venerdì 24 ottobre 2008
INSEGNARE AGLI IGNORANTI
di Nicola Di Paolo
Pubblichiamo, con riconoscenza verso l'autore (nostro amico/compagno di avventure e lotte), uno dei quattordici racconti - come le quattordici opere di misericordia corporale e spirituale - che costellano il suo ultimo libro, Il primato della pietà, edito da FaraEditore. Narra in modo soffice e garbato, pure al contempo tenace e deciso, il mondo dell'istituzione scolastica e i suoi protagonisti: studenti, docenti e non docenti, genitori. Ma soprattutto fa "vivere" in Marcello, Mariella e Donato - i protagonisti del racconto - un mondo nuovo già presente nei nostri cuori. Grazie, Nino.
Mise piede nel mondo della scuola, ma dall’altra parte, a metà settembre del 1982.
Classe 1964, la sua prova orale per il conseguimento del diploma magistrale si era tenuta il 12 luglio, due mesi prima.
La notte precedente l’esame non dormì, come quasi nessuno, peraltro.
Tutta l’Italia stava festeggiando l’evento. Soltanto le persone più anziane avevano memoria delle vittorie del 1934 e del 1938, vittorie senza televisione e senza automobili a strombazzar per strada. Questa era una vittoria a colori, in diretta ed alquanto rumorosa.
La Commissione fu di manica larga con tutti, quel giorno.Marcello si mise in tasca un bel quarantotto.Quarantotto sessantesimi era un otto pieno, un voto che, in quattro anni, aveva visto una mezza dozzina di volte in tutto, più frequentemente in latino che in italiano o in matematica.
Un maestro, in un mondo di maestre, è come un animale in via di estinzione, curato, coccolato
e protetto.
Il suo accesso ai ruoli di insegnamento fu,così, relativamente agevole : prima le rituali supplenze, poi uno degli ultimi treni per la “sistemazione”, arrivata nell’anno scolastico 1989-1990.
Nel 1990 si iscrisse, da privatista, al “quinto anno”, quello che gli permetteva di accedere ad una facoltà universitaria.
Il “pianeta elementari” era caratterizzato, per i bambini, dall’acquisizione di alcuni fondamentali strumenti intellettivi: l’appropriazione dei numeri e delle lettere in prima, la memorizzazione delle tabelline verso la fine della seconda, le tecniche per la divisione a due cifre in quarta, le parti del discorso, progressivamente fino alle coniugazioni verbali, al loro punto più complesso (i tempi del modo congiuntivo) e ad un primo abbozzo di analisi logica in quinta.
L’innato senso di competizione tra bambini era sostenuto dalla gratifica della valutazione positiva, nonostante l’atteggiamento tendenzialmente materno di buona parte del corpo insegnante non pareva desse peso all’aspetto premiale del rapporto tra il bambino e lo stimolo alla conoscenza.
La facoltà a cui si iscrisse era quella di storia.
Raggiunse la laurea in otto anni , molti, ma indispensabili per chi deve coniugare studio e lavoro.
Aveva completato tre cicli didattici e portato, quindi, dalla prima alla quinta tre classi di bambini.
In quei quindici anni aveva imparato a memoria in quale fase della loro crescita gli scolari erano più “recettivi” ed in quali, invece, erano più “intrattabili”.
Osservava che alcune sue colleghe, nonostante fossero in servizio da più tempo di lui, continuavano a meravigliarsi dell’irrequietezza dei piccoli, come dimenticando che quelli del ciclo precedente erano diventati scatenati esattamente nello stesso momento rispetto a coloro che erano passati di lì cinque, dieci o quindici anni prima.
Avevano tra le mani strumenti di distrazione diversi, dai meno ai più tecnologici, ma il richiamo della foresta si percepiva sempre nello stesso momento.
Nelle riunioni con i genitori, le frasi che, fatalmente, sentiva ripetere da buona parte dei suoi colleghi erano: “Rispetto allo scorso anno scolastico la classe, per ciò che riguarda l’apprendimento non è peggiorata, ma il comportamento…”
I genitori manifestavano tre tipi di reazione.
C’era chi alle assemblee di classe non veniva proprio.
C’era chi veniva e non parlava neppure sotto tortura, per il sospetto che ogni cosa avesse detto si sarebbe ritorta contro i propri figli.
C’era il babbeo che invocava, puntualmente, un atteggiamento sempre più severo della scuola verso gli indisciplinati, individuati, ovviamente, sempre nei figli degli altri e mai nei propri.
