Classifica sez. Racconto
per la sez. Poesia v. farapoesia.blogspot.it
Opere vincitrici
Opere vincitrici
Un saluto
Innanzitutto ci tengo
molto a ringraziare Alessandro che mi ha proposto di far parte della giuria.
Perché è stata per me una vera gioia poter leggere questi racconti. Ringrazio
quindi con tutto il cuore i partecipanti al concorso, per i loro lavori. Tutti,
per un motivo o per l’altro, hanno aggiunto qualcosa alla mia vita, anche solo
una piccola cosa, ma tutti sono per me preziosi e in tutti ho trovato almeno un
motivo per emozionarmi. Ognuno a suo modo, con linguaggio ritmo e stile
differente, ha disegnato un mondo narrativo nel quale abitare, almeno per un po’.
Qualcuno mi ha fatto piangere, qualcuno mi ha fatto ridere, qualcuno mi ha
tenuto sulle spine, qualcuno mi ha innalzato, qualcuno mi ha fatto soffrire,
qualcuno gioire. Quindi, GRAZIE!… E mi preme precisare che le mie valutazioni
sono da considerarsi profondamente soggettive! (Massimiliano Bardotti)
1. Showtime di Vesna Andrejevic (Belgrado, Serbia)
1. Showtime di Vesna Andrejevic (Belgrado, Serbia)
Vesna Andrejevic
(Belgrado, 28 giugno 1965) è traduttrice letteraria e multimediale free lance,
scrittrice e docente di Lingua e Letteratura italiana, serba ed internazionale.
Risiede e lavora in Serbia partecipando a vari concorsi e premi in Italia e in Europa. Scrive e pubblica i suoi testi fin dall’infanzia. Ha collaborato con varie riviste on line pubblicando i suoi racconti e saggi di argomento
letterario (Faranews, Euterpe, ecc.). Suoi testi narrativi sono stati
premiati e pubblicati in diverse antologie sia in versione cartacea che come
eBook. (Premio “Pietro Conti”, Perugia, 2004; Premio “Donne in pagina”,
Arcilettore, Leno, 2009). La sua raccolta di racconti La gente altrui nel paese delle meraviglie (Premio LetterarioInterrete) è stata pubblicata in formato eBook in “Kappeventi.com”, Prospettiva
editrice, Roma, 2006. Fra i diversi riconoscimenti letterari: Premio ICoN,
prima classificata con il racconto Troppi sogni azzurri della gente di troppo Pisa, 2006; Premio Speciale “Mario
Ceccarello” per il romanzo breve Saga
degli Zingari o Sas thaj avel… al Concorso letterario “Insieme nel mondo”,
Savona, 2006; Premio Internazionale di Poesia e Narrativa “Insieme nel mondo”,
X edizione, prima classificata Narrativa Inedita con il romanzo Forziere di nonno, Savona, 2012; Premio “Alda
Merini”, II edizione, selezionata con il racconto Magda, Brunate, 2013; e Premio Letterario Internazionale Europa,
XIV edizione, prima classificata Narrativa inedita con il racconto “La notte di
Natale”, Lugano, Svizzera, 2013. Scrive narrativa, traduce i libri e film e
coltiva i suoi sogni letterari.
La luce degli occhi miei
La luce è andata via di nuovo. C’è buio che si affetta sempre di più. Non è che io ne abbia paura, finora mi ci sono abituato, inoltre per me è sempre buio. Ma solo quando la gente dice che ci hanno tolto di nuovo la corrrente, a me sembra un buio diverso, un buio che odora diversamente. Tutto diventa silenzioso. Forse è così perché di solito con la corrente ci tolgono anche l’acqua e per questo non si sente nessun gocciolio. Poi fa freddo, il campo intorno alla chiesa è coperto completamente di gelo e la neve non scricchiola affatto quando cammini. È diventata anch’essa dura e così densa, sembra una pietra che non scoppia mai dal gelo. Non c’è proprio modo di sentirla. Come se si fosse nascosta da qualche parte e non volesse muoversi.
Dico, non temo per me ma per la mia Mira. È andata al bosco a prendere il ceppo di Natale: stasera è la Vigilia di Natale, si fa sempre così, cioè si deve portare a casa il ceppo di quercia rossa che si accende al focolare e poi si fa una bella cena, però si mangia di magro. Ah, dimenticavo, prima si deve fare il segno della croce. E dopo non si deve assolutamente uscire di casa per non far scappare la fortuna. Altrimenti dovremmo supplicarla per tutto l’anno di venire a trovarci. A volte non ti sente bene, quando la chiami, e allora non viene e non ti rivolge nemmeno uno sguardo. Fa così sicuramente perché si dice che la fortuna è cieca. Allora è proprio come me. Ma io vengo sempre, quando mi chiamano. Cioè vengo quando mi chiama la mia Mira, perché non c’è più nessun altro che mi chiama. Ma io verrei se mi chiamasse chiunque, verrei subito… se solo mi chiamasse.
