sabato 25 settembre 2010

Su La ianara di Licia Giaquinto

ADELPHI, 2010

recensione di Vincenzo D'Alessio

La giovane poetessa con gli occhi verdi come i gatti, mi diede l’opportunità di presentare, nella Biblioteca civica di Montoro Inferiore, il 21 settembre 1996 il suo primo racconto/ romanzo autobiografico: Fa così anche il lupo (Feltrinelli,1993). Gli studenti furono entusiasti dei brani letti dal volume e scrissero anche dell’incontro, porgendo domande all’Autrice. Fu una giornata memorabile. La scrittrice era tornata dopo molti anni, tanti studi, una diversa identità sociale, nei luoghi che l’avevano vista protagonista. Il romanzo prendeva spunto dall’evento appena trascorso: il sisma del 23 novembre 1980.
Oggi, l’Autrice, ripropone un altro romanzo/racconto: La ianara, ricco di risvolti storico-geografici; un vero decalogo antropologico di modi di dire dialettali, di formule magiche, scongiuri; un excursus nelle vicende che hanno formato la sua infanzia, costruendo un palazzo abitato dalle figure più strane, ambigue, familiari. Un vero momento epifanico, come nel primo romanzo, dove le figure della nonna e della madre si annodano in formula ancestrale e perfetta di continuità sociale. Le ianare ci sono ancora oggi nella nostra Irpinia. Come molti dei riti e dei frammenti di quella magia sono, in modo coriaceo, persistenti nelle aree interne a conduzione contadina.
La Giaquinto scrive sull’onda dei ricordi, come fanno gli emigranti: il passato è un mito perenne, indissolubile, come le parole utilizzate, nel dialetto irpino, all’interno del presente romanzo: andare ‘a maesta (imparare il mestiere del ricamo, del cucito, dei guanti); ‘o ntruglio, ‘o nguacchio (intrugli); ‘a mappatella (il sacco con la poca roba dentro). Oppure le formule in dialetto: “Terra ‘e punente addà murì chianu chianu chistu fetente” (Terra e vento di ponente deve morire pian pian questa persona ingrata); “Scarpa scarpone, scapezzate pe’ ‘stu vallone” (Scarpa, scarpone, che tu possa finire nel baratro). Tutte pratiche collegate alla civiltà contadina del meridione. A questo punto viene alla mente il trattato antropologico Sud e magia (1959) di Ernesto De Martino, oppure i tre atti teatrali del Macchiavelli dal titolo La Mandragola (1518).
Nel romanzo questa volta l’avvenimento richiamato, e reale, come nel primo romanzo, è la costruzione della superstrada che collega Salerno ad Avellino, portata a compimento negli anni sessanta, che attraversa tutta la valle di Montoro, luogo mitico della Nostra, a coinvolgere in qualche modo anche tutta l’area irpina attraversata in quegli anni dalla costruzione di autostrade. I luoghi richiamati sono visibili ancora oggi: il Toppolo, la Toppola, sono colline; la Chiesa di San Michele e Solofra sono ancora lì; i luoghi come il Pizzo San Michele (o dell’Angelo), la Starza, sovrastano Montoro; le cittadine di Avellino, Vietri Sul Mare (con le sue maioliche), Benevento (con le sue streghe), Taurasi, Mirabella Eclano, Ariano Irpino, Sant’Angelo dei Lombardi, Paternopoli, ecc. sono tutte collocate lungo la dorsale appenninica che unisce Campania, Puglia e Basilicata.
Il romanzo, imperniato sulle superstizioni secolari, sull’ignoranza della povera gente di campagna, si veste di metafore e analogie che la scrittrice trae dal proprio cassetto: cose vecchie e cose nuove. È il caso della tana dove si rifugia Adelina (la ianara per discendenza, impossibilitata a sfuggire al suo destino) che riporta al mito dell’utero materno, della Mater Matuta delle popolazioni sannitico-campane; il mito dell’uva, sangue della terra, al quale viene sacrificato il piccolo corpo di Lisetta, la mendicante anch’ella un po’ ianara; il mito della reincarnazione dopo la morte in forme diverse di energia, secondo la prima vita vissuta. Un corollario antico che viene proiettato nel mondo contemporaneo con la consapevolezza di stupire il lettore, ammaliarlo, fino al punto di fargli provare la medesima angoscia che si agita nei personaggi e muove il loro destino.
Il Destino, il fato, ineluttabile. La lettera, il messaggio e il messaggero (Mercurio). La provocazione nel lettore a seguire con attenzione, passo dopo passo, lo svolgersi delle vicende che affliggono i personaggi e la massa, incorporea, che li circonda. Aristocrazia e povertà, il micidiale antagonismo che ha mosso per millenni la nascita di leggende, di tesori nascosti, di violenze e omicidi.
Chi è veramente la ianara? Chi è stata, questa povera figura, nel corso dei secoli? Dove sono sepolte le ianare? In luoghi sconsacrati come, per i dannati, il luogo denominato “L’acqua Troisi”?
Le pratiche esoteriche sono parte integrante della medicina antica. Lo dimostrano tante ricerche scientifiche e l’infelice sorte toccata a chi li praticava, specialmente l’aborto clandestino che ha afflitto le genti contadine da sempre. Ne ha scritto un bel saggio, in questi anni, la ricercatrice Maria Giovanna Vitale, con il suo Montoro fede e magia (Ed. G.C.F. Guarini, 2005), ripotando l’uso di queste pratiche vive ai giorni nostri.
Licia Giaquinto in questa nuova prova di scrittura porge al lettore, senza nessuna remora, una lingua creola: italiano e dialetto convivono in armonia perfetta. La Nostra consegna il testamento autorevole, vista la posizione raggiunta in seno al mondo letterario nazionale, sulla fine della civiltà contadina, proprio come la vide Pier Paolo Pasolini, nei giorni del suo contatto con il Sud della nostra penisola: “Adelina girava per boschi e campi e vedeva che la rovina avanzava ovunque. Sterpi gramigne ortiche invadevano le aie. Violacciocche spuntavano dalle crepe dei muri delle case abbandonate dei contadini. Sentiva crollare solai sotto il peso della neve. Vedeva crescere arbusti sui tetti. Tane di animali selvatici spuntavano dappertutto, al posto dei vigneti erbe selvatiche ricoprivano i terreni, e sterminati campi di papaveri proliferavano d’estate al posto del grano” (pag. 81). Una bellissima descrizione prima dell’avvento dell’industrializzazione che ha cancellato sul finire degli anni sessanta anche quel che restava.
Ho voglia di ricordare un altro bellissimo romanzo, scritto da mani femminili, che ci consegna la storia delle nostre contrade. È il romanzo di Mariateresa Di Lascia Passaggio in ombra (Feltrinelli,1995) vincitore del Premio Strega nel medesimo anno. Mi sento di augurare, alla Nostra, di raggiungere traguardi sempre più vasti come bella ianara dagli occhi smeraldo.

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