lunedì 12 marzo 2012

Su due opere di Francesco Babbini

di Roberto Borghesi




Il crocifisso di Francesco Babbini


Come immaginate il volto di Gesù, sulla croce, appena esalato l’ultimo respiro? Triste, straziato dalle sofferenze, abbandonato al Padre, serio o dimesso? Il volto di Gesù crocifisso nel quadro di Francesco Babbini, è sorridente! Ma quel sorriso non è quello di un uomo finalmente liberato dai patimenti. Quello è il sorriso di un fanciullo, il sorriso di un bimbo che corre a braccia aperte verso il papà. A braccia aperte e gli occhi chiusi, come fa un bambino piccino quando gioca con il grande padre a nascondino e lo ritrova, dopo che questo si era nascosto dietro ad un albero. Ed effettivamente, il Padre sembrava avere abbandonato il figlio, là su quel legno, quella croce alta alta, come la disegna Francesco, alta sui templi e sulle nubi. Una croce di gloria. Il figlio è portato in alto, porta in alto, molto in alto tutto il suo dolore, il corpo martoriato, il corpo dell’amore.
Ma il padre, dov’è? Non c’è?
Gesù sorride come un fanciullo scherzoso. “Guarda bene!”, dice allo spettatore. Aguzziamo gli occhi, ed ecco tra il cielo azzurro, proprio sopra il capo di spine, una aureola discreta come la prima luce del primo mattino, cerchia quel volto sorridente e lo rende ancora più radioso. Gesù è lì, il corpo spento, ma “sente” il padre, è tutt’uno con lui. È già risorto e nessuno se n’è accorto. È troppo presto, per il mondo distratto. Il mondo è qui sospeso in un tempo fuori dal tempo. Non a caso Francesco non ha dipinto nessuna persona. Ciò che Gesù vede ai suoi piedi e sogna, gli occhi chiusi è la sua “chiesa”, i nuovi templi della nuova religione. “Lasciate che i fanciulli vengano a me”, sono le sue parole cui ora il suo volto rimanda. Dopo l’immensa sofferenza, dopo la crocifissione, i chiodi, le spine, il costato, torna il sorriso che aveva nel tempio in mezzo ai dottori, ai quali parlava del Padre e del suo amore. Egli è ora il fanciullo che vince la morte con il sorriso in mezzo ai templi, in alto sopra la Storia.
Chi può dire se i templi raccolti da Francesco siano pieni o siano vuoti?
Il crocifisso è fuori dalla storia e dal tempo; sospeso tra un oceano di nubi e un dolcissimo cielo ora alba, ora tramonto. Quella striscia ai confini del giorno ha una luce che rimanda discreta all’aureola, al Padre. La terra è in pace, e anche i templi sono nella quiete. Il tempo è sospeso nell’attimo infinito. Il Cristo-bambino, forse, sogna? Traballa la certezza tra la realtà e la fantasia, tra il tempo passato e futuro. Dove siamo? Chi è quel crocifisso che sfida il nostro sapere, del morire e del gioire? Le domande non sono inquietanti;quel volto non è rabbuiato. E se anche alla fine, quei templi fossero vuoti, resterebbe quel sorriso sognatore di quel giovane Signore, signore dell’amore infinito di un Padre discreto che fu creduto capace di abbandono,ma che nel suo discreto chiarore dietro la croce indica il perdono. Non a caso Francesco ha nome il pittore di questo quadro, che rimanda a quel “Francesco giullare di Dio”,giulivo di Dio, a ricordarci che insomma “vangelo” viene da “euangello”: annuncio una “lieta” novella.



Il Cenacolo di F. Babbini (o della “teologia” di Giuda) L'opera è stata donata alla parrocchia della Colonnella – Rimini

