martedì 8 luglio 2025

Una notte ubriaca di primavera (Yu Dafu)

versione di Natascia Ancarani

Questo racconto notturno di Yu Dafu 春风沉醉的夜晚, viene di solito tradotto con La febbre delle notti di primavera o Brezza di una sera primaverile. Entrambe le traduzioni del titolo trattengono e perdono qualcosa dell’originale. È stato scritto negli anni Venti, sullo sfondo di una Shanghai che si stava industrializzando. Racconta il fragile incontro tra due solitudini: una giovane operaia, stremata da giornate di lavoro in una fabbrica di sigarette, e un intellettuale o studente che vive una povertà simile a quella degli operai, ai margini della città e del proprio tempo, tentando qualche traduzione dalle lingue straniere che possa interessare un editore. 

Ho amato profondamente questo racconto, tanto da volerne seguire ogni parola e ogni sfumatura, ma questa traduzione si basa purtroppo sulla versione inglese del racconto. 

Grazie all’aiuto dell’intelligenza artificiale, che a volte mostra anche un lato benigno, ho potuto confrontare alcuni passaggi con loriginale cinese, per restituire con maggiore fedeltà certe immagini straordinariamente poetiche, ad esempio ho potuto verificare la duplicità del titolo o la conclusione straordinaria del racconto: non c’era neppure l’ombra di una persona, o luci elettriche di un rosso pallido, sono un paio di espressioni che mi sarebbero sfuggite, senza un confronto con l’originale cinese, ammesso che la traduzione letterale sia corretta. 

Ma richiamo all’ordine quelli che invece conoscono la lingua e possono accedere all’originale, perché ne propongano una più puntuale traduzione. È davvero un racconto splendido. A quanto ho visto esiste una sola traduzione in italiano di questo racconto e mi sembra pessima. I diritti dell’originale sono ormai pubblici e il testo cinese si trova in Archive.org.  


UNA NOTTE UBRIACA DI PRIMAVERA

YU DAFU

Dall’inglese di Aris Teon


I


Vivevo a Shanghai da circa sei mesi quando all'improvviso persi il lavoro. Poiché non avevo denaro, fui costretto a cambiare casa tre volte. All'inizio abitavo in un appartamento nella parte sud di Bubbling Well Road. Era un piccolo posto che assomigliava alla gabbia di un uccello o alla cella di una prigione, dove non splendeva mai il sole. A parte alcuni sarti, che nell'aspetto assomigliavano a feroci banditi, gli unici affittuari erano studenti, talmente indigenti da suscitare pietà. Chiamavo quella strada "strada dei vermi gialli". Dopo un mese l'affitto aumentò improvvisamente e non ebbi altra scelta che raccogliere i miei pochi beni, che consistevano in pochi libri consunti, e andarmene. Poco tempo dopo trovai un posto nella pensione di un conoscente vicino al Shanghai Race Club Building, ma presto incappai in un guaio e fui costretto a spostarmi ancora una volta. Il domicilio successivo fu una stanza minuscola in Dengtuo Road, sulla riva nord di Garden Bridge, davanti ai bassifondi Rixin. La maggior parte delle case nel vicinato misurava soltanto tre metri d'altezza dal pavimento al soffitto. La mia stanza, che si trovava al secondo piano di un edificio residenziale in rovina, era così piccola che mi bastava alzare il braccio, per toccare il soffitto con il palmo della mano.

Per accedere alla mia stanza, dovevo camminare dalla strada principale fino al cancello del proprietario. In mezzo a pile di stracci, pentole di stagno, bottiglie di vetro e altri pezzi misti di ferro, c'era una scala mezza rotta appoggiata contro il muro che portava di sopra, fino a un buco scuro non più largo di 45 centimetri. Era la porta improvvisata del mio appartamento. Anche se il secondo piano aveva appena posto per una persona, il proprietario l'aveva suddiviso in due minuscole stanze. Io vivevo in quella con il buco nero nella parete, mentre l'altra era stata affittata da una ragazza che lavorava in una fabbrica di sigarette. Visto che doveva attraversare la mia stanza  per entrare e uscire, io pagavo meno di lei. Il proprietario era un uomo gobbo di cinquant'anni. Aveva una faccia giallastra e untuosa, con un occhio distintamente più largo dell'altro. La sua fronte e le sue guance erano solcate da rughe profonde, piene di una fuliggine così spessa che sembrava impossibile da rimuovere, anche se si fosse lavato mille volte. Ogni mattina si svegliava verso le otto o le nove  e tossiva per un po’, si gettava un cesto di vimini sulle spalle e usciva. Ritornava verso le tre o quattro del pomeriggio, portando nel suo cesto attrezzi di ferro, bottiglie di vetro, pentole di latta. Spendeva poi la serata sedendo sul bordo del letto e bevendo alcool. Di tanto in tanto posava il suo bicchiere e iniziava a borbottare tra sé parole incomprensibili e imprecazioni. Incontrai la mia vicina di stanza proprio il giorno in cui mi trasferii. 