Gli unici argomenti che i genitori maneggiavano con impareggiabile competenza erano le gite
scolastiche e la gestione del fondo-cassa per la festa di fine anno o per l’acquisto della carta igienica e dello Scottex che, notoriamente, a scuola non bastano mai.
La discussione, quando si apriva, si svolgeva in senso pressoché univoco : il genitore entra timido ed esce bastonato, pieno di sensi di colpa per il comportamento dei figli.
Mai una domanda sulla didattica o sui progressi intellettivi dei bambini.
Nessuna comunicazione di contenuto tra i detentori della scienza pedagogica ed i portatori d’ansia ed ignoranza.
Periodicamente, arrivavano direttive elaborate congiuntamente da autorità scolastiche superiori e servizi sociali dell’ASL per “monitorare” i comportamenti “sospetti” dei bambini, sintomatici di possibili abnormi comportamenti delle famiglie.
In alcuni momenti, a Marcello pareva di essere soltanto una rotellina dell’ingranaggio.
Sapeva riconoscere fin troppo bene una richiesta d’aiuto da parte di un bambino e per questo era allergico alle campagne “ a tappeto” dove l’obiettivo del progetto era di scovare un numero minimo di situazioni “difficili”.
Per non parlare dei giudizi valutativi: quello che, per un bambino, veniva partorito in prima
elementare arrivava, in fotocopia, spesso e volentieri, fino alla terza media.
Insomma, vi era tutta una serie di protocolli e consuetudini che gli stavano stretti, soprattutto
quando pensava al motivo per cui si era convinto ad intraprendere gli studi che aveva intrapreso ed il lavoro che aveva scelto e trovato: suscitare nei bambini il desiderio della conoscenza e provare a dar loro gli strumenti per soddisfare questo bisogno.
Si accorse che, invece, il sistema-scuola tendeva, prima di tutto, a riprodurre se stesso, anche
adattandosi al nuovo, ma sempre per riprodurre se stesso.
E si chiedeva continuamente: “Qual è il segreto per far scattare la molla di ‘sto benedetto desiderio di conoscenza?”
La genetica e la volontà erano argomenti che non gli bastavano.
Dove si nascondeva la vera molla ?
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Mariella, nel 1989, si era trovata senza lavoro.
La piccola fabbrica metalmeccanica dove, come impiegata, curava la contabilità, aveva chiuso.
A trentasette anni, con due figli, uno dei quali, finite le medie, era apprendista idraulico, dopo aver cercato, per sei mesi, nuove occupazioni, aveva deciso infine di non insistere.
I redditi del marito e del figlio grande, oltre alla proprietà della casa in cui vivevano, glielo
consentirono.
La cura del sistema-famiglia portava via quasi tutta la giornata.
A Mariella, però, sembrò indispensabile anche trovare uno spazio nel quale mettere a frutto la sua capacità intellettuale.
Nel quartiere in cui abitava, alcuni suoi coetanei avevano aperto, da tempo, un centro culturale che rivolgeva il suo fare alle diverse problematiche degli abitanti del paese, dalla salute alla vivibilità dell’ambiente, dall’istruzione degli adulti all’aiuto scolastico di bambini e ragazzi.
Il Centro era funzionante da diversi anni, Mariella ne aveva presente vagamente le attività, anche se solo per la conoscenza personale con alcuni dei promotori, suoi ex compagni di classe.
Sapeva che tutti coloro che partecipavano non ricevevano alcun compenso e che le attività “di
servizio” non comportavano alcun costo per coloro che ne beneficiavano.
Si offrì di collaborare, per due pomeriggi la settimana, al doposcuola della seconda media.
C’erano, compresa lei, tre adulti e sette ragazzi.
L’immagine che si era fatta del suo servizio era di un volontariato attraverso il quale porgeva il
suo sapere a poveri bambini che, essendo meno dotati di altri, si rivolgevano a lei con riconoscenza ed ascoltavano, attenti, tutto ciò che veniva loro spiegato.
Ben presto si accorse che nessuno di questi pensieri collimava con la realtà.
Intanto il suo sapere non coincideva più, o soltanto lontanamente, con il sapere presentato dalla scuola a queste nuove generazioni.
“Ma la prof. vuole che diciamo…” si sentiva ripetere continuamente.
Tutti i compiti erano un rispondere a questionari, un completare frasi, un riempire puntini di
sospensione.
Quando provava a far comunicare i ragazzi su di un qualunque argomento tramite un discorso
compiuto veniva immediatamente stoppata da un “ Ma le verifiche non si fanno così !” o da un
“Perché dobbiamo dire tutto e non solo rispondere a quello che ci chiedono?”
