articolo di Gianni Criveller
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Simone Weil “l’unico grande spirito del nostro tempo”(Albert Camus, 1951), è una giovane francese di origini ebraiche, attivista sociale, operaia in fabbrica per condividere le condizioni dei lavoratori, autrice di filosofia, teologia e spiritualità.[1] Fu una credente in Gesù che si rifiutò di entrare formalmente nella Chiesa cattolica, o almeno così fu ritenuto fino a qualche tempo fa, indisposta ad accentarne le scomuniche. Dal 1935 vari episodi quasi-mistici registrano l’avvicinamento di Simone alla figura di Gesù.
Una
sera, in Portogallo, dove si reca per riprendersi dopo la dura esperienza in
fabbrica, Simone assiste a una processione religiosa in un villaggio di
pescatori. Il canto struggente delle donne, commosse al pensiero dei loro
uomini in alto mare, la tocca in profondità. Si riconosce pienamente nella loro
pena:
Le mogli
dei pescatori (…) innalzavano canti sicuramente molto antichi, di una tristezza
straziante. Non vi è nulla che possa darne un’idea. (…) Là ho avuto
all’improvviso la certezza che il cristianesimo è per eccellenza la religione
degli schiavi, che gli schiavi non possono non aderirvi, e io con loro. [2]
Simone
sembra così capovolgere l’assioma della religione come oppio degli oppressi,
lei che era stata marxista. Nel dicembre del 1933
ospita il leader sovietico in esilio Leone Trotskij e sua moglie. Nel 1936 partecipa come volontaria pacifista
alla guerra civile spagnola a fianco dei rivoluzionari comunisti. Si ferisce
maldestramente fin dai primi giorni, ed è costretta a ritirarsi.
La
malattia di Simone
Simone
è profondamente segnata, lungo tutta la sua vita, dal dolore fisico. Descrive
la sua malattia, con parole drammatiche, in una lettera Joë Bousquet del 12 maggio 1942.
Da dodici anni sono abitata da un dolore localizzato intorno al punto
centrale del sistema nervoso, al punto di congiunzione dell’anima e del corpo.
Dura anche nel sonno e non mi ha mai lasciato un istante. Per dieci anni è
stato così. Ho vissuto un tal senso di prostrazione, che il più delle volte i
miei sforzi di attenzione e di lavoro intellettuale erano senza speranza. Ero
come un condannato a morte che deve essere giustiziato l’indomani. Per molte settimane,
mi sono domandata con angoscia se morire non fosse per me il dovere più
imperioso, benché mi sembrasse mostruoso che la mia vita dovesse concludersi
nell’orrore.[3]
Anche
dopo aver rinunciato alla fabbrica, troppo pesante per le sue forze fragili,
Simone non guarisce. Dopo il Portogallo, i genitori la mandano allora in
Italia. Ad Assisi, dove trascorre “due giornate splendide”, le succede qualcosa
di imprevisto.
Mentre mi
trovavo sola nella piccola cappella romanica del XII secolo all’interno di
Santa Maria degli Angeli, incomparabile meraviglia di purezza, dove san
Francesco ha pregato tanto spesso, per la prima volta nella mia vita qualcosa più
forte di me mi ha obbligata a mettermi in ginocchio. [4]
Nel 1938 trascorre la settimana santa nel
monastero benedettino di Solesmes (Francia), devastata dai soliti mal di testa.
Una notte, nel buio della cappella, identifica il suo dolore con la passione di
Gesù. Nella stessa lettera a Bousquet citata sopra.
In un
momento d’intenso dolore fisico, mentre mi sforzavo di amare, ma senza
attribuirmi il diritto di dare un nome a questo amore, ho sentito, senza
esservi assolutamente preparata, una presenza più personale, più certa, più
reale di quella di un essere umano, inaccessibile sia ai sensi che
all’immaginazione, analoga all’amore che traspare attraverso il più tenero
sorriso di un essere amato. Non potevo essere preparata a questa presenza – non
avevo mai letto i mistici. Da quell’istante il nome di Dio e quello di Cristo
si sono mescolati in maniera sempre più irresistibile ai miei pensieri. [5]
Un
giovane presente in monastero le fa conoscere George Herbert, poeta metafisico
inglese del Seicento. Simone impara a memoria Amore, una poesia che l’aveva
profondamente impressionata.
