lunedì 1 settembre 2025

Storie ordinarie di emigrati qualsiasi

di Vincenzo Capodiferro


Questo racconto porta alla ribalta il tema della storica emigrazione che spesso si risolveva in gialli, più o meno irrisolti.


Dal Discorso del 21 dicembre del 1906, del parlamentare Napoleone Colajanni: «Vengo alle raccomandazioni e poi alle interrogazioni. La prima raccomandazione che rivolgo all’onorevole Ministro è che si voglia intendere col Ministro dell’Interno, affinché venga esercitata una più rigorosa sorveglianza, una sorveglianza rigorosissima nelle stazioni di confine, specialmente nelle stazioni di Como, di Domodossola e di Porto Ceresio, donde parte una emigrazione clandestina che appartiene a quella categoria di persone che dagli Stati Uniti vengono respinte. Questi disgraziati, dopo che hanno venduto la casetta e il campicello, dopo che si sono rovinati, ritornano in Italia in una condizione veramente squallida…». I tempi non sono cambiati. L’emigrazione si è convertita in immigrazione. E questa piaga comporta, come sottolineava sempre il deputato, sempre lo stesso dramma: «Io non mi preoccuperei soverchiamente se partissero contemporaneamente, vecchi, donne e fanciulli, ma viceversa avviene che se ne va il fior fiore della popolazione e rimangono i vecchi, i degenerati ed i fanciulli». Prima da quelle stazioni passavano gli ebrei, per salvarsi dalle persecuzioni antirazziali. Poi… 

C’è sempre qualcuno che passa all’altro lato. Il 6 aprile del 1910, viene ritrovato un cadavere in inspiegabili condizioni. Siamo a Porto Ceresio, incantevole borgo varesino, che degrada dolcemente sul lago Ceresio. Il lago, specchio della natura, assume varie sfumature di colori che vanno dal topazio allo zaffiro, dallo smeraldo all’agata, a seconda dell’ambiente circostante. 


Occhio del cielo ti vedo,

or gaio al serenato cielo,

or triste al nubiloso velo

coprente e m’assiedo.


Ora calmo, ora ti inquieti.

Ma mai empietà ti coglie, 

onda solitaria par che mieti

un campo di grano a foglie.


Oscar si dilettava a poetare, ma quella volta l’onda era bagnata di sangue. Il sangue colava dalla ferita della vittima: un giovane, nudo, legato di dietro alle mani. La scena era raccapricciante, richiamava la biblica prima piaga d’Egitto: «Il Signore disse a Mosè: “Comanda ad Aronne: Prendi il tuo bastone e stendi la mano sulle acque degli Egiziani, sui loro fiumi, canali, stagni, e su tutte le loro raccolte di acqua; diventino sangue, e ci sia sangue in tutto il paese d'Egitto, perfino nei recipienti di legno e di pietra!”». 


Ingravidi di fresco olore 

le nari. Ora le grinzose 

mani acciuffano di colore

le labili piatte sassose 


e le tirano a danzare

sui tuoi fluenti crini,

o Ceresio. 


Si tuffano

tra le bagnate come 

tue e si ingarbugliano.

E pian piano scendono 

le petrose ballerine, 

continuando

a volteggiare 

nell’acqua molle

fino al fondo,

mentre lo sciacquio ti dice

spumee parole.


Oscar Golia, commissario di polizia, chiamato da Milano - Questura. Sede di San Fedele - passava ore ed ore a contemplare quello specchio d’acqua a cercare risposte, tra una nuvoletta e l’altra di fumo del suo toscanello, sbruffata in alto, seguendo poi con l’occhio tutte le vane conformazioni che assumeva l’evaporazione. Andava sempre con l’impermeabile bruno e la coppola di velluto Troncarelli. Si vestiva in maniera bizzarra, coi calzoni alla bavarese, i tiranti e il gilet marrone. Era stato chiamato a risolvere un caso intricato. Era uno di quei casi di emigrati, uno dei tanti, che volevano subito cassare per anonimato, come avevano fatto sempre, ma quella volta non potevano farlo, perché i giornali ne parlavano e l’opinione pubblica rimbrottava, altrimenti sarebbe passato inosservato. Oscar era molto giovane - 25 anni - inesperto, ma intelligente. Aveva frequentato la Scuola Militare Teulié. La sua famiglia era di origini avellinesi. Erano emigrati a Milano sulla scia della seconda rivoluzione industriale, periodo di rinnovamento economico e sociale. L’Italia dopo la crisi di fine secolo si slancia in un solido sviluppo economico. Si rafforza la struttura industriale, soprattutto al Nord, con l’incremento dei settori metallurgico e tessile. L’industria cotoniera prevale su quella tradizionale della seta. La seta non rendeva più era troppo costosa e ci rimangono solo i gelsi, senza bachi! Si sviluppa il settore elettrico. Come emblema di questo sviluppo industriale italiano ci basti ricordare il binomio Agnelli-Pirelli (1872-1899). Con la grande depressione economica del 1873-1896, che anticipa quella 1929, di fronte al dilagare della questione sociale, tutta l’Europa ed il blocco di potere, costituito dalle forze di governo, gli industriali e gli agrari, assume un atteggiamento autoritario. Crispi, per un decennio, dal 1897, conduce una politica repressiva. Il tramonto della borghesia liberale passa attraverso il colonialismo. E poi lo scontro tra gli imperialismi, accompagnato dalle passioni nazionalistiche, andrà a costituire una buona miscela esplosiva, decisiva allo scoppio del 1915-1918. Infine, giunge il buongoverno di Giolitti che imperterrito domina la scena politica, instaurando una vera e propria dittatura parlamentare, anche se, come scrive Salvatorelli: «Nessuno dei contrassegni di una dittatura si riscontra nella condotta politico-governativa di Giolitti, i cui connotati effettivi sono tutti di segno contrario. A cominciare dal 1892 Giolitti ha sempre governato sulla base di maggioranze nette e spesso strabocchevoli; e ha lasciato il potere prima ancora che le istituzioni parlamentari contrarie in incubazione sbocciassero in un voto esplicito alle Camere. Egli lasciò sempre agli avversari politici la libertà consentita dalle leggi, e forse anche di più, rispettando il giuoco parlamentare, creando e mantenendo l’atmosfera di una libera politica. Infatti, l’opposizione contro di lui non solo in parlamento, ma anche fuori e specialmente nella stampa, fu aspra fino ai limiti, e oltre, della demagogia e dell’isterismo». 