Erano le cinque del pomeriggio. Quanto fuori si fece buio, accesi una candela per illuminare la stanza. Ero occupato a sistemare i libri logori che avevo portato dal precedente alloggio. Prima li impilai in modo da formare due file, una più alta dell’altra. Poi appoggiai un cavalletto da disegno sulla fila più alta. Dato che avevo venduto tutti i miei mobili, usavo questo mucchio di libri e il cavalletto come una scrivania di giorno e come un letto di notte. Per scrivere, posizionavo la tavola posteriore del cavalletto sopra la pila di libri più alta, trasformandola in un piano dappoggio, e mi sedevo sulla pila più bassa, che usavo come sedia. 

Mi accesi una sigaretta, dando le spalle al buco nella parete. Mentre stavo fumando e fissando la fiamma della candela, udii un rumore provenire dalla strada: 

“Mr. Li. Qualcuno sta salendo!” gridò improvvisamente il vecchio. Pochi secondi dopo apparve un viso rotondo e pallido che emerse dall’oscurità. Era una ragazza giovane e di costituzione delicata. Supposi che fosse la mia coinquilina. Il proprietario mi aveva già detto qualcosa su di lei. Dato che non volevo avere bambini intorno, il fatto che lei vivesse da sola fu una delle ragioni - insieme all’affitto basso - per cui avevo scelto quell’appartamento.

Appena arrivò in vetta alla scala, mi alzai e la salutai con un cenno del capo. 

“Ciao. Mi sono trasferito oggi,” le dissi. 

Lei mi gettò un’occhiata e andò spedita nella sua stanza, senza dire una parola. Dall’aspetto sembrava una persona che aveva avuto una vita difficile. L’aria altezzosa e spenta del suo viso rotondo, il corpo esile e piccolo, tutto confermava quest’impressione. Comunque, dato che anch’io stavo combattendo per sopravvivere, non avevo né il tempo, né l’energia per averne pietà. Mi sedetti nuovamente e continuai a fissare la candela. Ben presto le sue abitudini di vita mi divennero familiari. Si svegliava alle sei di mattina, andava al lavoro e tornava verso le sei di sera. 

Ogni sera mi vedeva seduto alla mia scrivania improvvisata, mentre fissavo la fiamma della candela. Probabilmente il mio folle comportamento aveva provocato la sua curiosità. Una sera, mentre tornava dal lavoro, mi alzai per lasciarla passare, come avevo sempre fatto fin dal primo giorno, ma questa volta si fermò improvvisamente, mi guardò e chiese con un tono esitante: 

“Che tipo di libri stai leggendo?” 

(Parlava con l’accento melodioso di Suzhou, che non potrei rendere nella scrittura). Non appena udii la sua domanda, mi sentii arrossire. Anche se sedevo sempre alla mia scrivania, con una pila di libri posati davanti a me, in realtà perdevo soltanto il mio tempo, scarabocchiando figure strane negli spazi bianchi fra le righe o sognando a occhi aperti mentre guardavo le illustrazioni. Mi vergognavo della mia esistenza miserabile. Non avendo soldi, non potevo mangiare abbastanza e non potevo comprare vestiti nuovi. La sola giacca imbottita di cotone che avevo era così vecchia e logora che non osavo metterla per uscire. Dal momento che la mia stanza era troppo buia, non vedevo mai la luce del giorno. Di conseguenza la mia salute era peggiorata. Mi sentivo come se il mio intero corpo si fosse atrofizzato. Ma come avrei potuto spiegarle tutto questo? 