Noi, qui, in Kosovo, cioè qui nel nostro Kosovo, non in quella parte loro di Kosovo, ma qui dove una volta c’erano le chiese, il bestiame, i bimbi e quant’altro, dico noi qui non abbiamo tanta fortuna da vendere e per questo dobbiamo custodirla bene. Per questo io devo stare a casa perché non scappi via… Va bene, la nostra non è proprio una casa, è una chiesa, cioè una volta era la chiesa di Santa Parasceve. Ma tu lo sai chi era Santa Parasceve? Io lo so! Me l’ha insegnato la mia Mira! Be’ era una santa, lo sai, ma una grande santa che aiutava tanta gente come fanno tutti i santi, aiutava i poveri e i malati, andava a trovarli in tutti i paesi e villaggi come il nostro, voglio dire come quello mio e di Mira, e nessuno li aiutava tanto… Ma lo sai qual è la cosa più importante che si dice di lei? Se ti lavi gli occhi con la sua acquasanta, cominci subito a vedere di nuovo! È vero! È così perché lo dice la mia Mira! Sì, è proprio vero! Lei sa tutto! Me l’ha insegnato lei! Va bene, glielo chiederemo appena torna se non mi credi. Allora vedrai una volta per tutte chi è l’ignorante! Però non le dire che non lo sapevi, ma che non ne eri proprio sicuro, perché lei si arrabbia tantissimo se non si sanno le cose che ti ha ripetuto mille volte! A un ragazzo bravo e svelto basta dire lo cose importanti solo una volta per fargliele imparare. E devi sapere che l’acquasanta di Santa Parasceve ti fa tornare la vista! Non lo devi dimenticare assolutamente! Solo che prima devi trovare la sua acquasanta. Be’ una volta da queste parti c’era la sorgente con l’acquasanta di Santa Parasceve. Quando c’era la chiesa, qui veniva tanta gente da tutte le parti, veniva pure dalle città lontane e veniva pure con le macchine, ma ora non si può più venire da noi. Non può venire nessuno ma non può nemmeno uscire nessuno da qui. Siamo circondati dal filo spinato e se metti solo un piede fuori, puoi sparire per sempre. Per questo non sono andato a cercare l’acquasanta, ma se potessi, andrei a cercarla ovunque finché non la trovassi e poi la riporterei qui. Così la gente potrebbe venire di nuovo da noi. Perché una volta tornata l’acquasanta, torna la gente! E poi torna la luce e l’acqua corrente. E poi, ci costruiscono di nuovo la nostra chiesetta. Ed io racconterò agli operai per filo e per segno come era la nostra chiesetta, così la faranno uguale, proprio identica a quella vecchia! Conosco benissimo dove stava ogni mattone e ogni affresco! Conosco pure ogni colore! E una volta diventata grande, grande fino al cielo e la più bella chiesa del mondo, cioè più bella pure di tutte le chiese che si trovano nei libri di Mira, mi laverei gli occhi con l’acquasanta di Parasceve per poterla vedere! E per poter rivedere la mia Mira. Ma ora voglio solo che lei torni dal bosco dove è andata a prendere il ceppo di Natale… È Vigilia di Natale, si fa così…
(…)
«Showtime è
un racconto dell’orrore. Non narra però l’orrore di cartapesta e vacuo di molti
racconti di genere. La trama di Showtime
scaturisce dal cuore nero del conflitto del Kosovo, guerra che ha provocato decine di migliaia di
morti e generato turpitudini inimmaginabili, un orrore di fronte al quale la
coscienza civile internazionale ha spesso dimostrato indifferenza. E da tale
nucleo dell’abominio, l’autore di Showtime porta alla luce una storia quasi del tutto sconosciuta: le violenze e le brutalità subite, nel generale
silenzio delle organizzazioni internazionali, dalle minoranze indifese dei Rom
e degli Ashkali, popolazioni abbandonate poi in campi profughi allestiti su
terreni altamente inquinati dal piombo. La scrittura di Showtime è aspra, frammentata, deforme e s’espande in schegge come
in una deflagrazione di straordinaria potenza, dal Kosovo avvelenato dalla
crudeltà umana, dall’uranio impoverito di proiettili e carri armati e dal
piombo di miniere in disuso,
fino ai lager nazisti dove
gli “zingari”, ancora una volta invisibili allo sguardo della storia, sono
stati vittime d’ulteriori abomini.» (Subhaga Gaetano Failla)
«Racconti dal Kosovo all’Italia, che si snodano tra
guerre, drammi, orrori, fuggiaschi e profughi, dentro un tempo dilatato del
presente e del passato. La prosa a tratti ingenua e colloquiale, vive sospesa
sta realismo e visionarietà onirica.» (Maria Pina Ciancio)
«Chi ha scritto di questi racconti possiede due doti
preziose: un mondo da narrare e una voce per narrarlo. Il mondo è quello del
Kosovo sconvolto dalla guerra civile (ma ci sono anche accenni a un passato
ancor più cupo e drammatico). Le voci sono quelle dei piccoli uomini travolti
dalla tormenta della storia, le cui vite trapelano con una forza drammatica, a
volte lancinante. Ogni tanto emerge qualche durezza stilistica, frutto
probabilmente di un italiano non nativo, ma nulla che non si possa risolvere
con minimi intervento di editing. Però il narratore c'è, senza il minimo dubbio.» (Sergio Pasquandrea)
«È l'ora dello spettacolo
e va in scena la vita. Con le sue miserie e la sua forza, le sue fievoli luci e
le sue voraci ombre. E le parole, nude come la verità, divengono carne e cuore
e occhi spalancati in faccia al lettore. È uno sguardo che graffia l'anima.» (Emilia Dente)
«Attraverso un linguaggio
scorrevole, parlato, il testo evoca emozioni penetranti e a tratti struggenti.
Ciascuno dei racconti riesce a coniugare narrazione – sviluppata con fluidità –
a brevi venature celatamente poetiche; buona capacità di sintesi.» (Lucia
Grassiccia)
2. Maltempi di Graziano Turesso (Alzate Brianza, CO)
Graziano Turesso, ha quarant'anni e vive a Como.
Operaio precario, già due volte in passato ha avuto fortuna scrivendo: una
volta con un racconto (“Canto del bosco masticato” in La poesia racconta 2), un'altra con un breve romanzo (La polvere dietro); entrambe per Fara
Editore. Sono passati alcuni anni, feroci abbastanza da lasciargli forze che
non bastavano per tutto. Dovendo rinunciare a qualcosa, ha rinunciato alla
scrittura, alla fatica che gli chiedeva. Ora vi si riavvicina, grosso modo,
perché le passioni faticano a passare: senza illusioni, quella per la
scrittura; piena di soddisfazioni, quella per la lettura, soprattutto di quella
non tradotta; la scrittura, quegli autori che nel secolo scorso scrivevano
nella lingua in cui noi scriviamo e la facevano sembrare così bella.
