morpurgo, adatto a rappresentare le vicende di terre in cui tutto, il sole, i paesaggi, gli errori e gli orrori, i sogni e le verità, appaiono giganteschi, colossali. C'è sangue e sofferenza, in molte delle storie narrate, ma, ugualmente vivida e nitida, c'è un'ironia più che mai essenziale, salvifica. Perfino il male, immenso anch'esso, viene inglobato nel panorama e nel solco narrativo: diviene simile ad un toro infuriato lanciato contro il sogno, contro la volontà dell'uomo di vivere e gioire. Ma, come per le popolazioni indios minacciate dall'invasione spietata di popoli stranieri, Morpurgo lo indica, lo fa comprendere tra le righe, la salvezza è in ciò che nessun potere oppressore può sterminare: la fantasia, la capacità di creare storie e leggende, inventate eppure più vere del vero: la salvezza, se c'è, è nella parola: "La Aleph es verdad, es siempre una A... entiendo un Principio... serà el Fin a maravillarlos todos", scrive Morpurgo. La parola si muove tra verità e sorpresa, tra il reale e l'inatteso. E questo libro di racconti conferma, con passione ed efficacia, quanto ampio e fertile possa essere il confine che separa ed unisce queste due dimensioni.


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