giovedì 28 gennaio 2016

DARE IL PANE A CHI NON HA I DENTI




Se qualche lettore pensa che la storia che sto per raccontare non sia vera, sappia subito che si sbaglia.
La signorina Margareth non poté rispondere. Rispose, per lei, la madre. “Sono il notaio Harbord. Siete convocati nel mio studio, domani, alle 11!”. “Saremo puntuali!”, rispose la signora Aubyn.
La signora e il signor Aubyn erano, entrambi, figli unici e tutti e due avevano ereditato cospicui patrimoni immobiliari che fruttavano rendite tali da consentire loro di non svolgere nessun tipo di lavoro. L’unica occupazione: la loro unica figlia Margareth. Il resto del loro tempo era completamente assorbito da un attento e meticoloso controllo dei registri contabili, delle entrate e delle uscite. Nonostante la loro ricchezza conducevano una vita semplice, scevra di mondanità e di sprechi. Nulla veniva buttato, anzi tutto veniva riciclato, rammendato. Il personale domestico, con tacito accordo, veniva spiato da entrambi soprattutto nell’uso delle dispense collocate nel seminterrato della grande magione. Per questo motivo, non esistevano quantità abbondanti, ma solo moderate. Ecco: “Moderazione”, era il vero motto dei coniugi Aubyn. Però, non li si poteva accusare di avarizia. No, non erano avari. Almeno questo!
Solo circa un mese prima erano stati convocati, sempre dal vecchio notaio Harbord, per la lettura di un testamento a favore della loro unica figlia la signorina Margareth. Un lontano zio, scapolo e molto ricco, Sir Prescot, aveva lasciato i suoi allevamenti di bovini da latte e di cavalli purosangue da corsa alla sua unica nipote: la signorina Margareth. Il testamento a suo favore, come erede unica e universale, non fu per i signori Aubyn una sorpresa. Infatti, conoscevano la volontà di Sir Prescot da oltre tre anni tramite una sua lettera nella quale, questo loro pur lontano parente, li informava che prima di giungere la sua morte, che sentiva ormai prossima, aveva sottoscritto il suo testamento a beneficio della “piccola Marga”.
Anche in questa occasione, come in altre, avevano saputo attendere. In questi casi saper attendere che ci scappi il morto è quasi tutto. Dopo la lettera, nei riguardi del lontano Sir Prescot, non si erano mai lasciati andare in eccessi di affettuosità. Sir Prescot aveva ricevuto da loro solo una breve lettera di presa d’atto della sua volontà e di ringraziamento. Nulla di più. Morto tre anni dopo la stipulazione, il povero cadavere del ricco Sir Prescot non fu accompagnato né in chiesa né all’adiacente cimitero dalla famiglia Aubyn che davanti a parenti e conoscenti giustificarono la loro assenza con un telegramma che telegraficamente registrava la scusa della lontananza e, quindi, del viaggio troppo lungo e faticoso. Sir Prescot, che era tipo da non offendersi facilmente, pare che anche in questa occasione non si sia offeso e che, comunque, fu sepolto e la signorina Margareth divenne ancor più ricca.

Ma la fortuna della signorina Margareth, ormai quasi di dominio pubblico, sembrava non avere limiti. Infatti, oltre un anno prima era morta improvvisamente in una sperduta provincia della lontanissima India l’unica sorella della defunta madre del signor Aubyn. La signora Crosland, vedova, senza figli, del signor Crosland, possedeva una miniera di rubini e una d’oro. All’apertura del testamento nello studio londinese del notaio Bankes, i signori Aubyn ebbero la gioia di apprendere che la zia Sarah aveva intestato le sue miniere alla loro figlia Margareth “affinché – così recitava l’atto – i futuri proventi di queste assicurino una aristocratica educazione alla nostra cara nipotina Marga”. Si dice che la defunta signora Crosland non abbia mai visto neppure una foto della “cara nipotina Marga”.

