lunedì 29 novembre 2010

Poesia e Post-Modernità


 intervento di Caterina Camporesi al  Festival Poesia civile Vercelli 26 settembre 2010

Non si può non cominciare con una domanda: è ancora possibile coltivare nella società postmoderna l'ambizione di fare poesia civile come era fortemente convinto negli anni cinquanta del secolo scorso Sartre, quando la società era solida, leggibile e lasciava intravvedere la sua struttura e una realistica evoluzione?
Ora le categorie di spazio tempo, che fanno da cornice allo svolgimento della storia, sono completamente stravolte.
I metodi tradizionali per conoscere il sistema, se non se ne fa parte, non portano a nessun risultato concreto.
La capacità di controllare il contesto sociale è quindi irrisoria, pertanto le soluzioni individuali che si rendono disponibili non intaccano minimamente le contraddizioni globali.
Certamente la poesia è una delle poche attività che qualche volta è in grado di “svelare” le contraddizioni, almeno quelle linguistiche, del potere che comunemente reagisce nel solo modo che conosce, indurre al silenzio Infatti la poesia, come suggerisce Pierangelo Scatena, “ha anche la proprietà di sovvertire l'ordine e il senso del discorso comune, di usare la lingua in modi inconsueti ed eversivi, di fare balenare altri mondi, di mostrare altre possibilità di sentire e di conoscere”.

La società di oggi è vista e vissuta, come una rete più che come una struttura: una rete democratica che accoglie tutti come fratelli, quella che invece è assente è un'autorità in grado di coniugare tradizione e innovazione, di assumere il compito di giudicare, di selezionare e di orientare.
Nella società di oggi, frammentata, narcisistica e sfuggente è difficile fare esperienze di crescita personale e comunitaria.
Ogni gruppo si caratterizza più per la chiusura che per l'apertura. Poche sono le eccezioni.
Fare esperienza di crescita umana e poetica diventa sempre più aleatorio, perché il tempo, per la presenza simultanea di velocità e precarietà diventa sempre più raro.
D'altra parte il pensiero critico e poetico ha bisogno di latenza per emergere e arrivare a fecondare il mondo.
Adorno diceva che “compito del pensiero critico non è conservare il passato ma realizzare le sue speranze”.
Ma le aspettative e le speranze del passato oggi sono compatibili con le possibilità di realizzazione?
Marco Guzzi ci indica in modo accorato lo scollamento che esiste fra i processi storici ai quali stiamo assistendo e l'assenza di parole per rappresentarli. Siamo, come tutti stiamo percependo, “sulla soglia di un mutamento di portata antropologica, e le cose stanno scavalcando i nomi”, secondo l'espressione di Mario Luzi. Non si hanno parole per dirlo, nondimeno  la poesia è fatta di linguaggio.
Sembra davvero profetica l'esortazione di Wittgenstein a tacere ciò di cui non si può parlare. La parola “poetica”, tuttavia,  è autorizzata a ignorare l'invito poiché essa non può e non deve abdicare al suo compito per eccellenza: catturare, se pure attraverso lampi più o meno opachi, nuovi mondi.


I testi che seguono sono tratti da Solchi e nodi Fara Editore 2008 e da Duende Marsilio 2003
Le parole Spaesamento, Mutamento e Continuità, Solitudine, Libertà, Fare, Condizione umana, via via alludono ai possibili contenuti

senza più riparo fisico e metafisico
nello scavo di acque rotonde

vortici di pensiero si lanciano
in grotte nere

chele di gambero
risalgono la dimora della parola

***

intricati legami
cresciuti a cespuglio

l'albero dai lacerati rami
attende tagli

s'incarna nel sudario
la parola fantasma della veglia

sonora esce dai denti di drago
feconda la lingua dei padri

***

nel braciere delle ragioni
s'infuocano le lingue
dei ceppi di ieri
con quelle dei tronchi di oggi

nel calore degli abbracci
s'illumina l'ultimo guizzo

la nuvola bianca
guida la cenere

semina il solco segnato
dal destino distratto

***

allarga lo sguardo
la vita esiliata

si ricrea nelle celle del pensiero
sconfinando in distese d'abissi

***

non si sarebbe perso il segno
se si fosse costruita
una culla al tumulto

si sarebbe scavato il solco
sulla porta del tempo 

***

la culla di parole
mi dondola ignara
al largo del discorso

e solo al tramonto
mi serra la gola

talora lampi tuoni
mi tempestano dentro

una nuvola nera
gola del golfo
mi oscura

le nostre parole
si avvolgono
sotto il peso di slanci

ospite che riappari
mi ripari ferite
da antichi echi

mi proponi soglie
che nascono dentro arcobaleni.

***

estranea
agli strali del silenzio
rincorro la parola
in bilico tra abissi

con un verso
sigillo la danza
che ardita incalza

e in alto intanto
al canto
lascia la sciagura
il passo

***

l'ambigua legge
resta sempre
comunque dei pochi
a guidare la corsa dei molti
lungo i sentieri della storia

***

la libertà
è un tronco asciutto e corto

un tempo agognata
ed ora svaporata
sui selciati delle strade

percorsi ancora
dagli uomini
con la fatica di sempre

quando
neppure la pioggia dell'utopia
le ha più allagate 

***

fra tante sottili distinzioni
e tutti all'appello
l'umanità è irrisa calpestata divisa

ognuno stringe la propria foglia
di gloria di noia di niente


terra terremotata alza gli occhi
eleva preghiere
calce viva a cementare crepe.

*** 

sorvegliante del vero
dilati idee e pretese

ti logori in esili indizi
dilavi catastrofi

espedienti di niente forano
nuvole sempre imminenti

il neo annidato
sfugge allo sguardo

nel tempo
allarga il suo nero.

***

muore l'orizzonte
sul molo dei millenni

rotolano idee in ogni dove
accerchiano indizi e insidie
opaco il mistero continua
ad imperare 

***

siamo naufraghi impavidi
della ciurma di Ulisse
a tratti sommersi
ora scampati
tra gli scogli scalpitiamo

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