“Non sembra una buona cosa stare seduti e fissare il vuoto,” risposi. “Così ho messo qualche libro sul banco. Ma non li sto leggendo.”

Lei mi lanciò uno sguardo perplesso e si ritirò nella sua stanza.  

Anche se era vero che oziavo per la maggior parte del tempo, non sarebbe corretto dire che non facevo nulla. A volte, quando la mia mente si rischiarava, riuscivo a tradurre alcune poesie inglesi e francesi o qualche racconto dal tedesco. Una notte, dando per scontato che non avrei incrociato nessuno a quell’ora, uscii senza esitazione per spedire uno dei miei manoscritti a un editore. Dopo che tutte le speranze di carriera si erano dissolte, quello era rimasto l’unico modo per guadagnare qualcosa. Se all’editore fosse piaciuta una delle mie traduzioni e l’avesse pubblicata, avrei potuto ricavarne qualcosa. 


II


Nel frenetico mondo dell'International Settlement di Shangai è difficile avvertire il passaggio dei giorni e delle stagioni. Poco dopo il mio trasferimento a Dengtuo Road incominciai a sentire caldo nella mia casacca imbottita. "La primavera sta per finire,” dissi a me stesso. Poiché non avevo soldi per comprare nuovi vestiti e mi vergognavo di uscire durante il giorno, non avevo altra scelta che stare seduto nella mia stanza buia, la cui unica fonte di luce era la tenue fiamma di una candela. Un pomeriggio la mia vicina tornò a casa tenendo in mano due sacchetti di carta. Quando mi alzai per farla passare, si fermò davanti al mio tavolo e ci posò sopra uno dei sacchetti. "Questo è per te," lei disse "è pane con l'uvetta. Puoi mangiarlo domani. Ho comprato anche delle banane. Vieni nella mia stanza, così le possiamo dividere." 

Il sospetto nel suo sguardo era completamente scomparso. Sembrava che, dopo avermi osservato per diversi giorni, avesse iniziato a fidarsi di me. La sua stanza era illuminata dalla luce del sole che splendeva attraverso la finestra. I mobili erano pochi, un semplice letto ricavato da due assi di legno, coperto con lenzuola pulite e bianche, ma non protetto da una rete contro le zanzare, un tavolino nero, un baule e uno sgabello rotondo.

Sulla tavola c'era una piccola scatola di ferro che sembrava contenere il suo pettine. La sua superficie di metallo era coperta di grasso e cosparsa di macchie sporche. Dopo aver tolto da una sedia una vecchia giacca di cotone imbottita, un paio di pantaloni cuciti a mano e altri vestiti, mi fece cenno di sedermi. La sua premura mi imbarazzava. 

"Dividiamo lo stesso appartamento," dissi, "non importa che tu sia così cortese con me." 

"Non sono cortese," rispose.

"Ogni giorno, quando torno dal lavoro, ti alzi in piedi per permettermi di passare. Mi dispiace per il disturbo che ti procuro." Mentre parlava aprì il sacchetto e tirò fuori due banane, una per me e una per lei. Era seduta sul bordo del letto, proprio di fronte a me. Parlava e mangiava con naturalezza. "Come fai a restare in casa tutto il giorno, senza mai uscire? Non stai cercando un lavoro?" chiese.

“L’ho cercato continuamente, ma non l’ho ancora trovato.”

“Hai degli amici?”

“Li ho. Però, dopo aver perso il mio lavoro, hanno smesso di cercarmi.” 

“Stai studiando?”

“Ho frequentato per qualche anno una scuola straniera.”

“Da dove vieni? Perché non torni nella tua città natale?”

All’improvviso, tutte quelle domande mi costrinsero a riflettere sulla mia miseria. 

Era da un anno che vivevo in uno stato di depressione costante. Stavo così male che, a dispetto del mio istinto di sopravvivenza, avevo imparato a non pensare a quello che stavo facendo e alla condizione disperata in cui mi trovavo. Vivevo alla giornata, eliminando ogni pensiero sul futuro. Le sue parole mi avevano risvegliato dal mio stato di apatia mentale e tutte le circostanze delle mie difficoltà mi tornarono alla mente. La guardai, incapace di dire una parola. 