Dunque, nel breve tempo di pochi anni la signorina Margareth aveva accumulato un patrimonio tale da fare invidia persino a Lord Grosvenor e a molti altri ricchissimi aristocratici inglesi.
Anche alcuni vicini parenti provavano e manifestavano un sincero sentimento di invidia e di rabbia, soprattutto, per non esser mai stati né baciati né sfiorati dalla stessa fortuna della signorina Margareth pur potendo rivendicare diritti, anche se a dire il vero molto deboli, sui citati testamenti. Le loro giuste attese e aspirazioni furono tutte e sempre tradite all’apertura e lettura dei testamenti.
In queste circostanze, i signori Aubyn ne prendevano atto, accettavano e firmavano, ovviamente sempre con il tacito consenso della loro figlia, la signorina Margareth, e andavano via dopo aver stretto la mano solo al notaio di turno. Invece, ai parenti presenti neppure uno sguardo, un mezzo sorriso di cortesia, un saluto di buon vicinato. La loro compostezza e freddezza gelava e bloccava tutti.

Nel salotto di attesa del notaio Harbord, dove fu fatta accomodare la famiglia Aubyn, le alte pareti erano tappezzate di antiche stampe di Gustave Doré raffiguranti scene tratte dalla Divina Commedia di Dante in particolare dalla cantica dell’Inferno. Alcune di queste scene erano veramente raccapriccianti. La signorina Margareth le osservava con i suoi occhi cerulei vuoti e smarriti e la bocca semi aperta che mostrava denti piccoli e storti.
“Continuo a non capire come queste orribili raffigurazioni possano piacere al vecchio Harbord!”, disse, sottovoce, con espressione disgustata la signora Aubyn rivolta al marito. Forse, il notaio Harbord le aveva fatte appendere nel salotto di attesa perché fossero monito almeno per la coscienza di qualcuno che vi avrebbe sostato, pensò tra se il signor Aubyn.
All’ora stabilita il notaio Harbord aprì la porta, li fece entrare accogliendoli con un gran sorriso e una decisa e vibrante stretta di mano e li invitò a sedersi davanti alla sua solenne scrivania stracolma di fogli, cartelle, libri. Il notaio, come sempre, non perse tempo in inutili convenevoli e dopo aver estratto da una busta, precedentemente aperta tolto un sigillo, alcuni fogli iniziò con tono grave a leggere scandendo le parole, una per una, come era suo solito fare.
Si trattava del testamento di una defunta amica della signora Aubyn, la signorina Lindsay, morta dopo una lunga malattia che l’aveva resa negli ultimi anni incapace di fare anche i movimenti più semplici. L’elenco dei beni in oggetto comprendeva: La sua tenuta con una redditizia fattoria, la sua collezione di quadri di impressionisti francesi, la sua biblioteca specializzata nel vasto campo della filosofia e un pacchetto di azioni di una società petrolifera americana. Il tutto lasciato “alla buona Marga perché aiuti coloro che soffriranno quanto e più di me”.

I signori Aubyn ascoltarono la lettura del testamento con lo sguardo fisso sugli occhi vispi del notaio senza perdere una sola virgola e una sola sfumatura di tono della sua bella voce. Durante la lettura il vecchio Harbord ebbe l’impressione che la signora Aubyn si fosse commossa, ma questa fu solo una sua segreta sensazione che non corrispondeva affatto al vero.

La signora Aubyn rimase immobile, impassibile, inespressiva, come sempre. Infatti, era stata sempre molto brava a trattenere e gestire qualsiasi emozione. Solo, mentre ascoltava pur attentamente, pensò per pochissimi istanti alla sua adolescenza vissuta anche con l’amica Katherine, la defunta signorina Lindsay. Questa fu, soprattutto, un’ottima compagna di studio prima che la malattia degenerasse privandola lentamente anche della facoltà di poter scrivere. Ma, oltre questo ricordo, nulla di più. Nulla di più si introdusse nella sua mente calcolatrice.
Terminata la lettura, il notaio li pregò di firmare per conto della loro figlia e firmarono subito con mano ferma, sicura, decisa. Questo perché la loro unica figlia, la signorina Margareth, era minorata mentale. Quindi, firmò anche il notaio apponendovi poi sopra il suo timbro sigillo.
Li accompagnò alla porta senza dire una sola parola. In fine, si accomiatò da loro con l’augurio: “Alla prossima!”. Usciti e chiusa lentamente la porta, il vecchio Harbord mormorò: “Eh sì, dare il pane a chi non ha i denti!”

(Tempio Pausania, gennaio 2016)

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