Torniamo al nostro caso: c’era un uomo legato alle mani di dietro, tutto nudo, giovane, le sue budella si trovavano avvolte ad un albero, in una località nascosta, uno dei meandri del lago di Lugano. Una leggenda antica vuole che i pescatori del porto, impauriti da un mostro che dominava il lago e pretendeva ogni anno in sacrificio una fanciulla del posto, si recassero dal gigante Ceraso, che abitava in una grotta ai piedi del Monte San Giorgio. Ceraso sfidò il kraken immane del bacino e lo rinchiuse nelle viscere della terra, donde il mostro, sbraitando, fece sorgere montagne e contorcere le rive del lago. Infatti, nella lingua dei Celti “Ceresio” significa contorto. 

Quell’omicidio ti faceva subito guizzare a un rito macabro. Qualcuno aveva squartato nella parte inferiore dell’addome il giovane, aveva preso un capo dell’intestino e l’aveva legato ad un ramo dell’albero, evidentemente poi la vittima era stata costretta a girare attorno all’albero fino al completo dissanguamento. Mancava la parte dei genitali ed un particolare: nella bocca recava avvolto attorno alla lingua, oramai esangue, un anello d’oro. Questi indizi facevano riflettere il giovane commissario. 

Dopo vari interrogatori, fatti agli immigrati del posto, si risale finalmente all’identità della vittima. Molti della Valceresio si recavano nelle Americhe in cerca di fortuna. La maggior parte erano valenti artigiani, scultori, picasass, come li chiamano da quelle parti, muratori, mastri don Gesualdo. Valceresio significa valle dei ciliegi. Ce n’erano tanti in quei grovigli, orme dell’era glaciale, coi fiori delicati, attenti a captare la vista dei passanti. Nell’apogeo della seconda rivoluzione industriale, migliaia di scalpellini lombardi, di tagliapietre, si erano recati negli Stati Uniti. La malattia del picasass è la silicosi, infermità polmonare provocata dall’ansito di polveri sottili. Di quel morbo era morto l’artista Giuseppe Grandi di Valganna. Eppure, durante l’epidemia della spagnola, che da lì a poco imperverserà in tutta Europa, si salvano molti muratori, perché avevano a che fare con la calce, disinfettante naturale. Per preparare la calce c’era tutta una procedura: si mettevano a cuocere le maestose pietre di calcare nella fornace e poi si sgretolavano come se si pestasse il sale. 

Ta… ta… ta… ta… ta… ta… ta. Risuonava il tacheografo, o cembalo scrivano.

Identità. 

Nome: ALFREDO; cognome: BIANCHI; nato a: Porto Ceresio il 7 novembre 1887, residente… incensurato… nome corrente: Alfred (americanizzato)… 

Annotavano gli scrivani al Municipio, innanzi al commissario Golia. Chi lo riconosce è il fratello Gustavo Bianchi, nato a Porto Ceresio il 7 novembre del 1887. 

Era un fratello gemello che somigliava tantissimo a lui. Erano omozigoti. Nome americanizzato: Gustav…

Viene fermato un mezzo pazzo, che soffriva di alcoolismo cronico, un tal Bossi Igino. Litigava spesso con gli emigranti ed era venuto più volte alle mani con Alfred. L’avevano sentito minacciare il giovane al Molino di Cuasso, dove si ubriacavano:

– Io ti ammazzo! Ti ammazzo!

Oscar interroga a fondo Bossi, ma non trova in lui nessuna macchia. Non c’è il movente. Il movente fa l’omicidio. Questo aveva imparato in tanti anni di formazione. Avevano litigato per un bicchiere di vino. Giocavano a carte. Nel gioco “Padrone e sotto”, che era stato importato dagli immigrati del sud, capitava che chi vinceva era costretto sempre a bere, fino alla rotta di collo, mentre chi perdeva rimaneva senza un goccio. Chi rimaneva senza si diceva che fosse «fatto all’olmo». O «olmo secco,» quando non ne assaggiava neppure un goccio. Il vino fa brutti scherzi: o ti rende più docile, o più aggressivo, dipende dal carattere, oltre ad essere una potente macchina della verità (in vino veritas). Oscar era convinto che Igino non avesse a che fare con l’omicidio, ma lo teneva in cella per precauzione e così con calma poteva muoversi e fare le ricerche necessarie. 

Oscar aveva intuito benissimo che si trattasse di un omicidio a sfondo sessuale. Diversi elementi riconducevano a questa supposizione: il fallo estirpato e scomparso, l’anello d’oro attaccato alla lingua. Già nella sua testa cominciava a costruire varie ipotesi. Sicuramente una fidanzata, o un’amante era coinvolta. Dopo tante indagini riesce a scoprire la morosa. Si chiamava Gigliola Moiraghi: una giovane avvenente, bruna, formosa, sulla ventina. Oscar comincia a mettersi alle calcagna di questa ragazza. Faceva un po’ come avrebbe in altri tempi fatto il tenente Colombo, della celebre serie televisiva: usciva ed entrava, usciva poi tornava. Tanto che quelli del posto, soprattutto gli immigrati del sud lo chiameranno «ienz e tras»! cioè, “esci ed entra”. Era il nome che davano ai magazzinieri che entravano ed uscivano dai fondachi per caricare e scaricare la roba. 