Due Bicchieri
- A me mica mi piace tanto, così.
- Cosa?
Dalla finestra entravano insieme l’odore della città ed il
rumore del suo traffico. Da qualche parte doveva essere primavera e mancar poco
all’estate, ma là sotto, per strada, fuori dalla finestra, le macchine non
conoscevano stagione.
- È brutto, ecco.
- Povero. Però no, tanto bello non è.
- No: è proprio brutto!
Rimise lo straccio in ammollo nel secchio, poi lo strizzò. L’odore
del detersivo gli s’infilò nel naso. L’inspirò, l’espirò. Non gli piaceva. Ma
era meglio di quell’altro odore, di quello che veniva su dalla strada e dentro
dalla finestra. Questo, quello del detersivo, sarebbe svanito appena il
pavimento sarebbe stato asciutto, e c’avrebbe messo poco a farlo, con la
finestra aperta. Quell’altro, quello del traffico, no.
- Hai fame?
- Sete. Sì, sete.
- Poi mangiamo, però.
- Ti va?
- Mica tanto.
Gettò di nuovo lo straccio sul pavimento. Ci mise sopra lo
spazzolone, cominciò a strofinare camminando a ritroso. L’odore del detersivo,
quello del traffico. Prima li aveva persi, gli odori. Aveva smesso di sentirli
così tanto tempo prima che non si ricordava quando fosse successo, e non si
ricordava di loro. Odori. Profumi. Prima. Prima fumava. Prima. Ma non doveva
essere solo quello, pensava. Non lo era, lo sapeva.
- Sorpresa!
Sentì il bacino di lei urtare contro il suo sedere. S’alzò.
- Cavolo. Era questa la parità tra i sessi?
- Eh, sì. Tieni.
Gli porse un bicchiere di vino rosso. Uno lo aveva lei. Il
bicchiere che aveva dato a lui era largo e blu, quello che s’era tenuta per lei
era stretto e giallo.
- Come faccio a volerti bene, io, a te?
- È perché sei scemo. Ti piace?
- È buono. Cos’è?
- Me l’ha dato Ferruccio. Però è un peccato berlo così,
senza mangiare.
S’inclinò il bicchiere tra le labbra. Una goccia gli s’arrampicò
tra il labbro e il bicchiere, poi gli discese sotto al labbro e si fermò sul
ciuffo di barba che rimandava di radere.
- Che spreco.
Si chinò verso di lui, tenendogli le dita sul sopracciglio.
Raccolse con le labbra la goccia di vino che se n’era appena scappata.
- Cavolo. Buono!
Lui la baciò.
- Sì. Buona.
- Che poi, dico: a me questa storia del peccato non è che mi
piaccia tanto. Se il vino è buono è buono anche lontano dai pasti, secondo me.
Stava per iniziare. La guardò. Cercò di non mostrar sorriso,
ma dentro gli piaceva quel che stava per succedere. Gli piaceva ogni volta.
- Sì, insomma: è vero che il vino cammina bene con quel che
si mangia, però non è mica obbligatorio, farlo. Tanto la gente nemmeno lo sa,
quale vino è buono e quale no. Mica lo riconosce. Vanno al supermercato e
comprano quello con il nome che han sentito nominare più spesso, poi a casa te
lo versano e dicono “prova questo, è uno di quelli buoni”, manco l’avessero
spremuto fuori loro, dall’uva. Invece è un vino normale. Ti dicono “per questo
secondo ce l’ho io il vino giusto”, e aprono un’altra bottiglia per farti
vedere che fanno gli abbinamenti, ma solo perché fa scena. E poi se ti vedono
bere vino lontano dai pasti ti fanno pure la predica.
Le guardò il sedere mentre lei attraversava la cucina con il
bicchiere vicino al viso e l’altro braccio posato sul ventre, per traverso. Con
la mano si teneva il gomito del braccio che reggeva il bicchiere. Intanto
parlava.
(…)
«Il titolo Maltempi
riunisce quattro brevi racconti di
grande qualità. Due bicchieri e Gli orari dei treni narrano storie di
coppia osservate da uno sguardo
laterale e minuzioso. Anche Guanti ha
come sfondo una storia di coppia, ma qui la prospettiva d’osservazione è
situata tra le pieghe d’un destino beffardo, rischiarato da una luce livida. That’s all folks, infine, il racconto
forse più intenso e aspro, adrenalinico, sincopato, con dialoghi saettanti dal
ritmo misuratissimo, proviene da un altro margine esistenziale, da un mondo che
è il riflesso distorto di ipocrite quotidianità di superficie. Le narrazioni si
dipanano attraverso uno stile asciutto e cristallino, di straordinaria
efficacia. L’autore gestisce con notevole
padronanza il tessuto delle storie e tale capacità si manifesta con
maggiore evidenza nella musicalità dirompente dei dialoghi. Le storie, nel solco della migliore tradizione letteraria
statunitense, ricordano certe atmosfere e stili che vanno da Raymond Carver a
Tobias Wolff.» (Subhaga Gaetano Failla)
«Mi basterebbe il racconto
intitolato “Guanti” per osannare questa raccolta. Mi ha travolto la trama,
questa inquietudine di capire l’accaduto e l’umanità, tutta da decifrare, del
protagonista che scrive la lettera ad Anita. Anita, figura disegnata solo dai
rimandi diretti che il protagonista le rivolge, rimane in disparte, in effetti è
un’assenza molto presente, un fantasma materico, al quale rivolgere domande che
il protagonista rivolge in fondo all’esistenza. Una vicenda raccontata con
grande maestria. Centellinando i tempi della narrazione. Una scoperta per
volta, poco alla volta. Nel mezzo tutta la disperazione di chi comprende sulla
pelle: il destino porta i guanti, e non lascia impronte. Trovo che chi ha
scritto questi racconti sappia esprimersi con varietà di linguaggi e stili,
tutti credibili, riusciti. Inoltre credo abbia saputo dare voce a quelli che
spesso vengono definiti gli ultimi. I non visti, gli sconosciuti. Quelli che se
finiscono su un giornale, è perché hanno commesso qualche reato, qualche
follia. Qui sono raccontati con attenzione, e l’attenzione è alta, altissima
forma d’amore. E per curare così i dettagli, per cogliere certe sfumature di
luce, gli odori, i tagli di certi volti, per saper lasciare in sospeso il
necessario, ché qualcosa di irrisolto c’è sempre, secondo me bisogna amarla la
vita e gli esseri umani, anche quelli che ci fanno paura o ci fanno dannare l’anima.