Vedendo la mia espressione, dovette pensare che non ero altro che un vagabondo, senza una casa a cui tornare. 

“Oh allora sei come me?” esclamò, con gli occhi pieni di solitudine. Dopo un leggero sospiro tacque. Notando che era sul punto di scoppiare in lacrime, cambiai argomento. 

“Che lavoro fai?” le chiesi. 

“Lavoro in una fabbrica di sigarette.”

“Quante ore lavori al giorno?”

“Ho un turno di dieci ore. Dalle sette di mattina alle sei di sera. Con una pausa per il pranzo di un’ora a mezzogiorno. Se chiedo del tempo libero me lo tolgono dallo stipendio.”

“Quanto guadagni?”

“Trenta centesimi all’ora, cioè nove dollari al mese.”

“E quanto spendi per il cibo?”

“Quattro dollari al mese.”

“Quindi se lavori ogni giorno puoi guadagnare cinque dollari al mese. È abbastanza per pagare l’affitto e i vestiti?”

“Naturalmente no. Odio quella fabbrica. La paga è bassa e il caporeparto è una persona orribile. Fumi?”

“Sì, fumo.”

“Credo dovresti smettere, è una pessima abitudine. Ma se proprio tu volessi continuare, per favore non comprare le sigarette che produce la mia fabbrica. La odio.”

Notando un lampo di rabbia sul suo viso, non dissi nulla. Mangiai in silenzio la mia banana e mi guardai in giro. Dopo pochi minuti mi alzai, la ringraziai e tornai nella mia stanza. Il suo lavoro era così massacrante che, tornando a casa, andava direttamente a dormire. Quella sera, però, non spense la luce fino a mezzanotte. Il giorno dopo riprese i suoi modi riservati e non mi parlò. Durante la nostra conversazione mi aveva raccontato molte cose di sé. Il suo nome era Chen Ermei.  Veniva dalla parte est di Suzhou, ma era cresciuta nella periferia rurale di Shangai. Suo padre, che lavorava con lei nella stessa fabbrica di sigarette, era morto nel precedente autunno. Ora era sola e affittava la camera per conto proprio. Per più di un mese, dopo la morte del padre, piangeva ogni giorno, sia andando che tornando dalla fabbrica. Aveva diciassette anni e non aveva né fratelli, né parenti stretti. Del funerale si era occupato il padrone di casa, a cui il padre aveva lasciato quindici dollari proprio per quello, quando era ancora vivo. 

“Il vecchio che vive al piano di sotto è un buon uomo, è sempre stato gentile con me, non come il capoturno che, appena ha saputo che mio padre era morto, ha iniziato a tormentarmi.”

Sapevo quasi ogni cosa di suo padre, ma non aveva mai parlato di sua madre, non sapevo dove fosse o cosa le fosse accaduto. 


III


Iniziai a sentire l’arrivo della nuova stagione. L’aria, nella mia scura e piccola stanza tagliata fuori dal resto del mondo, stava diventando soffocante e insopportabilmente calda: era come vivere in un cesto per la cottura a vapore. Ogni anno, nel passaggio di stagione dalla primavera all’estate, i miei nervi diventavano più fragili e il cambio di temperatura sembrava portarmi alla follia. Cercando di alleviare il mio malessere, iniziai a uscire tardi di notte, quando non c’era quasi nessuno per le strade. Mentre percorrevo la città senza meta, scrutando il cielo di un blu profondo trapuntato di stelle, lasciavo che i miei pensieri vagassero liberamente. Assaporando la brezza serale della primavera, che dava forza e sollievo al mio corpo stremato, camminavo per ore, finché non si apriva la luce di un nuovo giorno.

Quando tornavo a casa ero così sfinito che mi addormentavo di colpo. A volte dormivo fino al tardo pomeriggio, quando mi svegliava il rumore dei passi di Ermei sulla scala. Grazie all’attività fisica e al sonno prolungato, la mia salute migliorò rapidamente. Mi ritornò anche l’appetito, come effetto delle lunghe passeggiate. Quando passavo le giornate seduto nella mia stanza, il mio stomaco riusciva a digerire solo un pezzo di pane. Ora, però, quella stessa porzione, non bastava più a saziarmi. Dovevo comprarne di più. Benché questo pesasse ulteriormente sulle mie finanze già precarie, un’alimentazione più sostanziosa ebbe il positivo effetto di calmare i miei nervi. 

