Nota recensiva del curatore Ivano Mugnaini
I racconti di Roberto Morpurgo hanno la capacità di collocarsi in quella dimensione specifica, quella terra sottile e fascinosa, compresa tra gli oceani della verità e della fantasia. Il rischio potrebbe essere quello delle sabbie mobili: ossia la perdita della consistenza delle due dimensioni specifiche, quella concreta e quella che potremmo definire onirica. Ma il vantaggio, i frutti potenziali di quel suolo specifico sono notevoli: il potere dell'immaginazione nutre di sé anche la dimensione reale, trasfigurandola, mettendone in luce aspetti di rigogliosa esuberanza. Ebbene, grazie ad una serie ampia e generosa di dettagli che contribuiscono ad evocare in modo possente il "colore locale", Morpurgo sa evitare benissimo il rischio a cui si è fatto cenno e sa esplorare e coltivare altrettanto bene le potenzialità del terreno narrativo che ha scelto e generato.
Si
tratta di un gioco di prestigio, un inganno, un trucco, le carte si muovono
veloci, la mano è più rapida dell’occhio. E ciò che sembra non è, o, almeno,
non è come si pensa possa e debba essere. E, nello stravolgimento, nel
ribaltamento delle attese, c’è lo spazio della sorpresa, la visione del reale e
dell’immaginario, del vero e del falso, la cronaca di mondi possibili e la
metafora propria di ogni arte. Morpurgo è autore che ragiona costantemente su
ciò che scrive, e, nell’atto di pensare, crea di nuovo, rimescola ulteriormente
grafemi, significanti e significati, descrizioni e metafore. Ne sono ulteriore
prova e conferma le parole con cui, commentando il suo El Djablo, sposta i
confini, esplora nuovi orizzonti di senso e suggestione, pur restando
nell’alveo di una creazione che ha nella sua natura multiforme e polisemica uno
dei suoi punti di forza.
Erratico come don Chisciotte, patetico come Sancho
Pancha, il protagonista che diede il suo nome a questo libro – l’ubiquo e
omonimo protagonista di El Djablo: non consiste se non in una lettera – un
lapsus alfabetico. Fedele alla propria origine, il diavolo di cui narra il
quasi omonimo libro si conferma buon consigliere, nonché ottimo commensale di
avventure. Diciannove in tutto, a parte la sua stessa, la meno intrinseca e
significativa. È altresì raro che un libro scelga una lingua per elogiarne
un’altra, e segua un sentiero per incaricarlo di dimostrare l’assenza del
Santuario (assenza riscattata poi però dalla invadente tenacia del Pellegrino). Santuario che
il Lettore ritroverà in forma di simulacro nelle rade pagine di Maison la
Muerte; Pellegrino che incontrerà in ogni riga di El Fátima; sentiero che seguirà, perdendovisi, fra i meandri dei molti
El (El Maquillador, El Coquillador, El Mono, El Borracho…) che – quasi a
rinnovarci il ricordo dell’omonima pellicola di Luis Buñuel – monotoni annunciano la goffa
e inemendata mascolinità dei personaggi nominati. El Djablo è un libro in prosa
ma non un libro di prosa: è, infatti e opportunamente, una lunga versificazione
dello spazio che di esso spazio – della sua originaria orizzontalità – profitta
e sottilmente abusa. Il tempo vi scorre lento, o frenetico ma come un’ondina di
risacca, e ignavo o consolatorio come la foglia che al posto della Mela sarebbe
caduta su Isaac Newton, non avesse
egli preteso di emulare Guglielmo Tell. Ecco un eroe che la pur sempre lodevole
Lettrice mai troverà in queste pagine unanimi, cosmopolite o ispaniche che dir
si voglia: e perciò non ticinesi. Vi fa difetto la serietà cronografica del
Logos addotto a surrettizia giustificazione dell’Ingranaggio: vi mancano i
banchieri, i bancari, i bancarottieri. I fallimenti di cui narra El Djablo sono
infatti sempre misticamente vittoriosi: né alle sue vittime si potrebbe
chiedere miglior riscatto che quello di essersi lasciate enumerare, escutere,
elogiare. E le vittime di cui
discorre non son poi se non vittime di sé stesse, sebbene mai, guai a pensarlo,
capaci degli ilari triviali truismi che ammiccano nell’astemio Chi è causa del
suo mal, pianga sé stesso. Carmen, Estèban, Estrella, Ninguno - l’asino di
Amecameca, la scimmia sacrificale di El Mono…piangono per la gioia di una
vanità iperbolica – sovrana – priva di senso e così di rimedio. Non certo per
illustrare, con il Proverbio, il proverbiale cinismo dei Popoli alloggiati dal
Globo a sud di Thule.
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