E bisogna amare anche la scrittura. Un ultimo non meno importante appunto:
Trovo che in questi racconti i dialoghi tendano alla perfezione. I dialoghi
reputo siano fra gli elementi narrativi più complicati da gestire. Suonano
spesso finti, non riscontrabili nella realtà. In questo caso invece, li ho
trovati impeccabili.» (Massimiliano Bardotti)
«Una scrittura flessibile, ruvida e spezzata quando
il pensiero è del Mohicano, morbida e lenta quando serve una lettera d'amore.
Di un innocente, dal carcere. Ogni storia è un frammento di vita e nessun
frammento resta in superficie.» (Roberta Leone)
«Storie dure, metropolitane, quelle riunite sotto il
titolo di “Maltempi”. I personaggi sono emarginati, sbandati, eccentrici, e il
linguaggio brusco e scorciato aderisce in tutto e per tutto alla realtà
narrata. Il racconto procede per sbalzi, scarti, torsioni improvvise (non so se
il riferimento è pertinente, ma a me è venuto spesso in mente lo sguardo
teneramente cinico di un Andrea Pazienza o di uno Stefano Tamburini). A volte
la vicenda si ferma a un passo dal finale, a volte il finale proprio non c'è,
ma quel che conta è la forza con cui l'autore riesce ad evocare ciò che narra e
a portarlo icasticamente davanti agli occhi del lettore.» (Sergio Pasquandrea)
«Le tre
storie sono accomunate da uno stile riconoscibile, godibile, fresco; all’equilibrio
della scrittura contribuisce una buona distribuzione dei dialoghi, ben aderenti
ai personaggi. Le riflessioni della voce narrante si legano con leggerezza allo
svolgersi delle vicende.» (Lucia Grassiccia)
3. L’alchimia
della colpa di Anna
Silvia Armenise (Bellaria Igea
Marina, RN)
Nata a Rimini, Anna Silvia Armenise ha sempre vissuto a
Bellaria. Si è diplomata al Liceo Classico “Giulio Cesare” a Rimini ed è
dottore in Tecniche e Teorie psicologiche. Attualmente studia alla magistrale
di Psicologia del Lavoro a Cesena. Fin da quando era bambina ha avuto sempre la
passione per la scrittura e la lettura, in particolare per il genere horror e
fantascientifico. Ogni momento libero lo passa, infatti, consumata da tale
passione che vorrebbe diventasse la sua carriera di vita.
L'alchimia della colpa
Incapaci sono gli amati di
morire
perché l'amore è immortalità
(Emily Dickinson)
Si era spento nella notte.
«Finalmente...» trasse un profondo
sospiro di sollievo Madame Corneille.
Era morto fra il piscio e la merda che
impregnavano le lenzuola, in quello stesso letto dove aveva perduto la sua
dignità di uomo, padre e marito, consumata dalla febbre tifoide che se lo era
divorato. Lentamente.
All'ultimo della sua dipartita,
sorrideva. Durante la convulsione finale, le labbra esangui e aride si erano
ritratte lasciando i denti digrignati. Rivoli di bava gli colavano sul mento,
misti a sangue e sanie poiché la stretta estrema della mascella aveva fatto
scoppiare le afte infette che brulicavano sulle gengive. Quella smorfia inquietante
che gli segava il viso da uno zigomo tagliente all'altro stonava dolorosamente
con l'espressione d'angoscia che gli segnava gli occhi incavati, e ormai
opachi. Madame Corneille non riusciva più a sostenerne la vista.
«Non lo lascerete mica in tali
condizioni?» sbottò ansiosa, la voce attutita dalla mano a protezione di naso e
bocca. Era poco dignitoso che lo sposo si mostrasse così orribilmente contento
di incontrare Nostro Signore. Cosa avrebbero pensato i parenti e gli amici
durante le onoranze funebri? Che era felice di lasciarla vedova con una figlia
ancora da maritare senza una cospicua dote? Che non aveva provato alcun rimorso
ad approfittare nelle lunghe ore di malattia delle pietose e umilianti
attenzioni coniugali, mentre infermo e biascicante veniva pulito dal sudiciume
e nutrito?
«Sarà compito del beccamorto.»
puntualizzò il giovane uomo vestito di sole «Gli cucirà le labbra alle gengive
così da donargli una più viva...» pronunciando la parola ricercata, l'accompagnò
con ampia rotazione del polso «rispettabilità.»
«Oh Bontà Celeste» proruppe Madame,
voltandogli improvvisamente le spalle sconvolta dalla crudezza delle sue
parole. Si fece il segno della croce vistosamente.
L'alchimista la ignorò.