Grazie al mio stile di vita più salutare, trovai la forza di tradurre alcuni racconti di Edgar Allan Poe, prima di andare a dormire. Dopo averli rivisti e limati finché non mi sentii perfettamente soddisfatto del risultato, li mandai a un editore, sperando di ricevere una risposta. Trascorsi alcuni giorni senza una risposta, poi me ne dimenticai del tutto. Non avevo quasi più contatti con Ermei. Quando lei andava al lavoro, al mattino, io stavo ancora dormendo. Se accadeva che ci incrociassimo per caso, non ci parlavamo. Notai, anzi, che i suoi occhi si riempivano di disprezzo e di diffidenza. Ogni traccia di familiarità o fiducia sembrava svanita. Non sapevo perché fosse cambiata in modo tanto improvviso. 

Un pomeriggio, circa venti giorni dopo, se ricordo bene, essermi trasferito a Dengtuo Road, avevo appena acceso una candela e stavo leggendo un racconto quando Ermei rientrò di corsa: 

“Un postino ti sta cercando con una lettera.” disse con un tono freddo e arrogante che mi infastidì. 

“Di cosa stai parlando?” risposi seccamente, “non può essere per me!”

Quando sentì la mia risposta sgarbata, mi guardò con un sorriso amaro e un’espressione trionfante comparve sul suo viso. 

“Vai a vedere tu stesso!” disse, “È affar tuo, tu sei l’unico che ne sa qualcosa.”

All’improvviso udii una voce proveniente dall’esterno: “Una raccomandata!”

Aveva ragione, dopo tutto. 

Quando scesi in strada e aprii la busta, non potevo credere ai miei occhi: c’era un assegno di cinque dollari e una nota che mi informava che una delle mie traduzioni era stata pubblicata in una rivista. Ero fuori di me dalla gioia. Non solo non dovevo più preoccuparmi di pagare l’affitto alla fine del mese, ma potevo comprare del cibo per diversi giorni. Quei cinque dollari erano davvero una benedizione per me. 

Il giorno dopo, andai all’ufficio postale con l’assegno per ritirare i soldi. Mentre camminavo lungo la strada inondata dalla luce brillante del sole, improvvisamente mi resi conto che il mio corpo era bagnato di sudore. Quando gettavo un’occhiata ai passanti ben vestiti, istintivamente abbassavo la testa per la vergogna. 

La nuca e la fronte erano completamente bagnate. Gocce di sudore cadevano una dopo l’altra sul lastricato, come pioggia. 

Poiché di solito uscivo di notte, quando l’aria era fredda e difficilmente incontravo qualcuno, non mi ero accorto di quanto la mia giacca logora, di cotone imbottito, fosse inadatta per quella stagione. 

Ora, essendo circondato da una immensa folla sotto il caldo bruciante del sole mattutino, mi sentivo così a disagio da desiderare di diventare invisibile. In un attimo dimenticai tutto sull’affitto e sul cibo. Come se una forza esterna mi guidasse, mi diressi a un negozio di abiti di seconda mano in Zha Road. I pedoni innumerevoli, le auto e i risciò, i bei corpi di uomini e donne, i negozi di seta e di gioielli, la merce sontuosa, il suono assordante di passi e voci, come in un alveare gigante, i campanelli delle biciclette, tutto quel trambusto incessante ebbe su di me, che da tempo non vedevo la città alla luce del giorno, un effetto tanto potente che mi parve di ascendere in estasi al trentaseiesimo cielo del Daoismo. 

Il mio io si fuse con la felicità dei miei connazionali e spontaneamente mi misi a cantare una canzone nel dialetto di Pechino. Mentre stavo per attraversare la strada e svoltare in Zha Road, allimprovviso fui strappato al mio nirvana dal suono stridulo di un campanello. Alzai lo sguardo e vidi un tram che mi sorpassò con un fragore metallico. Il conducente si sporse dal finestrino e iniziò a insultarmi: Tu, testa di maiale! Cosa c’è di sbagliato nei tuoi occhi? Se ti investono e cadi, spero che arrivino dei cani rabbiosi a mangiarti!”