Credevo di
recitarla solo come una bella poesia, mentre, a mia insaputa quell’esercizio
aveva la virtù di una preghiera. Fu proprio mentre la stavo recitando che
Cristo è disceso e mi ha presa. [6]
La
poesia un po’ barocca di Herbert riporta immagini e temi che Simone riprenderà
ancora, in particolare nella narrazione principale di questa comunicazione. La
poesia ha due protagonisti: Amore, una trasparente rappresentazione di Dio, e un
interlocutore, nel quale Simone evidentemente si identifica. All’Amore,
che l’accoglie
con dolcezza, l’interlocutore reagisce protestando la sua indegnità.
L’Amore mi
accolse; ma l’anima mia indietreggiò, colpevole di polvere e peccato.
“Io, il
malvagio, l’ingrato? Ah! mio diletto, non posso guardarti.
(…)
L’Amore mi prese per mano, sorridendo rispose:
«Chi fece
questi occhi, se non io?»
«È vero,
Signore, ma li ho insozzati; che vada la mia vergogna dove merita». (…)
«Bisogna
tu sieda», disse l’Amore «che tu gusti il mio cibo».
Così mi
sedetti e mangiai. [7]
Teologia
della sventura e del silenzio di Dio
Simone
riflette in modo originale sul tema della sventura e degli sventurati, a
partire dalle figure bibliche di Gesù e di Giobbe. Elabora una sua singolare
teologia della sventura e della croce. Ha anticipato di qualche decennio la
teologia del silenzio di Dio.
Il grande
enigma della vita umana non è la sofferenza, bensì la sventura. Non stupisce
che vi siano innocenti uccisi, torturati, cacciati dal proprio paese, ridotti
in miseria o in schiavitù, segregati in campi o in prigioni, dal momento che
esistono criminali capaci di compiere azioni simili. Non c’è nemmeno da
stupirsi che la malattia infligga lunghe sofferenze che paralizzano la vita
facendone un duplicato della morte, giacché la natura soggiace a un gioco cieco
di necessità meccaniche. Ma stupisce che Dio abbia dato alla sventura il potere
di afferrare l’anima di un innocente e di impadronirsene da sovrana assoluta.
(…)
La
sventura ha costretto il Cristo a supplicare di essere risparmiato, a cercare
consolazione presso gli uomini, a credersi abbandonato dal Padre suo. Ha
costretto a inveire contro Dio un giusto perfetto, Giobbe. (…) “Della sventura
degli innocenti egli ride”. Non è una bestemmia, ma un grido autentico
strappato al dolore. Il Libro di Giobbe è dall’inizio alla fine un puro
gioiello di verità e di autenticità. [8]
Nella
sventura, in modo del tutto paradossale e incredibile, Simone sperimenta la
misericordia e l’amore di Dio.
La
misericordia di Dio risplende invece nella sventura stessa. E proprio nel
fondo, al centro della sua inconsolabile amarezza. Se perseverando nell’amore
si cade fino al punto in cui l’anima non riesca più a trattenere il grido “Dio
mio, perché mi hai abbandonato?”; se si rimane in quel punto senza smettere di
amare, si finisce con il toccare qualcosa che è l’essenza centrale, essenziale,
pura, non sensibile, comune alla gioia e alla sofferenza, ovvero l’amore stesso
di Dio. [9]
Con gli
esclusi, sempre
Numerosi
passaggi citati provengono dalla corrispondenza che Simone ha intrattenuto con
persone profondamente provate dal dolore.
Joë
Bousquet fu un poeta che, gravemente ferito durante il primo conflitto
mondiale, trascorse il resto della sua esistenza paralizzato e chiuso in una
stanza. Joseph-Marie Perrin fu un domenicano quasi cieco, che divenne suo
confidente spirituale. Con lui discute la possibilità di essere battezzata.
Ma
Simone non rinuncia al carattere contestatario, irregolare e anti-istituzionale
della sua adesione interiore a Gesù. Non entra nella chiesa, vuole stare sempre
e comunque dalla parte degli esclusi. Se la chiesa esclude qualcuno, se la
chiesa scarta qualcuno, lei starà con loro. Trova insopportabili gli anathema
sit,
l’espressione con la quale la suprema autorità ecclesiastica dichiara
“scomunicati” i colpevoli di infrazioni dottrinali o canoniche.