Oscar scopre che Gigliola di nascosto si vede con Gustav, fratello gemello di Alfred. Poi conosce un amico intimo di Alfred, che si chiamava Gabriele Coscia, detto Gabriel. Chi andava in America e poi tornava, accorciava il nome, vuoi per moda, vuoi, per adattarsi a quei paesi. Indi scopre che quel tipo di omicidio, in cui la vittima sventrata con le budella appese ad un albero era costretta a girare attorno al tronco fino al completo dissanguamento - una morte atroce - era un preciso rituale riservato ai briganti traditori, o ai manutengoli che avevano parlato, un rituale che proveniva dalle aree del brigantaggio del sud d’Italia. La famiglia di Gigliola proveniva dal sud, da Tortora, in Calabria. 

Si trattava di un delitto di gelosia, ma da sola Gigliola non poteva aver commesso un tale atroce ed efferato crimine. Qualcuno l’aveva aiutata. Chi poteva essere? La madre, il padre, qualche amico? 

Gabriel ce l’aveva contro Gustav:

– Maledetto! L’ha ucciso lui, ne sono convinto, per gelosia. Ha sempre odiato suo fratello. Quando è partito per l’America ha cominciato a fare la corte a Gigliola. Data la sua somiglianza col suo amato Alfred. E poi Alfred… Alfred… Glielo avevo detto di stare attento! Si è andato a mettere con un’americana… Gigliola se l’è presa tantissimo!

Oscar ascolta accendendo il suo toscanello e sospirando in silenzio e intanto aveva acceso un’altra lampadina, quella dell’ingegno, che il buon Dio aveva donato a chiunque, ma che non tutti sapevano usare. Bisognava trovare la sua promessa sposa americana. Facendo ulteriori ricerche scopre tramite gli immigrati italiani che la sua amante è Carol Swetking di origine germanica e residente a Boston. Si mette in collegamento, tramite telegrafo, con la polizia americana e viene rintracciata. Carol aveva sposato effettivamente Alfred già da un anno, il 13 giugno del 1909 e aveva una figliola neonata, figlia naturalmente di Alfred. Quando Carol sa della morte dell’amato scoppia a piangere. Alfred aveva lavorato come scalpellino a Boston. Aveva acquisito così un permesso per stare in America, ma era tornato momentaneamente a casa per andare a trovare la madre che non stava bene. Conservava ancora una lettera in italiano, scritta da Gustav, in cui si invitava il fratello a rientrare, perché la madre era in fin di vita. In effetti la madre Cerasia Gelsomina stava in piena salute, perché avrebbero dovuto chiamare il figlio? La mente di Oscar cominciava a rimuginare. 

Sicuramente Alfred era fidanzato di Gigliola, ma parte per l’America in cerca di fortuna, poi lo raggiunge il fratello Gustav. Vengono respinti, ma Alfred si innamora di Carol, una ragazza americana e la sposa, sperando così di avere la cittadinanza anche e rimanere a Boston. Viene invitato a rientrare, con una finzione della malattia della madre. Arriva a Porto Ceresio, dove la famiglia si è adagiata, nella speranza di passare in Svizzera e poi in Germania, visto che il sogno d’America era svanito. A questo punto Alfred era stato invitato a sposare Gigliola, ma egli non vuole, anche per convenienza, per stare in America, dove c’era lavoro e si prospettava un futuro rigoglioso. D'altronde erano solo fidanzati. E chissà se non le avesse promesso di darle in sposa il fratello Gustav? O per l’intanto Gustav non si fosse innamorato di lei? Allora per gelosia Gigliola comincia a meditare di uccidere l’amato, che non può più avere in quanto ha sposato un’altra e l’ha tradito. Però da sola? No! Qualcuno avrebbe dovuto aiutarla. La logica dei delitti è precisa e perfetta come un orologio svizzero. Tutto si spiega, anche i meandri oscuri dell’inconscio, delle emozioni, hanno una loro logica, sebbene sempre non chiara a noi. I gemelli o si amano o si odiano, ma in effetti, come afferma il filosofo Max Sceler: «Non si può amare senza aver prima odiato!». Gigliola, per disperazione, saputo del matrimonio di Alfred, si era messa con Gustav, il quale, respinto dagli USA, era tornato in Italia. D'altronde si erano conosciuti là, in America e di là erano giunti in Italia, ma non erano tornati al sud, e assieme agli emigrati lombardi erano giunti a Porto Ceresio. Per ironia della sorte Cerasia significa terra dei ciliegi. Il ciliegio torna con la Valceresio. Però con chi erano giunti a Porto Ceresio?

Chi era il padre? Guglielmo Moiraghi, di origine di Porto Ceresio, aveva sposato Cerasia Gelsomina ed era morto sul lavoro. Faceva il picasass. Probabilmente era morto giovane di silicosi, come tanti altri picasass. A quei tempi i matrimoni tra sud e nord erano rari. Moiraghi lavorava per una ditta che aveva cantieri anche al sud, la Bertoni. Aveva conosciuto la bella madre di Gigliola, era venuti al Nord e si erano sistemati a Porto Ceresio già dal 1880, quando erano nati i gemelli.

Fin qui tutto quadrava. Ad aiutare l’omicida era stata sicuramente la madre, o qualche amico. Ma chi? Gabriel? 

– No!

Pensava Oscar. Poi gli viene un lampo di genio. 

– È stato il fratello. Fratricidio!

Come dimostrarlo? Non l’avrebbero mai parlato. Igino era stato incastrato con la storiella dalla lite. Chi l’avrebbe mai creduto? Un ubriacone? Bisognava trovare uno stratagemma per farli cadere. Non era facile. 