Il Cenacolo di Francesco Babbini si inscrive nella tradizione pittorica che ha per tema l’ultima cena di Gesù, descritta nei Vangeli. Il tema del quadro è dunque religioso. Immediatamente, la prima visione del dipinto ci porta alla memoria il celebre quadro di Leonardo da Vinci. E subito si intuisce come il nostro pittore, non si sia limitato a seguire passivamente le orme del grande maestro, ma abbia riscritto l’immagine secondo una prospettiva moderna, attuale, personale. Rispetto alla pittura leonardesca salta subito agli occhi il fatto che, mentre il Cenacolo di Leonardo è ambientato in un interno, quello di Babbini sembra situarsi dentro a un porticato. E subito colpisce la distribuzione delle colonne; due all’altezza del tavolo, due coppie all’altezza degli angoli del tavolo, mentre le altre due sulla stessa linea dividono in tre gruppi i commensali, due di tre, quello alla destra di Gesù e il gruppo di Gesù stesso, il terzo gruppo di quattro discepoli. Infine le due ultime colonne, sullo sfondo formano ancora tre gruppi; quello a destra di Gesù di quattro discepoli, quello centrale di cinque, quello a sinistra di quattro. Sono dunque tre gruppi di quattro discepoli perché quello di mezzo comprende anche Gesù. Insomma la distribuzione delle colonne pratica una divisione molteplice ma estremamente calcolata dei personaggi che ora vanno a formare un gruppo di due, ora tre, ora di quattro, ora di cinque personaggi, simmetricamente ripetuti. Siamo di fronte a una matematica dei discepoli seduti a fianco del Messia.
Ora, mentre i personaggi seduti frontalmente sono otto più Gesù e a destra e a sinistra sono due, si nota che sia Gesù che i discepoli alle due estremità hanno la tunica sulla spalla sinistra, tuttavia, il discepolo seduto alla estrema destra di Cristo, contrariamente a tutti gli altri discepoli non ha nella mano il pane: è seminascosta sotto il tavolo non fino al punto di non lasciare vedere la sua presa su di una borsa. È chiaro che questo discepolo così atteggiato sia Giuda. Mentre tutti gli altri ripetono il gesto di Gesù di tenere con la destra il calice e con la sinistra il pane, tuttavia rispetto a Gesù, sacerdote, che volge il pane verso l’alto in un gesto di consacrazione, gli altri tengono ancora il pane non ancora come un’offerta. Essi sono già pronti al sacerdozio di Cristo, ma non hanno ancora consacrato l’eucaristia. Il gesto di Gesù, allora, ci dice che il “tempo” di questo quadro è quello della “consacrazione “eucaristica. D’altra parte, la presenza ancora di Giuda, proibisce la possibilità che anche i discepoli siano già sacerdoti, come Gesù.
Qui Babbini raggiunge un altissimo livello di esegesi teologica della spiegazione del ruolo di Giuda quale contrasto con la santità del momento. Il tradimento di Giuda è sì nei confronti di Cristo, ma ancor più, si potrebbe dire, nei confronti della comunità. Egli impedisce la piena comunione del gruppo intorno a Gesù. Questo è il suo grande peccato; egli ha tradito la comunione, impedisce la comunione dei fratelli, spezza la forza che unisce il gruppo.
Potremmo dire che questa “teologia”del peccato di Giuda – spesso limitata e concentrata sul solo tradimento di Gesù – è la grande lezione di questo Cenacolo di Babbini. Non a caso l’autore si ritrae nel secondo discepolo a partire dalla sinistra di Gesù, con lo sguardo rivolto a Giuda. D’altra parte, mentre il pane di quest’ultimo giace sul tavolo, il suo calice sta pericolosamente sul bordo del tavolo, quasi stesse per cadere. Giuda ha fretta, sta per rovesciare l’armonia delle cena, ha già tradito con il cuore, il prezzo di Gesù è già calcolato.
Gli sguardi dei discepoli sono volti verso di noi, guardano “fuori” dal quadro, sono in contemplazione, potremmo dire in estasi mistica. Lo sguardo obliquo dei discepoli tranne Giuda e l’autore/discepolo sembra convergere verso il centro del dipinto, in effetti verso il punto in cui dovrebbe collocarsi colui che contempla il quadro, il punto verso il quale guarda diritto davanti a sé Gesù. Ma in effetti gli sguardi vanno oltre il posto dell’osservazione; sono diretti verso Colui che è presente sulla scena e dona all’insieme dei personaggi un alone “mistico”; lo Spirito?
Ora, c’è un oggetto, sul tavolo, che potrebbe simboleggiarlo; l’anfora del vino, che sta tra due ceste con pani, otto da destra di Gesù, nove alla sua sinistra. I pani nei due cesti simbolizzano la data di nascita di Maria, la madre di Gesù. Con quelli in mano ai discepoli fanno ventinove, più una di Gesù, trenta. Le due ceste di pane con l’anfora di vino in mezzo rimandano all’episodio della moltiplicazione dei pani: esse stanno lì davanti a disposizione di coloro che, passando accanto al dipinto vorranno partecipare, spiritualmente al banchetto. Ma, c’è un particolare che si fa avanti a mano a mano che la lettura del quadro avanza; l’ultimo discepolo alla sinistra di Gesù sembra volgere lo sguardo a Giuda, anche lui. La sua espressione, tuttavia, pare differente da quella del discepolo/autore. Mentre in quest’ultimo sembra esserci un tono di dolore, di chi ha capito fino in fondo il senso di quella che abbiamo chiamato la “teologia” del peccato, nell’altro discepolo, invece, prevale uno sguardo fatalistico, come di chi, per conto di Gesù, dicesse qui a Giuda:  “Fai ciò che devi fare”.
Sappiamo, poi, che i personaggi, le persone che interpretano i discepoli sono di provenienza eterogenea sia nello spazio che nel tempo; alcuni sono defunti, alcuni sono celebri nella storia, della chiesa per esempio, altri sono persone note all’autore. Tutti hanno una identità; Giuda solo resta ignoto! Giuda è qui un “tipo”; colui che tradisce nella comunità, colui che rinnega gli amici, ma non per una convinzione maturata per una diversa visione, bensì per danaro, per mercimonio, per interesse. Infine, nella analisi dei personaggi notiamo come l’autore abbia messo tutta la sua cura dei particolare nella teoria delle tuniche e dei mantelli. Lo studio attento della loro distribuzione sulle spalle potrebbe rivelare altri significati di questo quadro. Certamente è evidente il bianco della tunica di Gesù con il mantello purpureo. Notiamo solo che, certamente, Giuda, Gesù e l’autore/discepolo portano il mantello sulla spalla sinistra. E non a caso: tutti e tre sono a conoscenza fino in fondo del significato della presenza del “male” in questo momento della Cena. Se c’è in questo momento un discepolo “prediletto” da Gesù in questo quadro, è bene il discepolo/autore, e in effetti la somiglianza di lui con l’altro discepolo va ben oltre gli abiti. Ora sappiamo perché Giuda non ha una identità; è perché, in realtà egli è la “proiezione” dell’autore, quella proiezione, quella tentazione di Giuda che è in ciascuno di noi. Questi i personaggi attorno al tavolo, tra i quali, di passaggio, notiamo la presenza dell’autore di questo saggio, proprio accanto a Giuda!

