mercoledì 4 agosto 2010

Storie minime e infinite


di Mario Fresa

Maria Pina Ciancio, Storie minime e una poesia per Rocco Scotellaro, collana «Sia cosa che», Fara editore, 2009, pp. 48, euro 10.

Scrivere è indovinare l’attimo arcano in cui si sovrappongono l’inimmaginabilmente grande e l’infinitesimale. Perciò, nella scrittura è sempre vivo un gioco di affettuose corrispondenze, di interne e inevitabili contraddizioni (l’esserci e il morire; la concretezza e la lontananza; il ricordo e la contingenza; il desiderio e la realtà). La poesia di Maria Pina Ciancio descrive questo smarrirsi dentro il liquido movimento di chi è diviso tra la materia del presente e le riposte sembianze della memoria: l’emigrazione dalla terra avita è il segno e l’immagine di un percorso che tocca ognuno di noi (poiché ognuno di noi ama e rincorre; e ognuno di noi perde o trasfigura ciò che ama e rincorre; e ognuno, ancora, si allontana dalle origini e ricerca una continua riparazione, e brama una costante ricucitura). Maria Pina Ciancio ricorda al lettore, dunque, un ruolo essenziale per la lingua poetica: quello di farsi voce che riannoda i legami e che li fa rivivere e tremare, diventando un’esperienza autentica e bruciante; è il ruolo dell’amoroso raccogliere e tramandare, e del limpido, malinconioso guardarsi indietro per riordinare, conservare, ricuperare i tasselli dei luoghi cancellati e feriti dalla cattiva indifferenza di chi resta.
Storie minime è un libro di rimembranze e di partenze. La poesia è proprio questo: è distacco, separazione; è perdere e tramontare; ma è anche felice concordia, combinazione magica di ritrovati vincoli; è unione e rinnovato accordo di legami; ed è pure l’avverarsi di una costante coincidenza di persistenza e di mobilità: cioè di dense comparizioni e di pulviscolari sbriciolamenti.
Nessuno veramente parte o resta: si scivola nel tempo indefinito delle attese e dei preparativi, e la chimera di andare avanti ci fa invece, spesso, tornare indietro o ci fa spingere, con affannosa cura, troppo avanti.
Un viaggio inizia sempre (o meglio: inizia solo, e basta). L’allontanarsi è l’unica, indeclinabile eredità di chi vive. Colui che parte, allora, intende distruggere e poi daccapo ricostruire, finalmente riappropriandosi di ciò che ha dovuto lasciare (e  perfino di tutto ciò che non è mai stato).
Questo è un libro di tenere illusioni mai sopite. Il poeta si presenta sotto la veste di un figlio: la sua forza è nel desiderare di procedere, con un ansioso amore, nella direzione di un riscatto e di un ricongiungimento con la materna e sacra immagine del primo luogo, antico e presente, in cui si è verificato il dono dell’apprendere, dell’imparare (ad esempio le parole dell’infanzia, sempre indelebili e oscure; e i passi incerti delle scoperte; e le intense rivelazioni delle remote, indistruttibili amicizie).
Ecco il destino vero della poesia: emigrare e ritornare; cancellare e raccogliere; dimenticare e amare. Maria Pina Ciancio conosce molto bene questo sforzo curioso di vivere l’inquietudine di una precaria dimensione, fitta di troncamenti e di ricomparse, di commiati e di riprese: «facciamo percorsi lunghi / per ritornare sempre all’inizio», e il segreto di questo interrogarsi poi ci rende, contemporaneamente, immobili e infanti.
Noi siamo desti e dormienti – ogni cammino è eracliteo; e irredimibile. Ogni paese sognato e ritrovato «giace in frantumi»  (così come dice Scotellaro) ed è altro e irrecuperabile, se non con la felice presenza del poeta che racconta, ricuce, tramanda e risana.


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