Alla fine, il giovane Oscar ha in mente una trovata altrettanto geniale. Chiama l’amico Gabriel e lo manda da Gustav per minacciarlo in segreto. Gabriel va:

– Ehi! Io so che sei stato tu ad uccidere il povero Alfred. Ho una prova inconfutabile che incastra sicuramente quella sgualdrina di Gigliola. Ha lasciato l’anello in bocca. Ma quell’anello reca sicuramente il sigillo di orafo. Io ho l’altro anello, quello di Alfred, che mi aveva donato. Erano due fabbricati in oro puro da mastro Oliviero Bacher di Induno. C’è il suo sigillo! L’avete messo in bocca ad Alfred. E poi dove è finito il suo fallo? Certamente l’avrete nascosto voi da qualche parte! Domattina io vado dal commissario Golia e dico tutto.

– Aspetta!? Ma che dici?

Faceva Gustav sbigottito. Poi preso dall’ira lo minaccia:

– Io ti ammazzo sa! Ti ammazzo!

E gli mette le mani al collo che quasi lo strozza. Gabriel riesce a liberarsi e a fuggire, mentire il provvido commissario osserva da lontano. La trappola funziona. Era tutto inventato. Gustav parla con Gigliola, non sapeva dell’anello.

– Ma come ti è venuto in mente di lasciare un anello d’oro in bocca ad Alfred?

– Scusa, amore mio!

Entra in azione Oscar. Si traveste da Gabriel e va a casa sua. Oscar aveva perso i genitori ed abitava da solo in una casetta in riva al lago. I suoi facevano i barcaioli e vivevano anche di pesca. Di notte, alle ore 2.13, sente scassinare la porta. Come volevasi dimostrare. Era Gustav: 

– Sei venuto per uccidermi?

Oscar punta la rivoltella sul petto di Gustav. E poi lo smaschera. Gustav rivela tutto. Era stato proprio lui! Insieme a Gelsomina. Il caso era risolto. Vengono arrestati Gigliola, la madre e Gustav. Dopo due mesi, viene celebrato un clamoroso processo al tribunale di Como e vengono emanate le sentenze: per Gustav ergastolo, per la madre venti anni di carcere, per Giliola, trent’anni. Gigliola si finge pazza e vien rinchiusa nel manicomio san martino di Como.

Il giovane Oscar aveva risolto l’intricato caso. L’opinione pubblica è messa a tacere. Nessuno oramai più ricorda: tutti questi drammi vanno a finire nella voragine tenebrosa ed infernale dell’inconscio collettivo. 

Oscar torna a Milano. Ma dopo qualche mese vien di nuovo richiamato. Gigliola era stata ritrovata morta, strangolata nella sua stanza del manicomio. Beh! In effetti Carol aveva inviato un sicario o, meglio, uno spietato immigrato, Maniero Giovanni, detto Jann, che era suo amico a regolare i conti. Questa era un’altra storia. Gustav riesce a evadere dal carcere di San Donnino a Como e fugge in America ed indovinate chi va a trovare? Carol. E si sposa con lei. Dopo tante peripezie il commissario Golia li riesce a ritrovare in America. Gustav si era dato per morto. Era riuscito, attraverso la Svizzera, fingendosi macchinista dei treni a giungere in Inghilterra, ad imbarcarsi come clandestino nel famoso Titanic e nell’affondamento, quel fatidico 15 aprile del 1912, era a stento riuscito a salvarsi, ma aveva finto di morire. Aveva cambiato identità, prendendo un documento di un naufrago che era morto e gli rassomigliava. 

Quando Oscar riesce a trovarli, in un viaggio a Boston, sotto mentite spoglie, li smaschera di nuovo, ma li lascia vivere. Fa finta di non aver trovato nessuno. Gustav e Carol, oltre a crescere la figliola di Alfred, Gelsomina junior, come loro figlia, hanno un’altra figlia, che viene chiamata Gigliola, in omaggio all’amante morta. Carol che aveva inviato il sicario per uccidere la rivale in amore non riconosce subito Gustav e crede che sia il fantasma di Alfred. Erano gemelli e si rassomigliavano tanto, anche se Carol aveva conosciuto pure Gustav e paradossalmente si era innamorata di lui, prima di sposarsi con Alfred. Gustav si scopre. Carol lo perdona e lo ama. Così si risolve il caso misterioso del delitto di Porto Ceresio affidato al giovane commissario Golia. 

Ecco un’altra poesia di Oscar, sul lago di Lugano:


Alba


Le ultime stelle si smorzano

nel ciel di smeraldo 

che si frastorna con l’onda

tranquilla.


Si leva un denso vapore

ai primi rai.


Due pescatori annunziano

il nascente dì. 

martedì 19 agosto 2025

Newsletter di Adele Desideri 19 agosto 2025





Gentili lettori, segnalo quanto segue

*I numeri – letti con imperdonabile ritardo – della prestigiosa rivista Xenia. Trimestrale di Letteratura e Cultura, edita dall’Associazione Culturale Genova Lettere
Anno VIII, n. 3, settembre, 2023
Anno VIII, n. 4, dicembre 2023
Anno IX, n. 4 dicembre 2024

In particolare, gli articoli di Rosa Elisa Giangoia, che – con la sua salda competenza e la sua delicata incisività – tratta il tema della pace nei secoli antichi: scelta non casuale, dati gli attualitempi di guerra:
Istanze di Pace nell’antica Roma, Xenia, Anno VIII, n. 3, settembre, 2023
Il nuovo messaggio di pace del Cristianesimo, Xenia, Anno VIII, n. 4, dicembre 2023
Il pacifismo occulto del Cinquecento, Anno IX, Xenia, n. 4 dicembre 2024

Il saggio di Adele Desideri sul libro di Vincenzo Guarracino, L’Angelo e il Tempo e altri poemetti, Book Editore, 2022, Xenia, Anno VIII, n. 3, settembre 2023.