Proseguiamo la lettura del dipinto notando come alle spalle di Gesù le mattonelle del pavimento riproducano una croce, tra le due colonne centrali (l’autore ci ha detto che le colonne sono dieci come i dieci comandamenti), la quinta e la sesta che rimanderebbero ai comandamenti omonimi. La teoria delle colonne, che fanno da sipario allo sfondo su cui sono visibili le chiese che vanno dal Tempio Malatestiano, alla Basilica di San Pietro in Roma, alla Chiesa Parrocchiale Santa Maria Annunziata della Colonnella dove ha trovato collocazione il quadro stesso, formano un insieme che abbraccia nel tempo e nello spazio tutta la storia della nostra fede. Dopo la croce, verso il fondo, si dà come una balaustra bianca che fa da separazione tra la scena del banchetto e lo sfondo.
Questo sfondo dà non già su di una parete, ma su luoghi esterni, all’aperto: sono luoghi riminesi che abbiamo già menzionati( il Duomo, la Parrocchia Santa Maria Annunziata), mentre al centro, in corrispondenza del Cristo è dipinta la Basilica di San Pietro. In questi luoghi ecclesiastici si muovono altri personaggi; sono per lo più donne, a gruppi, a due a due che camminano verso il Cenacolo. Sappiamo che anche tra queste donne il tempo e lo spazio della loro identità non conta; sono vive, ancora, o sono morte. Vita e morte, in questo quadro, come è del resto anche nella Cena, sono appaiate. Le donne sono appaiate, come i discepoli di Emmaus, come ordinò Gesù stesso che andassero a due a due. Dunque le donne che avanzano verso la Cena, sono dei discepoli, i prossimi discepoli di Gesù, i nuovi discepoli.
L’autore del quadro, senza dubbio, nell’appaiare le donne, avrà, ancora una volta, mescolato vita/morte. Perché?
È ipotizzabile che egli intendesse dire come tra i discepoli si trasmettano al di là della vita le testimonianze, i ricordi, gli esempi… Le due uniche presenze maschili nei gruppi – il sacerdote e il parente tra le sorelle – sottolineano come l’autore abbia mantenuto nel quadro riferimenti affettivi e biografici specifici che fanno di questo dipinto di altissima spiritualità, potremmo dire “trascendenza”, un dipinto “carnale”, vivo, storico, come lo sono tutti i grandi quadri. Infine; non abbiamo volutamente citato nomi e cognomi delle persone care rappresentate in questo dipinto perché abbiamo cercato di dimostrare che proprio partendo dagli affetti concreti Babbini ha dipinto un quadro che parla e parlerà al cuore e allo spirito, insomma alla fede di tutti coloro che sapranno soffermarsi per un tempo a contemplarlo.

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