Ai ragazzini, comunque, interessava pochissimo, se non nulla, imparare gli argomenti proposti: il loro problema era di ottenere il massimo risultato con sforzo uguale a zero; quindi copiavano, le chiedevano di fare i compiti per loro, attivavano il cervello solo per studiare come evitare di attivare il cervello.
Il rapporto tra loro durante le due ore di doposcuola era sempre conflittuale: dispetti, dispettucci, testa apparentemente altrove.
Dopo meno di due mesi la domanda che avrebbe voluto rivolgere ai ragazzi, che la tormentava, cheaveva sempre lì pronta sulla punta della lingua e che, però, si tratteneva a pronunciare era:
“Ma se non ve ne frega niente perché venite qui ?”
Non la esprimeva perché temeva che, veramente, non sarebbero venuti più.
Si dovette ricredere, dunque, anche sul concetto di volontariato; il suo fare non poteva più essere semplicemente finalizzato alla riuscita scolastica dei ragazzi, men che meno un supporto alla scuola.
L’unico senso che poteva avere era quello di una battaglia per far nascere, nei ragazzi stessi, quel minimo benedetto (ancora lui) desiderio di conoscenza che, non si capiva, se non avevano mai avuto o se, in loro, fosse stato distrutto dalla scuola, dalle pulsioni dell’età o da tutte e due le coseinsieme.
Quindi non c’era proprio nessun volontariato: c’era solo la lotta per il sapere contro le realtà che soffocavano il piacere di sapere.
Capì che essere d’aiuto ai ragazzi comportava il combattere contro quello che avevano in testa, ma stando dalla loro parte, senza se e senza ma, e facendoglielo capire.
In realtà, essi l’avevano capito fin troppo bene.
Come mai, altrimenti, continuavano a venire se non per il fatto che lì nessuno li giudicava e per il fatto che venivano presi per quello che erano e non valutati per il loro profitto o per il loro
comportamento ?
Mariella dedicò tutti i successivi anni della sua vita a quel tipo di intervento, entrando in relazione con diverse decine di bambini e ragazzi, riuscendo a comunicare con alcuni e non riuscendo a comunicare con altri, ad essere accettata da alcuni e non accettata da altri.
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Nel 1999, Donato, che Mariella aveva seguito nel periodo delle medie, decise, a ventidue anni,
di voler prendere la patente.
Aveva terminato a fatica la scuola dell’obbligo, segnato fin dai primi anni come soggetto dal quoziente intellettivo inferiore alla norma, lento nella comprensione e nei riflessi.
Dopo la terza media fu inviato ad un Istituto diurno per ragazzi con leggeri handicap psichici.
Rimase parcheggiato lì fino a diciotto anni, poi restò a casa, davanti alla televisione.
Aveva, però, il chiodo fisso della patente di guida.
E si rivolse a Mariella per prepararsi alla sfida della sua vita.
Cercò di non diffondere la notizia ma, si sa, la fama ha le ali ai piedi ed il tam-tam sparse la novella tra i compaesani.
Il sarcasmo si sprecò.
“Donato vuol prendere la patente!”
“Si salvi chi può! “
“Donato vuol prendere la patente?”
“Non ci riuscirà nemmeno tra dieci anni!”
“Donato all’esame di guida?"
“Vogliamo vedere la faccia dell’esaminatore!”
… e così via.
Anche per Mariella era la sfida della vita.
Sfida che, ovviamente,alla fine, risultò vittoriosa.
Donato superò l’esame di teoria al secondo tentativo e quello di guida al primo.
Appena lo seppe, Mariella non trattenne le lacrime.
La motivazione come prima molla della conoscenza.
Non ci sono cretini quando si è alla ricerca di qualcosa di importante.
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Sempre nel 1999, Marcello, finalmente laureatosi,entrò a far parte nel corpo-docenti di una
scuola media.
E ritrovò, centuplicati, i problemi ed i difetti incontrati nella scuola elementare, con l’aggiunta di qualche ulteriore sgradita sorpresa.
Esisteva, nel pianeta scuola-media, una gerarchia ben più marcata che nelle elementari.: il Preside, gli insegnanti delle materie più importanti (lettere e matematica), gli insegnanti delle altre materie, il personale di segreteria, il personale di servizio, i genitori e , buoni ultimi, i ragazzi.
L’insegnante che non riusciva a tener buono uno scolaro lo spediva dal suo superiore, il Preside, il genitore che veniva convocato a scuola doveva, poi, prendere “provvedimenti” verso il figlio, il Preside vietava le “pance nude”, il bidello portava il caffè e via di questo passo.
