Fu una mattina gelida, invernale.
Aprirono i cancelli e questi cigolarono. L’alito, caldo, si fece affanno. Gli
scarponi avanzarono. Gli occhi aperti e le bocche chiuse, ammutolite.
Superarono i fili spinati. Tutt’intorno, silenzio e neve. Apparvero i primi
internati, come fantasmi. Scheletri vestiti, deformi, curvi. Iniziò, così,
l’orrore. Li videro uscire dai dormitori. Non erano uomini, erano quel che
restava. Non dissero nulla. Guardarono e basta. Le bestie che avevano urlato,
riso, ucciso, torturato, erano scappate. Giusto in tempo. Per questo, non si
sentì sparare. I passi aumentarono. Ai numerati se ne aggiunsero altri: donne e
bambini, poche, pochi. Qualche bambino sorrise. Alcune donne, senza capelli, iniziarono
a piangere e anche qualche vecchio. Mentre gli uomini no. Non credevano che fosse
finita. Non credevano che la Morte li avesse lasciati vivi. Entrarono nelle
baracche. Qualcuno si tolse l’elmo e iniziò a grattarsi la testa. Il puzzo era
umano, ma comunque stomachevole. Ne videro, così, altri, stesi su nudi e umidi
tavolacci. Lo sguardo smarrito. Occhi vuoti, corpi intirizziti dal freddo e,
ancor di più, dalla paura. Allora, furono portate le prime coperte. Recavano
scritte in cirillico. I bambini, più coraggiosi, perché più vivi, mostrarono
loro numeri tatuati sulla pelle e tesero ciotole vuote: avevano fame. Passo
dopo passo il campo si riempì e andarono dappertutto. Fu così che videro…
l’inimmaginabile. I forni crematori, abbandonati, ma ancora fumiganti. L’odore,
ad alcuni di loro, provocò il vomito. Poco più in là, le fosse comuni. Corpi
nudi, aggrovigliati. Si fermarono. Nessuno disse niente. Guardarono e videro la
Morte, il Male. Qualcuno iniziò a fotografare e filmare. Tutto doveva essere documentato,
a perpetua memoria. Continuarono a girovagare per i campi dello sterminio,
percorrendo i viottoli, entrando nelle baracche, negli alloggi. Tutto appariva
irreale, non possibile, non umano, come un incubo. Invece, quando il sole si
fece alto, tutto era vero; mostruoso ma umano. Non era un sogno, era la realtà.
Era stato l’Inferno sulla Terra. Le bestie avevano reso l’impossibile
possibile. Quella mattina non nevicò. Per questo, sembrò primavera. Giunsero,
nel frattempo, i primi autocarri. Portarono via i pochi sopravvissuti. Fragili,
come foglie secche, vi salirono, uno dopo l’altro. Qualcuno, allora, iniziò ad
abbozzare un sorriso, qualche altro a parlare. Le lingue furono tante, ma tutte
molto umane. E queste lingue divennero milioni, perché, poi, iniziarono a
raccontare quel che fu, quel che non dovrà mai più accadere. E mentre loro
partivano, per sempre, altri arrivarono, in quelle stesse ore, chiamati via
radio per vedere quel che il mondo non aveva voluto vedere, ma che ora doveva
vedere. Qualcuno, si sedette, la testa tra le mani, la vergogna dentro il
cuore. Erano giovani. Non avrebbero visto mai più nulla di simile. Molti di
loro non fecero ritorno nelle loro case. Mentre, molti altri divennero padri,
ma non raccontarono mai ai loro figli quel che videro, quel che piansero, quel
che vomitarono. Questo videro i soldati russi ad Auschwitz il 27 gennaio 1945.
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