Accostato al capezzale, si chinò sopra
la salma. Con gli occhi chiusi avvicinò il naso affilato alle fauci ghignanti,
e inspirò. Il puzzo rancido gli penetrò nelle narici. Soprassedendo all'acre
aroma d'urina ed escrementi che permeava la stanza, identificò il tanfo
pungente dello zolfo, il dolciastro dell'iperico e del solatro maggiore e,
sottile, l'odore della putredine, sinonimo di necrosi prematura. L'uomo passò
la lingua sulla fronte tirata del cadavere, ancora madida dei sudori e degli
umori notturni. La pelle gelida e serica gli lasciò un gusto gessato e unticcio
sulle papille.
«Oh Dio!» squillò con voce stridula la
donna sgomenta «Ma è proprio necessario?»
«Avete pagato per le mie prestazioni,
Madame.» le rispose pacato l'individuo, senza comunque abbandonare la posizione
prona «Ora è giunto il tempo per il mio compenso.»
«Ma...»
«Non siete costretta ad assistere,
Madame» la interruppe prontamente e cortesemente mellifluo, mentre scorreva i
suoi occhi rapaci per tutto il volto del morto «se siete offesa dai miei modi,
potete andare.»
Come fosse stato pronunciato il suo
nome, la vedova si volse alla porta che la tentava alla fuga da quella fetida
cloaca, ma restò al suo posto.
«Non lo lascio solo con voi!» proruppe
quasi rabbiosa dalla proposta insolente.
«Ma finché il diavolo poteva aiutarlo,»
disse l'alchimista, levandosi in tutta la sua altezza, ancora senza guardarla
in viso «non avete esitato a domandare. Non devo ricordare a vostra signoria
che è un grave reato, del corpo e dell'anima, secondo la Santissima e Magnanima
Chiesa rivolgersi a gente come me.» Una forte ironia permeò l'aggettivo magnanima, che fomentò nella donna una
maggior antipatia verso l'ospite. Ciò tuttavia non smentì la verità della sua
affermazione.
Madame Corneille abbassò lo sguardo a
terra. La fronte aggrottata ricca di idee e ragioni di cui avvalersi per
ribattere, ma la bocca povera di parole con cui avanzare una reale difesa. Per
settimane l'alchimista aveva sottoposto il marito alle più bizzarre e sataniche
tecniche che la sua immaginazione di donna devota e perbene non avrebbe neppure
osato sognare: larve, bava di insetti, grasso animale e piante maleodoranti,
per non pensare a quel fantomatico siero,
nero e oleoso simile al catrame, che Jean-Philippe aveva succhiato da una
zampogna ingordo come un lattante al capezzolo. Il padrone di casa aveva
ripreso le forze e la sanità mentale solo perché il tifo, come una marea, lo
travolgesse nuovamente più vorace che mai. Aveva ritrovato il suo uomo d'un
tempo solo per vederlo soccombere. Che vile illusione!
(…)
«L’esoterismo e i suoi simboli fanno da sfondo a
questo racconto ben orchestrato, dai tratti misteriosi e inquietanti e dallo stile
sicuro ed efficace.» (Maria Pina Ciancio)
«Barocco e passionale, il racconto esalta le figure
dei protagonisti tutti con cupa vivezza presenti nei loro sogni e nei loro
incubi, mentre si dipana l'avventura umana di un uomo preda di una malattia
mortale che l'amore di una moglie tenta di contrastare chiamando in soccorso
l'ultima estrema magia, l'alchimia. Ignorando tuttavia che l'alchimista - che
alberga in sé la scienza - non contempla più sentimenti né valori.» (Niva
Ragazzi)
«Un racconto nero. Capace
di sprofondare nel buio della parte oscura che ognuno di noi ha, senza timori,
sapendosi sporcare le mani. Per tutto il tempo ho pensato, no, no, no, questo
no. E poi invece sì. Perché l’ho letto d’un fiato. Perché trovo sia scritto in
maniera sapiente, equilibrata e allo stesso tempo, che si prenda tutti i rischi
possibili. Calarsi nel dolore, nel marciume, non è affatto semplice. C’è chi,
come l’alchimista del racconto, ci riesce perché è calato in una realtà che noi
non conosciamo. Il suo contatto col mondo è differente e le leggi a cui
risponde, ci sono ignote. I personaggi che ruotano intorno a lui, seppur umani,
non sembrano affatto migliori. Forse il dolore sa piegare una vita fino a non
riuscire più a vedere il cielo. L’amore, trattato nel racconto da insoliti
punti di vista, è una chiave che può aprire le porte della vita ma, a questo
raramente pensiamo, le chiavi servono anche a chiudere. Blindare. Nel testo ce
ne viene dato un esempio impeccabile. Mi ha fatto ripensare a Zanoni, di Edward
Bulwer Lytton, per certe atmosfere e situazioni. Secondo me scritto davvero
bene.» (Massimiliano Bardotti)
«Lampo che squarcia
ipocriti veli, si riflette nello specchio la figura dell'alchimista. Ai
suoi piedi si infrangono parole come lame affilate, sanguinanti e nere e
attraversano la vita, l'amore, la malattia, la morte, il dolore, lasciando in
bocca il sapore acre e metallico della verità. La sua ombra inquieta accompagna
il lettore.» (Emilia Dente)
«Un gentiluomo, in un'epoca storica imprecisata
(Settecento? Ottocento?), è in agonia. Al suo capezzale è stato chiamato un
misterioso alchimista, che l'ha tenuto in vita attraverso strane pozioni. La
narrazione si regge in buona parte sul fascino sinistro e repulsivo del
protagonista, il cui acume quasi sovrumano svelerà alla fine un retroscena
inquietante in tutta la vicenda. “L'alchimia della colpa” si potrebbe definire
un racconto gotico, con qualche eco di Poe nella tematica morbosa e nella
precisione chirurgica dello stile. Mi piacerebbe leggere altre storie di questo
inquietante personaggio.» (Sergio Pasquandrea)
Menzionati
-
Disavventure di un chitarrista curioso di Eugenio Mirti (Torino)
Eugenio Mirti è nato a Torino nel 1972; è musicista
(ha suonato in Europa, USA, Australia, Asia), compositore, didatta e dal 2010
collabora con il bimestrale «Jazzit» scrivendo interviste, recensioni
e approfondimenti tecnici.