Inoltre, rispetto all’ambiente in cui aveva operato precedentemente, Marcello notò una minor
comunicazione tra insegnanti anche riguardo all’apprendimento del singolo ragazzo.
Lo scolaro era giudicato prima di tutto sul comportamento che, se censurabile, aveva la sua origine, ovviamente, negli “errori educativi” della famiglia prima che in ogni altra cosa ; poi era giudicato sul profitto che, se insufficiente, aveva la sua origine esclusivamente nella svogliatezza del ragazzo.
Ogniqualvolta Marcello provava a porre la questione della “molla” , del ri-suscitare il desiderio
della conoscenza, veniva guardato con compassione dai colleghi più scafati, quelli che …”se non ti fai rispettare ti sbranano”.
C’era una muraglia pressoché invalicabile tra ragazzi e professori, una muraglia di reciproca
incomprensione, di paure, tra chi temeva di essere continuamente punito e chi temeva che, non punendo a sufficienza, si sarebbe fatto mettere i piedi in testa dall’ultima generazione di bulletti.
Mariella, periodicamente, quando, o accompagnando una mamma, oppure anche da sola, andavaa perorare la causa di qualcuno dei ragazzini che partecipavano al suo doposcuola, veniva vista e “collocata” in una posizione gerarchica a metà strada tra il personale di segreteria ed il personale di servizio, un po’ meno dei primi, un po’ più dei secondi.
Quello che non riusciva mai a comunicare, o meglio, quello su cui, chi l’ascoltava, metteva subito i tappi alle orecchie, erano le proposte pratiche per …
Come quando un non-medico dice una cosa sensata ad un medico: se non hai la scienza (ed il potere della scienza) non puoi dire nessuna cosa giusta o sensata; viene smontata o, più spesso, non ascoltata neppure se sacrosanta.
Nonostante si fosse presentata a scuola già un gran numero di volte, a Mariella prendevano sempre crampi allo stomaco, ma non si scoraggiava e, ripetutamente, ci tornava.
Marcello osservava quella donna che metteva il naso in un mondo non suo e cercò di capire quali fossero le motivazioni di lei, ed anche il suo “segreto”.
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Donato era iscritto alle liste speciali del collocamento.
La sua parziale invalidità gli consentì di essere chiamato, per diversi anni,a svolgere le funzioni di bidello nella scuola media dove lavorava Marcello.
Tutti gli volevano bene ma pochi si mettevano a parlare seriamente con lui: lo consideravano un tontolone, un povero ragazzo che, per fortuna, aveva trovato un lavoro, anche se stagionale e a tempo determinato.
Marcello, viceversa, gli faceva domande su come fosse riuscito ad arrivare lì cosicché Donato gli
raccontò di tutta la sua storia scolastica e dell’esperienza della patente, gli parlò di quella donna che lui, Marcello, non aveva il coraggio di fermare.
Alla fine di giugno del 2006 arrivò a Donato la notizia che, dal successivo anno scolastico, sarebbe stato assunto a tempo indeterminato.
Lo comunicò immediatamente a Marcello invitandolo, per la domenica successiva, il 7 luglio, a
festeggiare l’evento uscendo, in compagnia, a mangiarsi una bella pizza.
Quella sera non fu soltanto una sera da pizza: fu una sera di birre e clacson, come ventiquattro
anni prima.
L’euforia della notte, una notte nella quale di tutto si parlava fuorché di argomenti seri, fece
sbottonare a Donato un’ulteriore confidenza sulla sua vita e sul perché si fosse rivolto a Mariella quando aveva deciso di prendere la patente.
Spiegò che, negli anni del doposcuola, il calore che gli avevano trasmesso Mariella e gli altri
compagni del Centro presentava una caratteristica particolare: quella che i bambini non venivano né premiati né puniti.
Allora non l’aveva capito, se n’era accorto quando, negli anni della frequenza in Istituto, nonostante la “comprensione” nei suoi confronti, veniva gratificato solo quando riusciva nei compiti e ripreso quando non riusciva.
Marcello gli chiese di presentargli Mariella.
E Marcello, senza lasciare il suo lavoro ( i tempi non lo permettevano di certo) andò a cercare, nei suoi pomeriggi, l’avventura di relazioni libere dal premiare e dal punire, libere dalle gerarchie del sopra e del sotto.
Dediche e ringraziamenti: a Sandra , ai compagni dei Centri di Cultura Popolare di Milano e provincia.