L’articolo di Davide Puccini, Un’intervista inedita di Giorgio Caproni, Xenia, Anno VIII, n. 4, dicembre 2023
“Si tratta del dattiloscritto che il poeta aveva preparato per rispondere alle domande che Geno Pampaloni gli avrebbe rivolto nel corso di un’intervista televisiva. Della trasmissione, prevista per mercoledì 2 maggio 1962, rimane traccia soltanto in un vecchio numero del «Radiocorriere TV» datato 29 aprile - 5 maggio 1962 (…). Le ricerche condotte dai funzionari di RaiTeche non sono riuscite a trovare la registrazione dell’incontro, ma poiché il frontespizio del dattiloscritto reca «GIORGIO CAPRONI / II trasmissione», le puntate dovevano essere almeno due” (pp. 85-86)
Il dattiloscritto è reperibile in Filomena Giannotti, «Quell’Enea mi colpì». Giorgio Caproni e un’intervista inedita (a 110 anni dalla sua nascita), in Accademia Nazionale Virgiliana di Scienze e Arti. Atti e memorie, LXXXIX, 2021, pp. 373-91.

“È noto che Caproni aveva studiato con passione il violino fino a raggiungere un grado di competenza esecutiva professionale, ma lo aveva poi abbandonato in modo sofferto e addirittura drammatico, arrivando a distruggere il suo strumento, opera di un pregiato liutaio genovese, Cesare Candi. Alla musica era così subentrata la poesia:
«Propriamente, non erano più versi per musica, i miei, ma versi come musica, il che non vuol, dire (…) musicali in senso banale, ma nel senso della costruzione, dell’architettura, cercando, nei canoni classici, strutture nuove, un poco secondo i miei idoli di allora in fatto di musica: lo Stravinsky dell’Orpheus e Béla Bartók, Busoni.»
(…)
«Io non credo affatto che la rima sia obbligatoria in poesia. Credo però che quando la si usa la si debba usare spinti da una profonda necessità. La rima, e qui tornano in ballo i miei studi musicali, è ciò che in musica è la consonanza o dissonanza di due note. In poesia non si possono far consonare o dissonare insieme due idee poetiche, e si ricorre allora alla rima, in modo che le idee che strutturalmente reggono la composizione si richiamino a vicenda.»” (pag. 87).

“La prigione che era a Gaza è adesso/ un ossario./ Nell’ultima// foto online, tre ragazzine,/ sotto i dieci anni, salvate dalle macerie// di un appartamento, una con un brutto livido/ sulla guancia, del sangue sul labbro// superiore, sotto l’occhio destro./ È la faccia più triste, più// smarrita, ma sulla maglietta verdina/ macchiata c’è il contorno buffo// di un coniglietto, con l‘orecchio pendulo/ e sopra quattro lettere maiuscole// leggono H.O.P.E. Seduta/ accanto a lei, faccia e collo// insanguinati, capelli e chignon bianchi/ di polvere dell’esplosione,// testa girata dalla telecamera –/ una bambina con la maglietta nera// e dentro a un cuore rosso/ l’acronimo BFF,// Best Friends Forever./ Questo non può essere ignorato// come danno collaterale,/ l’eufemismo che assolve// da ogni colpa. L’ultima/ di questa trinità di innocenti –// minuta, capelli arruffati, occhi/ selvaggi, bocca aperta, è ignara// del presente. Ricorda/ le scene prima di arrivare// in ospedale, non riesce/ a credere a ciò che ha visto,// per cui nessuna parola,/ o poesia, è sufficiente.//” (Gary Geddes (Canada), Finale di partita con acronimi, traduzione di Massimo Bacigalupo, in Claudio Pozzani, Parole spalancate. Festival Internazionale di Poesia di Genova, XXX Edizione, Xenia, Anno IX, n. 4 dicembre 2024, pag. 5-6).

“Io spiego con calma. Tu/ mi senti urlare. Tu/ provi un’altra strada. Io/ sento vecchie ferite riaprirsi./ Tu vedi entrambi i lati. Io/ vedo i tuoi paraocchi. Io/ sono conciliante. Tu/ sospetti un nuovo egoismo./ Io sono una colomba. Tu/ riconosci il falco. Tu/ offri un ramo di ulivo. Io/ sento le spine./ Tu sanguini. Io/ vedo le lacrime di coccodrillo. Io/ indietreggio. Tu/ barcolli per l’impatto.//” (Roger Mcgough (Regno Unito), Io e te, traduzione di Franco Nasi, in Claudio Pozzani, Parole spalancate. Festival Internazionale di Poesia di Genova, XXX Edizione, Xenia, Anno IX, n. 4 dicembre 2024, pag. 20).

*Il saggio di Rosa Elisa Giangoia, Fiori di parole. I fiori nella letteratura, Sampognaro&Pupi Edizioni, 2023

“Fioriscono nei giardini e sulle tombe dei nostri cari; nei secoli li abbiamo indossati, regalati, personificati nei miti sui misteri della natura: i fiori sono con noi da sempre, così come l’urgenza di raccontarci con le parole. Esiste infatti un nesso inscindibile tra fiori e letteratura, un vincolo antico e cangiante che Rosa Elisa Giangoia ha indagato nelle pagine di questo libro, seguendone le trasformazioni dall’antichità ai giorni nostri.
Qual è il legame tra fiori e divinità? Cosa ha determinato la supremazia delle rose sugli altri fiori? Perché associamo i crisantemi alla morte e i gigli alla purezza? Ma soprattutto: in che modo i fiori sono confluiti nelle opere di Dante, Petrarca, Leopardi, Manzoni e molti altri ancora? Rispondere a tali domande vuol dire ripercorrere la nostra storia, riscoprire come nella bellezza abbiamo cercato un riparo dalla fragilità delle cose e nelle parole il modo giusto per raccontarlo”
(al link sampognaroepupi.com/prodotto/fiori-di-parole/)

*La singolare, notevole antologia – letta anch’essa con imperdonabile ritardo – L’albero, a cura di Alessandro Ramberti, copertina di Giacomo Ramberti, FaraEditore, 2022