Introduzione,
ovvero del perché suono la chitarra
ove il nostro eroe
inizia col pianoforte, frequenta le scuole dei preti e a Torino incontra
numerosi viados e zozzone sugli angoli di corso Ferrucci
Adesso non è che
proprio mi ricordo com’è andata, che mi son ritrovato a suonare la chitarra.
Sarebbe bello
poter dichiarare la discendenza diretta (con molti quarti di nobiltà) da generazioni di musicisti aventi a
capostipite Leonardo Tarrios, il celebre virtuoso andaluso, progenitore del
chitarrismo contemporaneo nonché iroso biscazziere e favolosissimo bastardo.
Invece no: a
quanto pare in questa terra di navigatori e santi la mia famiglia tra zii e nonni vescovi, teologi,
carabinieri, genii della meccanica, viaggiatori, maestri, doganieri,
pubblicitari, astrologi, professori, architetti, psicologi, contrabbandieri,
pubblicisti, elettricisti, stenografi e carrozzieri i musicisti non hanno
la piazza d’onore. Neanche il terzo posto. Proprio non sono rappresentati.
Mi piacerebbe
poter dire che il 18 aprile del 1987 passai per il crocevia di via Cavalli
angolo corso Ferrucci per incontrare il diavolo, vendergli l’anima e diventare
un dio vivente della sei corde; al contrario, su tale angolo stazionavano solo
viados di una certa imponenza e zozze delle più laide, se ci passavo era
la domenica pomeriggio per andare a comprare le sigarette ai miei genitori e di
conseguenza non posso neanche proclamare questo improbabile baratto.
Ammaliarvi con i
mie straordinari talenti di bimbo -in
verità già suonavo a tre anni composizioni impossibili anche all’adulto più
smaliziato- mi scalderebbe il cuore e riscuoterebbe l’approvazione
generale, creando quel sentimento eclatante del tipo: “beh era ovvio che con
simili premesse non ci potevamo aspettare un ragioniere”. Niente da fare,
ero il più scarso del gruppo, non
andavo a tempo, i pezzi con barré
li evitavo come la peste bubbonica. L’enfant disgrazia, sintetizzo adesso,
perché il tutto naturalmente si abbinava alle mie deplorevoli capacità canore.
Ed infatti, inutile dirlo, mi sono quasi brillantemente diplomato in
ragioneria, ad indirizzo merceologico.
Ricordo, è vero,
che a dodici anni, nell’era dei Duran Duran e degli Spandau Ballet per
intenderci, mi piacevano da matti i Beatles, in particolare la versione di Get
Back dell album “Let It Be” (incredibilmente più bella della versione del 45
giri, che comunque io non possedevo), specialmente l'introduzione parlata nella
quale George Harrison tira due sgasate dalla sua Telecaster + Twin Reverb;
ricordo anche che per il
quattordicesimo compleanno mi feci ragalare una chitarra, ma da lì a renderla
un feticcio ne passa.
Va anche detto
che da bambino la mia mamma ci accompagnava (me e mio fratello) dal maestro di
pianoforte, tutti i mercoledì; il maestro era cieco, e ciò dava alla sua casa
un tocco caratteristico e terrificante. Potrei quindi scientificamente
dimostrare perché il pianoforte ed io non abbiamo avuto questa gran storia
d’amore, ma rimango inabile a spiegare questo ventennale flirt con la mia
chitarrina.
Forse l’unico
modo per chiarire questa passione è raccontare l’aspetto che mi distingueva, da
ragazzo, dai coetanei; che era, è ed immagino sarà fino a che saremo coetanei,
il sogno ad occhi aperti.
Frequentando le
scuole dei preti, perentoriamente solo maschili, i desideri dei miei compagni
di classe (ed inutile dirlo, anche quelli dei professori) riguardavano
irrimediabilmente ragazze-donne-donne mature-vecchiette di ogni tipo, forma e
dimensione, con particolare riferimento ed apprezzamento a quelle con una
misura di reggiseno superiore alla quarta ed una di pantalone inversamente
proporzionale.
Crescendo il
loro desiderio si indirizzò, avendo ricevuto un’educazione moralmente
superiore, verso il lavoro super-pagato del genere “manager prezzolato al soldo
di multinazionali senza scrupoli”, munito di Ferrari e di portafoglio gonfio:
un amministratore delegato tutto d'un pezzo che si accompagna, nella Ferrari di
poco fa, con le più belle e note modelle di tutto il globo.
Crescendo
ulteriormente immagino che la visione
evolverà verso il possedere una scorta consistente di viagra ed una
prostata artificiale, data la prima parte del sogno, paradiso dell’onanista.