Tradirei la verità (…) se abbandonassi il punto in cui mi trovo sin
dalla nascita, all’intersezione del cristianesimo e di tutto ciò che
cristianesimo non è. (…) C’è un ostacolo all’incarnazione del cristianesimo che
è assolutamente insormontabile. Si tratta dell’uso di due piccole parole: anathema sit. (…) È anche questo a impedirmi di varcare la soglia
della Chiesa. Io rimango al fianco di tutte le cose che, a causa di quelle due
piccole parole, non possono entrare nella Chiesa, ricettacolo universale. [10]
Simone ha parole molto severe rispetto all’esercizio del
potere religioso, o meglio clericale. La chiesa, secondo Simone,
commette
un abuso di potere quando ha la pretesa di costringere l’amore e l’intelligenza
ad assumere come norma il suo linguaggio. Un simile abuso di potere non procede
da Dio. Deriva dalla naturale tendenza ad abusare del potere da parte di tutte
le collettività, nessuna esclusa. [11]
La Lettera
ad un prete
scritta nel 1942 da New York al
domenicano artista Marie-Alain Couturier, si apre con le seguenti parole:
Quando
leggo il catechismo del Concilio di Trento, mi sembra di non aver nulla in
comune con la religione che vi è esposta. Quando leggo il Nuovo Testamento, i
mistici, la liturgia, quando vedo celebrare la messa, sento con una specie di
certezza che questa fede è la mia, o più precisamente lo sarebbe senza la distanza
che la mia imperfezione pone tra essa e me. [12]
Nella
sua tipica paradossalità, Simone dichiara di essere pronta a morire per la
chiesa, ma non ad entrarvi. Desiderava stare con gli esclusi fino al punto di
seguirli all’inferno.
Nel 1942 viene arrestata a Marsiglia per
attività contro il governo filo-nazista francese. Per intimorirla, il giudice
la minaccia di gettarla in cella con donne prostitute. La risposta di Simone,
al solito, sorprende il giudice: la minaccia era per lei un onore. Non vedeva
l’ora di condividere la cella con loro.
In
drammatica coerenza con i suoi ideali, Simone Weil morì il 24 agosto 1943, nel sanatorio di Grosvenor, e fu sepolta nel vicino
cimitero di Ashford (Kent, Inghilterra). La morte fu conseguenza del suo
rifiuto a ricevere cure e cibo appropriati alle sue condizioni, in solidarietà
con il popolo francese che soffriva a causa dell’occupazione nazista. Simone
aveva 34 anni. L’offerta di sé di
Weil è stata definita un “olocausto privato”.
Simone
oggetto di scarto
L’olocausto
privato di Simone è un’offerta di sé ad imitazione di Gesù. Fin dalla
permanenza a Solesmes, Simone pratica la recitazione quotidiana del Padre
nostro, che le permette di sperimentare la presenza amorosa di Gesù.
E a volte,
durante queste recitazioni [del Padre nostro] o in altri momenti, il Cristo è
presente in persona, ma con una presenza infinitamente più reale, più toccante,
più nitida e colma d’amore di quella della prima volta in cui mi ha presa. [13]
La
presenza di Gesù non libera Simone dalle sue precarie condizioni fisiche e
piscologiche. È un donna intellettualmente eccezionale, ma che soffre di gravi
insicurezze. È classificata, nella letteratura medica, come un caso emblematico
di disturbo anoressico, un comportamento che contribuì non poco alla sua stessa
morte. In una lettera del maggio 1942
a Perrin si autodefinì “oggetto malriuscito”[14]. Lei non è che un errore di Dio, un suo
scarto.
Perché in
definitiva in tutto questo non si tratta di me. Si tratta soltanto di Dio. Io
non c’entro affatto. Se si potesse supporre errori in Dio, penserei che tutto
ciò sia piombato su me per errore. Ma forse a Dio piace di utilizzare i
rifiuti, i pezzi difettosi, gli oggetti di scarto. [15]
Era
venuto a cercarmi per errore
L’essere
cercata per errore, l’esperienza di essere respinta, ovvero scartata, ritorna
in modo drammatico nella narrazione del Prologo. Il testo, senza titolo, si trova alla fine del
secondo Quaderno, che Simone non fece in tempo a pubblicare. Viene
solitamente intitolato Prologo, perché Simone intendeva collocarlo all’inizio dei
suoi Quaderni.