Rimasi lì, confuso e incapace di muovere le gambe, guardando il tram mentre si allontanava, sferragliando in una nuvola di polvere. All’improvviso scoppiai in una risata. Quando notai che la gente mi stava fissando, arrossii, abbassai lo sguardo in silenzio e procedetti verso Zha Road. 

Visitai diversi negozi di seconda mano, cercando una camicia leggera, in stile cinese. Ma quando dicevo ai negozianti quanto potevo spendere, mi prendevano in giro.

“Ma guarda che bel tipo!” dicevano. “Se non te lo puoi permettere, non andare e non chiedere.”

Alla fine mi resi conto che dovevo rinunciare, così comprai una camicia economica, in filato di bambù. La indossai immediatamente. 

“Non importa,” dissi a me stesso. “Poiché l’ho comprata, me la posso mettere come e quando voglio.”

Dopo aver fatto una doccia in un bagno pubblico e aver comprato qualche dolce, tornai a Dengtuo Road. Il sole stava tramontando e dall’interno dei negozi filtrava la luce delle lampadine elettriche. In strada c’era sempre meno gente. La brezza fresca della sera soffiava dal fiume Huangpu, facendomi rabbrividire. Quando arrivai a casa, accesi la candela e feci luce verso la camera di Ermei. Sembrava che non fosse ancora rientrata. Benché fossi affamato, non toccai i dolci, perché volevo dividerli con Ermei. Iniziai a leggere un libro mentre l’aspettavo. Mi veniva l’acquolina in bocca e lo stomaco brontolava. Dopo qualche tempo, vinto dalla fatica e dalla stanchezza, caddi in un sonno profondo. 


IV


Quando Ermei ritornò a casa mi svegliai di soprassalto. A quell’ora la piccola candela si era ormai consumata fino in fondo. 

“Che ore sono?” chiesi. 

“Dovrebbero essere le dieci passate.”

“Come mai sei tornata così tardi questa sera?”

“Avevamo un ordine straordinario di vendita, e abbiamo dovuto fare degli straordinari. Ho guadagnato qualcosa in più, ma ora sono completamente esausta.”

“Potevi dire di no.”

“Non c’erano abbastanza operai disponibili. Non avevo scelta.”

All’improvviso gli occhi le si riempirono di lacrime che le scesero sulle guance. Pensai che la stanchezza l’avesse resa emotiva. Provai pietà di lei, ma, allo stesso tempo, la sua ingenuità infantile suscitò in me un sentimento confuso di felicità. Aprii il piccolo sacchetto di dolci e le offrii un pezzo di cioccolata. 

“Il tuo corpo non è abituato a lavorare fino a quest’ora,” dissi, “ma non preoccuparti. Riposati bene e ti sentirai meglio.”

Senza dire una parola, si sedette sulla pila più alta dei libri. Mentre mangiava mi guardava come se stesse per dire qualcosa. 

“A cosa stai pensando?” le chiesi. 

Dopo un momento di silenzio, disse con tono esitante. 

“Io… io avrei voluto chiederti…Ultimamente, sei uscito ogni sera. Stai…stai facendo qualcosa di male?”

Rimasi spiazzato. Sembrava credere che fossi diventato un criminale. Vedendo che reagivo in modo confuso e non replicavo, doveva aver pensato di aver ragione. 

“Come fai a mangiare questi dolci deliziosi e a indossare dei bei vestiti?” mormorò. “Sai bene che non può continuare per sempre. Se qualcuno ti scoprisse, pensi davvero che riusciresti a guardarti allo specchio senza vergognarti? Quello che hai fatto non si può cambiare, ma per favore, non farlo più…”

Rimasi a fissarla con gli occhi spalancati, troppo sbalordito per poter parlare. 

Dopo una breve pausa lei riprese: 

“È la stessa cosa per il fumo. Se smettessi, potresti risparmiare un po’ di soldi ogni giorno. Ti ho già consigliato di non comprarle, specialmente quelle che produciamo nella mia fabbrica, ma tu non mi hai ascoltato.”