“L’albero, nelle sue numerose specie, può essere inteso in infiniti modi: simbolo di vita, forza, gioia, energia, socialità (feste e riti), custode del sottobosco e degli esseri che lo popolano, ospite di nidi e tane, materiale da costruzione, per la produzione di strumenti musicali e attrezzi, albero maestro, ecc. In questo libro (…) trovate molteplici, interessanti e a volte sorprendenti declinazioni del tema che ogni partecipante ha trattato con la massima libertà e grande coinvolgimento personale” (dalla quarta di copertina).
Al link faraeditore.it/nefesh/Albero.html

“Che meraviglia il bosco/ quando risplende lucido/ e le ginestre esultano/ ai bordi delle strade// da cui sorpresi si alzano/ tortore falchi e passeri/ se sopraggiunge rara/ qualche auto in escursione/ in questi giorni gravi/ pulsano ai pellegrini /pietre avvezze da secoli/ al canto in preghiera// al farsi incontro ferme/ a te che ti decentri/ mettendoti in cammino/ osservando le nuvole// vele in trasformazione/ figure immaginarie/ abbracciate dai flussi/ di un cielo incontenibile.// Le rose si deformano/ bruciate dagli scoppi/ i cuori inaridiscono/ nei petti dei violenti.// Il mondo ci rivolge/ domande senza piangere/ la terra sotto i piedi/ sussulta e scuote le anime// le radica e le infervora.//” (Alessandro Ramberti, pag. 7).

*Fluire, rivista di pura poesia, Anno V, Volume 16, estate 2025

“Fluire n.16 è un esperimento estetico, è stato generato con IA in tutte le sue componenti, ogni riferimento a persone o luoghi è del tutto casuale.
Alla chiara fonte è, da sempre, un esperimento di soglia. In questo numero 16 di Fluire, lo sguardo si apre tra umano e macchina, tra significato e statistica, tra presenza e algoritmo. Fluire 16 è una scommessa: che la media statistica possa inciampare in una verità, che la non-vita generi un frammento vivo, che il quasi possa essere, comunque, interessante. Non è un’opera, ma un orizzonte di possibilità. È un gesto che non cerca il compimento, ma piccole intensità, microscopiche ferite, innesti imprevisti.
È il prodotto di chi, stupito dall’esistenza ormai ovvia di un linguaggio alieno, osa chiedergli la compassione della poesia” (Nota degli autori).

Al link poesiaallachiarafonte.ch/Fluire

*Valerio Ivo Montanari, Il Dio dai mille volti. Indagine sull’aspetto maschile e femminile della divinità, Moretti&Vitali 2025
Primo premio nella sezione saggistica – Premio Internazionale Francavilla Urban Festival 2025

*Stefano Cazzato, Il divino Platone. Filosofia e misticismo, Introduzione di Lucio Saviani, Moretti&Vitali 2025
Premio filosofia contemporanea, IX edizione del Premio internazionale di Letteratura L.A. Seneca, Bari).

Credo nel progresso, non credo nello sviluppo
(Pier Paolo Pasolini, in Xenia. Trimestrale di Letteratura e Cultura, edita dall’Associazione Culturale Genova Lettere, Anno VIII, n. 4, dicembre 2023)
Adele Desideri

lunedì 18 agosto 2025

SUL MITO DI ER IN PLATONE

(Racconto fantastorico para-filosofico)


di Vincenzo Capodiferro 




Er era un personaggio straordinario. Da lui deriva la parola “eroe”. Citato da Platone nella Repubblica. Fece un viaggio nell’Ade e tornò tra i vivi, come tanti altri eroi dell’antichità (Ulisse, Enea): «Er, figlio di Armenio, di schiatta panfilia: costui era morto in guerra e quando, dopo dieci giorni si raccolsero i cadaveri già putrefatti, venne raccolto ancora incorrotto. Portato a casa, nel dodicesimo giorno stava per essere sepolto. Già era sepolto nella pira, quando risuscitò e, risuscitato, prese a raccontare quello che aveva veduto nell’aldilà». Dalla descrizione di Platone si può ipotizzare che si trattasse di un caso o di resurrezione vera e propria, tipo Lazzaro, o di morte apparente, essendo il corpo incorrotto, con conseguente esperienza ai confini della morte (NDE). Er descrive un viaggio sciamanico, mistico, riservato a coloro che godono di una superiore sensibilità, che riesce a cogliere le realtà spirituali. 

Er era un grande eroe e tra le tante imprese che ha compiuto, molte delle quali non sono ricordate negli annali, la leggenda narra di quella del suo amore per la regina Semiramide d’Assiria. Semiramide era una regina potentissima che aveva fondato un impero vastissimo che andava dal Catai, l’antica Cina, fino al mar Mediterraneo. Semiramide era una regina ricchissima ed immortale. Aveva infatti fatto un patto con il re dei morti, Nergal. In cambio di sacrifici umani si manteneva sempre giovane. Così, come una mantide religiosa, Semiramide sposava i giovani mariti e poi li sgozzava, beveva il loro sangue e si cibava delle loro carni. Aveva da loro dei figli, ed essendo sempre giovane, poi, amava i figli, commettendo l’orribile peccato d’incesto. Di solito questi re erano scelti forestieri, per distogliere l’attenzione dalle sue malefatte, anche se si era sparsa la voce, e nessun principe voleva più prendere in sposa la mantide Semiramide. Uno dei suoi re era stato Nino, che aveva fondato la città di Ninive, che divenne capitale del suo regno vastissimo. 

Semiramide si innamorò allora di questo valoroso soldato, Er, che eresse a generale delle sue armate. Ma Er non corrispondeva al suo amore, perché sapeva che la mantide religiosa uccide i suoi amanti. Una notte Semiramide fece drogare Er e giacque con lui, senza che se ne accorgesse. Al mattino a Er pareva di sognare:

– Ma dove mi trovo?