Il Prologo
ha per
protagonisti una persona senza nome e dal comportamento imprevedibile e
misterioso. Weil ha rappresentato, con il linguaggio dei mistici, un’esperienza
di un incontro-scontro con Gesù. Simone riprende alcuni passaggi della poesia
di Herbert, segnata dal senso dell’indegnità al cospetto dell’amato.
Scritto
pochi mesi prima della sua morte, il poema è una parabola della stessa
esistenza di Simone, del difficile rapporto con sé stessa, con Gesù e con la
chiesa. Parla di sé al genere maschile, forse riflesso della scarsa propensione
a riconoscere la propria femminilità.
La
mansarda della narrazione è evidentemente la chiesa, per la quale sentiva
attrattiva e repulsione nello stesso tempo. Dalla mansarda Simone è gettata
fuori dal suo amico misterioso. Aveva trascorso giorni indimenticabili con lui,
ma ora la respinge a malo modo. La scena si fa inquietante: Gesù e Simone
vivono un contrasto drammatico, l’attrazione si trasforma improvvisamente in
brusca rottura.
Ma
Simone è così: rifugge come la peste ogni forma di romanticismo. Aveva persino
scritto che bisogna
respingere
l’amicizia. O meglio, il sogno dell’amicizia. Desiderare l’amicizia è un grave
errore. L’amicizia deve essere una gioia gratuita come quelle che danno l’arte,
o la vita. Bisogna rifiutarla per essere degni di riceverla: essa partecipa
della natura della grazia. Desiderare di sfuggire alla solitudine è una viltà.
L’amicizia non la si cerca, non la si sogna, non la si desidera; la si
esercita. [16]
Eppure
ci sono testimonianze che Simone fosse una donna fortemente sentimentale. René
Le Senne la descrisse come “emotiva e passionale”. Suzanne Gauchon, sua amica,
scrisse che Simone “aveva un desiderio sconfinato di tenerezza, di comunione,
di amicizia, ma non sempre trovava il segreto per ottenere ciò che desiderava
ardentemente”. [17]
Ma
torniamo al nostro testo. Cacciata dal suo amato, Simone non sa come
ritrovarlo. Si rende conto allora che non deve nemmeno cercarlo, e che non deve
rientrare in quella mansarda. Il suo posto è con gli esclusi, tra gli scartati,
magari in una cella di prigione, dove il giudice di Marsiglia voleva gettarla
qualche tempo prima.
Ma
l’ultima parola, nonostante tutto, è l’angosciosa speranza di essere comunque
amata.
Entrò
nella mia camera e disse:
«Miserabile,
che non comprendi nulla, che non sai nulla. Vieni con me e t’insegnerò cose che
neppure sospetti.»
Lo seguii.
Mi portò in una chiesa. Era nuova e brutta.
Mi
condusse di fronte all’altare e mi disse: «Inginocchiati.»
Io gli
dissi: «Non sono stato battezzato.»
Disse:
«Cadi in ginocchio davanti a questo luogo con amore come davanti al luogo in
cui esiste la verità.»
Obbedii.
Mi fece
uscire e salire fino a una mansarda da dove si vedeva attraverso la finestra aperta
tutta la città, qualche impalcatura in legno, il fiume dove alcune imbarcazioni
venivano scaricate.
Nella
stanza c’erano solo un tavolo e due sedie.
Mi fece
sedere.
Eravamo
soli. Parlò.
Talvolta
qualcuno entrava, si univa alla conversazione, poi se ne andava.
Non era
più inverno. Non era ancora primavera.
I rami
degli alberi erano nudi, senza gemme, in un’aria fredda e piena di sole.
La luce
sorgeva, splendeva, diminuiva, poi le stelle e la luna entravano dalla
finestra.
Poi di
nuovo sorgeva l’aurora.
Talvolta
taceva, prendeva da un armadio un pane e lo dividevamo.
Quel pane
aveva davvero il gusto del pane.
Non ho mai
ritrovato quel gusto.
Mi versava
e si versava del vino che aveva il gusto del sole e della terra dove era
costruita quella città.
Talvolta
ci stendevamo sul pavimento della mansarda, e la dolcezza del sonno scendeva su
di me.