(…)
«Un racconto dallo stile autobiografico, con
richiami “beat” alla vita libera e
alla consapevolezza dell'istante.» (Maria Pina Ciancio)
«Il mix è molto interessante: la struttura
articolata in episodi, la scrittura vivace e il gusto per la
disavventura ricordano la novellistica toscana duecentesca, ma sono tutte
contemporanee (e di sapore anglosassone) la sintassi e la costruzione
psicologica del personaggio protagonista. Narratore autoironico e leggero, come
un Rob Fleming il nostro chitarrista si compiace nel dire se stesso stilando
liste e presentando il suo universo musicale. E, nel farlo, sa acquistarsi la
simpatia del lettore. Si leggerebbe con piacere un'intera collezione, in vista
della quale occorrerebbe dare più sostanza alle singole trame e concedere al
protagonista un'evoluzione. Ottimo incipit.» (Roberta Leone)
«Personalmente, ho sempre considerato l'ironia uno
dei segni dell'intelligenza. E di ironia traboccano questi racconti, che in
realtà sono con tutta evidenza frammenti di una narrazione più ampia e
articolata. Il protagonista racconta vicende bizzarre e picaresche,
probabilmente vere (ma anche se non fosse, che importa?) e lo fa con uno stile
scoppiettante e inventivo. Ho riso dalla prima all'ultima riga (e non è una
cosa che capiti spesso, purtroppo).» (Sergio Pasquandrea)
-
Passo passo di Saverio Caponi (Firenze)
Saverio Caponi (n. 19/8/1969), vive e lavora a Firenze. Dopo gli studi in
Filosofia svolti presso l'Università di Firenze ha frequentato La Scuola di
filosofia orientale e comparativa, sotto la direzione scientifica di G.
Pasqualotto, nella città di Rimini.
SEGNAVIA
VERTICALE
“Afferrami alla vita,/uomo. La cengia è stretta./E
l'abisso è un risucchio spaventoso/che ci vuole assorbire.”
(Antonia Pozzi, Vertigine)
CARTOLINE
«All’inizio sono stato
indeciso. Limite mio, senza dubbio, l’aver avuto difficoltà a inserirlo nel
contesto di un concorso per racconti. Sono stato combattuto, almeno per un po’…
Trovo l’opera in questione densa di significati e di metafore. La scalata di un
monte intesa come ascesa spirituale, un contorno di bellezza che si può
respirare fra ogni parola, di pausa in pausa. La Natura splendente descritta
impeccabilmente in svariate sue forme. Una dolcezza forse talvolta celata ma
che io ho sentito scaldarmi durante la lettura. Ho trovato ogni citazione
pertinente, calzante. Il senso dello scritto è una ricerca del senso di questo
viaggio chiamato vita, che ovviamente non si ferma e non si può fermare a ciò
che si vede, ma va oltre. E una delle cose che più mi hanno emozionato è che
invece di disprezzare o minimizzare il mondo visibile, va in cerca della sua
bellezza. E si interroga un passo dopo l’altro, su ogni aspetto dell’esistenza.
È opera poetica, filosofica, spirituale, narrativa. È il racconto di un viaggio
che è tutti i viaggi. L’averlo fatto in uno spazio letterario relativamente
breve, è altro motivo di stupore buono. La poesia per me è presente in ogni
millimetro di tale opera, non solo quando l’autore o autrice ne evidenzia il
verso. Pregio invidiabile per me, che però mi ha fatto vacillare nella
decisione di inserirlo fra i vincitori di un concorso per racconti. E mi scuso
dunque con l’autore o autrice, che allo stesso tempo ringrazio per aver scritto
Passo Passo, mi scuso per essermi lasciato prendere dal dubbio. Non sarà
difficile, spero, accettare le mie scuse dato che poi, alla fine, ho deciso di
lasciarmi andare alla poesia…» (Massimiliano Bardotti)
«Le parole sono scelte
rivolgendo attenzione a una gradevole sonorità, caratteristica che
affiancandosi ai momenti sviluppati in versi, così come alla prossimità di
forma e contenuti, avvicinano il lavoro complessivo al tono aulico e fine della
poesia. Sottile pecca: l’impostazione diaristica conduce un po’ fuori dal
genere del racconto.» (Lucia Grassiccia)
-
Serial Kidder (da “to kid”, scherzare) di Giuseppe Ferri (Rimini)
Giuseppe Ferri è nato a Rimini nel 1959. Dopo aver
frequentato il Liceo Classico Giulio Cesare, ha svolto i lavori più disparati.
La scrittura è un interesse giovanile, mai affrontato con dedizione fino ad
ora. Questo è il suo primo racconto, nella speranza che ad esso ne seguano
altri e che riescano graditi al pubblico.
Serial
Kidder
Quel ramo del
lago di Como, che volge a mezzogiorno, tra due catene non interrotte di monti,
tutto a seni e golfi, non c’entra
niente con la storia che stiamo per raccontare. La nostra storia si svolge in
un posto ben poco ameno, piuttosto banale, quasi squallido. Una piana
spelacchiata, arida, due colline pure loro spelacchiate come due natiche, la
Statale 38 ed una manciata di costruzioni, buttate là come scatole da scarpe. Ma
almeno le scatole da scarpe avevano una funzione, quella città no; unicamente,
conteneva abitanti, e solo perché erano nati lì. Perché era brutta e triste come una pattumiera, come un
barattolo vuoto di carne in scatola . Chi ci fosse capitato per caso (altro
motivo non poteva esserci), e interrogato sul fatto, sul momento non avrebbe
saputo indicare gli elementi che portavano a quel giudizio: certo, l’edilizia
era primitiva, gli edifici mal tenuti, mancavano fiori alle finestre, non si
vedevano in giro pubblicità di gelati, ma di quante città non si può dire lo
stesso? Solo se amorevolmente
instradato verso un percorso di indagine più alternativo, il nostro sarebbe
arrivato a bersaglio. Erano gli abitanti. Afflosciati in vestiti scoloriti,
deambulavano senza convinzione, in una fissità catatonica che comunicava un’
angoscia profonda; non un sorriso, non un moto di sorpresa, non un cambio di
direzione. Non un bambino, i cani con la testa bassa. Via! Via! Ecco cosa si
sarebbe detto il visitatore nell’arco di un giro d’orologio.