Partì in battaglia, ignaro di tutto, mentre Semiramide stava dormendo e non si era accorta che Er fosse andato via. Quel giorno Er morì in una gloriosa battaglia contro i barbari, che minacciavano l’impero da Oriente. Semiramide cercava il suo amore, Er, ma non lo trovava.

– Dov’è Er? Dov’è Er?

Alla fine, intervenne il capo di stato maggiore dell’esercito assiro, tutto inghirlandato e disse:

– Mia Signora! Er è morto valorosamente in battaglia.

– No!

Semiramide ne fece una malattia. Era veramente innamorata di Er e non voleva ucciderlo. Era l’unico uomo che aveva amato veramente in tutta la sua vita e non voleva perderlo, anche a costo di perdere la sua immortalità. Cadde in una profonda depressione. Se la prese con Nergal, ma invano:

– Concedi ad Er di tornare dall’inferno!

– Ma tu sei pazza! Se vuoi vieni tu a stare con lui qua! 

E, infatti, Semiramide tentò più volte il suicidio ed era guardata a vista dai soldati. Il suo regno stava sgretolandosi. Allora i generali cominciarono a preoccuparsi:

– Cosa possiamo fare? Dobbiamo far riprendere Semiramide. Altrimenti siamo fritti!

Fu trovato un sosia di Er e fu portato dalla regina. La regina subito si riprese e stava con lui notte e giorno. Il regno riprese a prosperare. 

Intanto Er era sceso nell’inferno. Si era trovato nella Pianura della Verità (Pεδιαλήθεια) tutta verde, dove c’era una dogana che bisognava passare. Vi era un’immensa fila di morti che stava ad aspettare di passare la dogana. Alle porte della dogana vi erano tante guardie che assistevano le tre regine, le Moire, che erano: Maria Lachesi, la giustizia, Maria Clotilde, la misericordia, Maria Atropina, il sogno, custode del cielo onirico. Coloro che avevano commesso peccati gravi entravano nella porta dell’inferno, da dove andava e veniva una nave, guidata dal capitano Caronte. Questa nave era capace di viaggiare nell’etere, il quinto elemento, il fluido primordiale (l’acqua di Talete). Questa nave conduceva i defunti sul pianeta Venere, un pianeta squallido, pieno di vulcani e di fuoco, con temperature altissime. Venere è associata, fin dall’antichità, a Lucifero, il Diavolo. Coloro che erano giusti entravano in un’altra porta, da dove un’altra nave cosmica conduceva i defunti sul pianeta Urano e di là accedevano al cielo delle stelle fisse, patria dei beati (l’Iperuranio di Platone, corrispondente al Motore Immobile aristotelico e all’Essere perfetto parmenideo). Le tre regine presiedevano ai tre mondi: l’iperuranio, l’etereo, e il mondo sublunare, dominato dai quattro elementi: liquido, solido, gassoso e caloroso. 

Altri defunti che commettevano peccati veniali erano costretti a purificarsi e tornavano sulla terra, dopo aver scelto, in ordine di arrivo, i paradigmi di vita che offriva loro Maria Lachesi. Molti scappavano dalla dogana e si perdevano nella Pianura della Verità, soprattutto coloro che non accettavano la condanna inflessibile, la sentenza delle Moire. Er si salvò perché in effetti non aveva commesso il peccato di lussuria, ma vi era stato costretto da Semiramide. E fu condannato a  un periodo di espiazione ed alla metempsicosi in un paradigma di vita che avesse scelto. Però Er era preoccupato, voleva tornare subito sulla terra. Non poteva aspettare il periodo di espiazione e di prova, poi la reincarnazione in un nuovo essere vivente.

Intanto Semiramide aveva avuto da Er una figlia: l’unica figlia in una serie di figli maschi. Fu un’eccezione sensazionale, un segno del cielo. A lungo andare Semiramide si accorse che il sosia di Er non era il vero Er: era stata ingannata! Allora ricadde di nuovo in depressione e per vendicarsi lo mandò in battaglia, contro gli Ittiti, un popolo mostruoso e selvaggio, sicuro che sarebbe caduto alle prime battute d’armi.

– Combatti per me Er. Portami la vittoria.

– Certo, mia regina, farò qualsiasi cosa per te!

Il sosia di Er scese in battaglia, però con tutte le accortezze dei generali per mantenerlo in vita, preoccupati per il regno, non riuscì a salvarsi: fu colpito, infatti da un dardo pazzo. Nergal aveva cercato di impedire la morte del falso Er, ma non c’era riuscito e lo stesso re dei morti dovette sottomettersi alla Necessità assoluta, al Fato, controllato dalla guardia dei mondi: Aνάγκη. Questa è la Necessità, il Karma degli Indi, il Contrappasso medievale, il Fato ed indica l’invarianza delle leggi fisiche. E fu così che il vero Er riuscì a tornare tra i vivi, perché le guardie delle Moire ripresero il sosia di Er che era scappato, credendo che fosse il vero Er e lo riportarono al cospetto delle tre regine. Per questa sua fuga fu punito e spedito nell’inferno di Lucifero, il pianeta governato da Satana e gli angeli ribelli, laddove c’è il fuoco eterno, pianto e stridore di denti, i vermi non muoiono mai e trionfa l’eterna morte. Il vero Er così riuscì a tornare nel mondo dei vivi.

Er tornò vivo dalla battaglia, anche se l’esercito era stato sconfitto dagli Ittiti, con gran stupore di Semiramide. Semiramide indignata voleva trafiggerlo, ma mentre impugnava il pugnale riconobbe la voce di Er:

– Amore mio!

Semiramide volle sposare Er. La loro figlia fu chiamata Rama e successe come regina al regno degli Assiri. Col vero amore, Semiramide spezzò l’incantesimo di Nergal e perse l’immortalità. Si trovò d’un tratto vecchissima e decadente. Ma Er per amore non l’abbandonò mai. Semiramide morì poco dopo, dopo essersi convertita. E si convertì pure tutta la città di Ninive e Dio si impietosì e non distrusse quella città, come aveva fatto con Sodoma e con Gomorra. 