Poi mi
svegliavo e bevevo la luce del sole.
Mi aveva
promesso un insegnamento, ma non m’insegnò nulla. Discutevamo di tutto, senza
ordine alcuno, come vecchi amici.
Un giorno
mi disse: «Ora vattene.»
Caddi in
ginocchio, abbracciai le sue gambe, lo supplicai di non scacciarmi.
Ma lui mi
gettò per le scale.
Le discesi
senza rendermi conto di nulla, il cuore come in pezzi. Camminai per le strade.
Poi mi
accorsi che non avevo affatto idea di dove si trovasse quella casa.
Non ho mai
tentato di ritrovarla.
Capii che
era venuto a cercarmi per errore.
Il mio
posto non è in quella mansarda.
Esso è
dovunque, nella segreta di una prigione, in uno di quei salotti borghesi pieni
di ninnoli e di felpa rossa, in una sala d’attesa della stazione.
Ovunque,
ma non in quella mansarda.
Qualche
volta non posso impedirmi, con timore e rimorso, di ripetermi un po’ di ciò che
egli mi ha detto.
Come
sapere se mi ricordo esattamente?
Egli non è
qui per dirmelo.
So bene
che non mi ama.
Come
potrebbe amarmi?
E tuttavia
in fondo a me qualcosa, un punto di me, non può impedirsi di pensare tremando
di paura che forse, malgrado tutto, mi ama. [18]
Appendice: circa il battesimo di Simone Weil
Dopo
la testimonianza di Simone Deitz, un’amica di Weil, gli ultimi mesi di vita di
Simone Weil sono stati ricostruiti come segue. [19]
Il 15 aprile 1944 Simone, a Londra per supportare le forze francesi in
esilio, viene ricoverata nell’ospedale del Middlesex, malata di tubercolosi. È
accompagnata dall’amica Simone Deitz. Weil chiede di parlare con il cappellano
militare francese, l’Abbé Réne de Naurois, con il quale ha tre difficili
colloqui.
De
Naurois si rifiuta di battezzarla in quanto Simone si “ostina a rifiutare la
nozione che i bambini non battezzati siano esclusi dal paradiso”. In realtà la
dottrina della chiesa non ha mai affermato in modo definitivo la posizione
sostenuta da De Naurois; ed ora la esclude del tutto. Su questo punto dunque,
Simone Weil aveva ragione, e il severo cappellano torto. Lo stesso prete
confessa di essere rimasto irritato dai colloqui con Simone che, secondo
l’impressione che ne riporta Weil, lui giudica in modo sprezzante come “troppo
ebrea, e arrogante come tutti gli ebrei”.
Qualche
giorno dopo, sentendo la morte ormai vicina, Simone dice all’amica, lei stessa
un’ebrea convertita, di essere pronta a ricevere il battesimo. E Simone Deitz
battezza Simone Weil, in un giorno di maggio del 1944, utilizzando dell’acqua dal rubinetto della stanza, e
pronunciando l’esatta formula canonica: nel nome del
Padre, del Figlio e dello Spirito Santo.
La
fonte principale di questa testimonianza è la stessa Simone Deitz, che non
aveva potuto parlarne prima per esplicito divieto della madre di Simone Weil.
Una importante conferma viene anche dall’Abbé de Naurois, che conferma i
colloqui avuti con Simone Weil in ospedale, dando dunque riscontro oggettivo al
racconto di Deitz. [20]
Numerosi
studiosi ignorano o si oppongono a questa ricostruzione, dubitando della
testimonianza di Deitz, e riaffermando la ben nota posizione di Simone circa il
rifiuto del battesimo. Tuttavia il suo rifiuto non era assoluto e
incondizionato. Nella lettera del 1942,
conosciuta come Autobiografia spirituale, in cui respinge il gentile
invito di Perrin al battesimo, Simone afferma che
Dio non lo
vuole, almeno fino ad ora. E, salvo errore, mi sembra sia sua volontà che io ne
rimanga fuori anche in futuro, salvo forse nel momento della sua morte. Sono
comunque disposta a obbedire sempre ai suoi ordini, quali che siano.[21]
Restare
fuori la chiesa era una sua vocazione specifica, in coerenza con il suo
pensiero universale, e voluta da Dio stesso. Ciò valeva “fino a quando non sarò
del tutto incapace di lavoro intellettuale. E questo per il servizio di Dio e
della fede cristiana nell’ambito dell’intelligenza”. [22]
Nella
lettera appena citata (indirizzata a Perrin attraverso la sua segretaria
Solange Beaumier), Simone ribadisce, per la seconda volta, che si sente
chiamata a restare senza battesimo per tutta la vita “salvo forse – soltanto
forse – nel caso in cui le circostanze mi togliessero in maniera definitiva e
totale ogni possibilità di lavoro intellettuale”.[23]
Non è
dunque possibile, stando agli stessi testi di Simone Weil, escludere che negli
ultimi mesi della sua vita, trascorsi gravemente ammalata in un sanatorio,
avesse ritenuto che le condizioni estreme per accettare il battesimo fossero
giunte.