Quando finì di parlare, scoppiò di nuovo a piangere. Sapevo che piangeva perché odiava la sua fabbrica, ma, nonostante cercassi di allontanare simili pensieri, sperai, nel profondo, che stesse piangendo per il mio bene. 

Le lasciai qualche momento per calmarsi, poi le spiegai che la raccomandata, ricevuta due giorni prima, era il pagamento per una traduzione che avevo fatto. Ne avevo usato una parte per comprarmi una nuova camicia e del cibo. Per quanto riguardava invece la mia abitudine di uscire di notte, semplicemente mi piaceva camminare, per esercitare il corpo e calmarmi. E le assicurai di non aver mai fatto nulla di malvagio. 

Dopo avermi ascoltato iniziò a fidarsi nuovamente di me. Arrossì all’improvviso e abbassò lo sguardo con imbarazzo. 

“Oh, mi dispiace. Sono stata ingiusta nei tuoi confronti…” disse. 

“Non era mia intenzione, trattarti in quel modo. È solo che il tuo comportamento era strano e ho pensato che tu avessi fatto qualcosa di male. Sono contenta che tu abbia lavorato tanto duramente. Quella cosa di cui parlavi, com’era che la chiamavi? Beh, è una gran cosa. Se tu potessi farne una ogni giorno, non sarebbe meraviglioso?” 

Che ragazza innocente! Una strana emozione nacque nel mio cuore e per un attimo desiderai abbracciarla. Ma la voce della ragione mi trattenne, dicendo: “Non rovinare tutto! Viste le presenti circostanze, perché dovresti ferire questa ragazza sincera. In questo momento, non sei nella posizione di poter amare qualcuno.”

Mentre queste emozioni inondarono la mia anima, chiusi gli occhi per un istante, cercando la forza per liberarmi da quell’impulso. Quando la mente si fu rasserenata, le sorrisi e le dissi: 

“È molto tardi. Devi andare a dormire. Domani devi lavorare. Farò come dici e ti prometto che da domani non fumerò più.”

Si alzò, mi augurò la buona notte e si ritirò nella sua camera. Il suo viso era illuminato da un sorriso di gioia. Quando se ne fu andata, accesi una candela, la posai nel candeliere e mi sedetti. 

“Ho già speso più di tre dollari, dei cinque guadagnati con il mio duro lavoro,” riflettevo. “Dopo aver pagato l’affitto, mi resteranno solo due o tre quarti di dollaro. Potrei tentare di vendere la mia giacca imbottita di cotone, ma temo che nessuno comprerebbe quella vecchia roba. Quella ragazza ha avuto una vita dura, ma in questo momento la mia lo è ancora di più. A lei non piace il suo lavoro. Io non ho neppure un lavoro da odiare. Potrei fare un lavoro manuale. Ma il mio corpo è troppo debole. Riuscirei a spingere un risciò per tutto il giorno?

Dovrei suicidarmi? Se avessi avuto il coraggio, l’avrei già fatto da tanto tempo. Il fatto che ancora pensi al suicidio, significa che la mia ambizione non è interamente scomparsa. Quel conducente oggi… Cosa aveva detto? Qualcosa sui cani che mi avrebbero sbranato…”

Per quanto mi sforzassi di pensare, non mi veniva in mente nessuna soluzione per salvare me stesso dal mio stato di miseria. 

Una sirena a vapore fischiò da una fabbrica lontana, annunciando la fine del turno di lavoro. Doveva essere quella delle dieci di sera. Mi alzai e indossai la mia vecchia giacca imbottita, spensi la candela e uscii per una passeggiata. 

Sulle strade del quartiere povero non c’era nemmeno l’ombra di una persona. Vicino a Dengtuo Road, di fronte a Rixinli, c’era una fila di costruzioni in stile occidentale,  dalle cui finestre tremolavano luci elettriche di un rosso pallido. Un suono di balalaiche, proveniente dalle case, si ripeteva come un’eco nell’aria limpida della notte. Ragazze russe, che vagavano da un lavoro all’altro racimolando a fatica di che vivere a Shanghai, cantavano malinconiche canzoni della loro patria. Il cielo nero, vasto e malinconico, era coperto da uno strato sottile di nuvole grigie, dietro le quali pulsava lo splendore offuscato delle stelle lontane.


15.07.1923


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