La discendenza di Er fu popolosa come le stelle del cielo e come i granelli di sabbia nel deserto: diede luogo al popolo eletto degli Armeni e a quello glorioso degli Ariani, che riportano la radice del suo bel nome (“Ar”). Gli eroi erano esseri semidivini, a metà tra angeli e uomini, che sono spariti dalla celeste gerarchia. Perché? Puniti da Dio per la loro tracotanza (ύβρις). Erano equiparati ai Titani, ma non tutti i Titani erano cattivi (i Nephilim biblici). Sicuramente tutti i titani erano eroi, ma non tutti gli eroi erano Titani: ce n’erano di più piccole dimensioni, che erano giganti in senso metaforico, non fisico. Così eroi erano uomini più dotati, o di intelligenza (geni apollinei), o di forti capacità istintive (geni dionisiaci). 

Abbiamo voluto riportare questa leggenda, che nasce dalla ricomposizione di più miti antichi, per valorizzare il significato esoterico del mito di Er. Nella cosmologia antica i luoghi sono metaforici (e metaforico=metafisico). I mondi corrispondono alla stratificazione elementale: terra (inferi); acqua (fluido sublunare, mondo terrestre superficiale); aria (mondo celeste. Primi cieli, o prime sfere); fuoco (mondo solare spirituale); etere (mondo etereo); iperuranio (mondo divino assoluto: l’essere in-Dio). Questi elementi sono misti nell’uomo e corrispondono agli stati primordiali della Natura: solido, liquido, gassoso, calore, etere, punto di immobilità (freddo assoluto, cioè lo 0 assoluto gradi kelvin, - 460 Fahrenheit). Questo mondo la tradizione celtico-germanica lo chiamava lo Hel: il deserto di ghiaccio, corrispondente al mondo dei morti. L’universo quadridimensionale corrisponde a quello quadri-elementale. L’altezza è l’aria, il verticale; la lunghezza è la terra, l’orizzontale; la profondità è l’acqua, l’abisso, il fuoco è il tempo-moto. Oltre a queste ci sono altre dimensioni. Quella eterea è circolare: la curvatura spazio-temporale. Quella iperuranica è l’immobilità dello spazio-tempo assoluto (0 gradi Kelvin). Questo Spazio-Tempo assoluto è euclideo perfetto, mentre quello etereo è non-euclideo. 

Il mito di Er è un mito escatologico che va correlato a quello del carro alato: l’antica topica della personalità pre-freudiana, che Freud riprende insieme al paradigma edipico, nonché elettrico (d’Elettra). Nel mito vengono indicate le metamorfosi dell’anima, che riprende anche in parte Nietzsche, rielaborandole (cammello, leone, bambino): Orfeo-cigno; Tamiri-usignolo (donde tamerice, “myricae”); Aiace-leone; Agamennone-aquila; Atalanta-atleta (atleta, infatti deriva da sincope di Atalanta); Epeo-donna (emblema dell’androginia originaria legata al mito di Eros); Tersite-scimmia; Odisseo-uomo (“Uno-nessuno-centomila”); etc.: «E nello stesso modo passavano dalle altre bestie in uomini e dalle une nelle altre: le ingiuste si trasformavano in quelle selvagge, le giuste in quelle mansuete. Si facevano mescolanze di ogni genere, si presentavano a Lachesi nell’ordine stabilito dalla sorte. A ciascuno ella dava come compagno il demone che quegli si era preso, perché gli fosse guardiano durante la vita e adempisse il destino da lui scelto». Il demone socratico coscienziale è l’angelo custode della tradizione biblico-cristiana, ma rappresenta anche l’uomo etereo, copia dell’Homo iperuranio. L’homunculus platonicus è l’idea. Dio è Figlio dell’Uomo, oltre che di Dio, cioè dell’Uomo originario, l’Adamo pre-cosmico. Il “Terzo Paradiso” è anche il ritorno allo stadio primordiale, iperuranio. In questo cammino del plotiniano “Reditus” ci si può perdere nell’Ombra: il Lete, contrapposto dell’A-Lete: la Verità, cioè la Luce che fende ed esce dal Buio. I paradigmi biotici (da “vita”) non sono solo stati “metempsicotici”, di provenienza orientale, ma rappresentano stadi del cammino dell’anima verso la sua coscientizzazione cosmica (la “Fenomenologia” hegeliana: l’Anima diventa l’Assoluto). Non tutti riescono a compiere tutti gli stadi, ma possono rimanere intrappolati, anche per sempre, nei cicli, o in determinate posizioni, come i cerchi danteschi. Il principio di individuazione presuppone il suo inverso: quello di dis-individuazione. È più facile dominare una massa di individui assoluti divisi (“Divide et impera”: principio analitico del Diavolo: il divisore) che un popolo cosciente, cioè un Io collettivo. 

«Lui, Er, aveva ricevuto il divieto di bere quell’acqua. Per dove e come avesse raggiunto il suo coro non lo sapeva. Sapeva soltanto che d’un tratto aveva aperto gli occhi e s’era veduto all’alba giacere sulla pira. E così, Glaucone, s’è salvato il mito e non è andato perduto. E potrà salvare anche noi, se gli crediamo e noi attraverseremo bene il fiume Lete e non insozzeremo l’anima nostra. Se mi darete ascolto e penserete che l’anima sia immortale, che può soffrire ogni male e godere ogni bene, sempre ci terremo alla vita che porta in alto e coltiveremo in ogni modo la giustizia con l’intelligenza, per essere amici a noi stessi e agi Dei…». Un messaggio di un Platone che assomiglia molto qui a un Padre della Chiesa, un messaggio autentico: fuggire il Lete, l’oblio! Le tenebre giovannee, cioè il Male ed il suo regno!