Gianni Criveller, di Treviso, è vissuto molti anni a Hong Kong e dintorni. Insegna, ricerca e scrive di Cina, letteratura e cristianesimo, missiologia ed è invitato a numerosi convegni, dibattiti e conferenze. Tra i suoi titoli: Vita del Maestro Ricci, Xitai del Grande Occidente (Brescia, 2010); 500 Hundreds Years of Italians in Hong Kong and Macau (Hong Kong, 2013). Ha scritto su Etty Hillesum in Chi scrive ha fede? (Fara 2013) e sulla malinconia di Matteo Ricci in Letteratura… con i piedi (Fara 2014); suoi saggi sono presenti in altri volumi fariani fra cui Perdono: dal rancore al ricordo (“«Se esiste un Dio, mi deve chiedere perdono!»”, 2017), La responsabilità delle parole (“La responsabilità della parola: Lorenzo Milani, da Barbiana a Hong Kong”, 2018) e Distanze (“La poesia abita e riduce le distanze. L’eredità poetica di scrittori armeni vittime del genocidio”, 2018). Scrive per vari blog letterari e testate. È attualmente preside della Scuola teologica internazionale del PIME (Monza). Vi era entrato qualche decennio fa come studente.
Note
[1] Su Simone Weil avevo già scritto un saggio pubblicato su blog letterario Samgha: http://samgha.me/2015/01/28/un-inquietante-testo-mistico-e-poetico-di-simone-weil/. Il presente saggio, mentre riprende alcuni passaggi del precedente, introduce nuove piste di riflessione sulla straordinaria figura della mistica francese.
[2] Simone Weil, Attesa di Dio, Adelphi 2008, 28.
[3] Simone Weil, Joë Bousquet. Corrispondenza (a cura di Adriano Marchetti), Studio Editoriale 1994, 37.
[4] Attesa di Dio, 28.
[5] Corrispondenza, 37.
[6] Attesa di Dio, 29.
[7] Versione in italiano della poetessa Cristina Campo in: www.cristinacampo.it/public/simone%20weil (accesso 4 aprile 2016), 14.
[8] Attesa di Dio, 173-174.
[9] Attesa di Dio, 49.
[10] Attesa di Dio, 36-38.
[11] Attesa di Dio, 40.
[12] Simone Weil, Lettera a un religioso (a cura di Giancarlo Gaeta), Adelphi 2015, quarta di copertina.
[13] Attesa di Dio, 33.
[14] Attesa di Dio, 50.
[15] Attesa di Dio, 33.
[16] Simone Weil, L’ombra e la grazia (a cura di Franco Fortini), Rusconi 1985, 77-78.
[17] Nadia Fusini, Hannah e le altre, Einaudi, 2015, 20-21.
[18] Simone Weil, Quaderni, vol. I, Adelphi 2008, 103-105.
[19] Su questa questione vedi due studi di Eric O. Springsted, da cui ricaviamo anche le citazioni dirette di questo paragrafo: www.sunypress.edu/pdf/52976.pdf (accesso 24 settembre 2014); www.laici.va/content/dam/laici/documenti/donna/culturasocieta/english/simone-weil-and-baptism.pdf (accesso 24 settembre 2014).
[20] Vedi anche, in italiano la discussione in www.prospettivapersona.it/index.php/vedi/97-simone-fu-battezzata-risposta-di-paolo-farina.html#_ftnref16 (accesso 24 settembre 2014).
[21] Attesa di Dio, 35.
[22] Attesa di Dio, 45.
[23] Attesa di Dio, 47.
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