Inquadriamo
ora una strada in particolare, Via Rasputin, una di quelle che formavano il
reticolo del Centro Città; larga,
con due marciapiedi importanti, gli edifici bassi squamati di mattoni lucidi come la pelle di un varano di
Komodo, le luci malaticce appena accese in vista dell’arrivo del crepuscolo di
una sera di Giugno. Qui si era
svolto il Corteo della Moralità, venti anni prima, pagina apicale della storia
della città: nulla sarebbe stato più come prima.
Pioveva a dirotto: cioè non
pioveva, dato che qualcuno aveva detto sette, diciannove, trecentodieci, ma
nessuno aveva ancora detto otto.
L’ispettore Coguaro se ne stava appoggiato ad un muro, chiuso nel suo
impermeabile. Gran bel pezzo d’uomo, l’ispettore Coguaro! Non era molto alto ma
realizzato in materiale pregiato, intagliato nella roccia più dura, Diorite, già
utilizzata per realizzare il Codice di Hammurabi. Il mento era volitivo, la fronte spaziosa, così spaziosa che
proseguiva facendosi strada sul
cranio e poi, con prepotenza, sulla nuca: in altre parole era calvo. In
quest’affusto monolitico tuttavia erano montati due occhi che non ti saresti aspettato:
aguzzi, guizzi come quelli di uno sciuscià, tutto vedevano, tutto
penetravano,mai che si fermassero dicendo: “Ecco, ho visto abbastanza!”. E la
bocca, non si sarebbe mai detto, non solo era sensuale, con le labbra
leggermente turgide, ma alle estremità si arcuava leggermente in su, come a disegnare
un sorriso. Sia come sia, ora Coguaro stava guardando dall’altro lato della
strada, un capannello di persone, due poliziotti, la solita storia, la scena di
un crimine. Un agente attraversò la strada, veniva da lui, era quel salame di Berlix, tutto preso, compunto,
servile.
“ ‘Fanculo, Capo”
“ ‘Fanculo, Berlix”
“ La vittima dice che sta bene, vuole andare a casa, non
vuole sporgere denuncia”
“ Non c’è nessuna denuncia da sporgere, ormai il carrozzone
si è messo in moto, ci siamo dentro noi, c’è dentro lei, non si può scendere”
“ Non la vuole interrogare, Capo?”
Certo
che la doveva interrogare, c’era solo un piccolo problema: non ne aveva voglia.
Quando era arrivato aveva visto solo una vecchietta sul marciapiede,su di una
sedia rimediata, con intorno un gruppetto di persone . Niente di che, uno
scippo, una molestia, una minaccia. il solito episodio di
microcriminalità. Avvicinandosi
tuttavia si era irrigidito: la vittima sorrideva, sissignore, UN SORRISO… Quanto
tempo era passato da quando aveva visto per l’ultima volta un sorriso? (…)
«In una città da molti anni immersa in un’atmosfera
di grigio malumore, dove le
persone si salutano con un abituale “’fanculo”, l’ispettore Coguaro è alle
prese con il difficile caso d’un uomo il quale, con gesti di deliberata
sovversione, sparge in quei luoghi gentilezze e allegrie da tempo dimenticate.
Un racconto che ha i ritmi delle prime comiche cinematografiche e il tono di
surrealismi più recenti, tra gag alla Groucho Marx e goffaggini lunari alla
Peter Sellers. Una scrittura che ricorda i funambolismi e i giochi linguistici
dell’OuLiPo francese e alcune felici fantasie letterarie latinoamericane. Serial Kidder è un racconto frizzante e delicato che percorre con giusta
misura i sentieri del sorriso e della tenerezza.« (Subhaga Gaetano Failla)
«L'incubo di una vita grigia, senza sorrisi e senza
ironia disegnato in un narrato accattivante, ben strutturato, originale e
argutamente significativo. Una bella lettura che lascia un sorriso sulle labbra
e la viva consapevolezza della sua necessità nel cuore.» (Emilia Dente)
-
San Lorenzo di Marco Bottoni (Castelmassa, RO)
Marco Bottoni è nato a Castelmassa (RO) il
30/09/1958. Medico di Medicina Generale, scrive per passione dal 1999 racconti,
poesie e testi per il teatro. Ha pubblicato numerose raccolte di racconti e un
romanzo “Io e Marcellino”. È fondatore della Associazione Culturale “Amici di
Gianni per il Patì – ONLUS” che sostiene i progetti di alfabetizzazione e
recupero sociale dei meninos de rua di Salvador de Bahía (Brasile) e della
libera associazione degli Amici di Marcellino che finanzia una borsa di studio
per giovani studenti universitari. È stato tedoforo per il viaggio della fiamma
olimpica alle Olimpiadi Invernali di Torino 2006. Ha vinto il Concorso Insanamente 2014 con il racconto Tratto da una storia vera. Sito personale: www.marcobottoni.it - mark.bot@libero.it
San Lorenzo
“Corri, corri pure, tanto lo sai che ti prendo!”
“Nocchenonmiprendi!”
“Ti prendo prima di arrivare al campanile!”
“Chi arriva ultimo al campanile paga pegno!”
Stanotte non vedremo nemmeno una stella.
Cadente.
Sì, può darsi che, continuando a scrutare il cielo, frugando
attentamente con lo sguardo ogni angolo, anche il più remoto, prima di mattina
forse, una o due…
Ma non è così che si fa.
Se si vuole vivere la magia di una notte di stelle cadenti,
bisogna mettersi stesi in un posto buio e rimanere fermi faccia al cielo, come
in attesa, con gli occhi spalancati sullo sterminato schermo nero tempestato di
puntini bianchi che brillano.
Ma ci vuole una notte buia, e qui c’è troppa luna.
“Guarda, la Luna!”
“Come è grande! E come è bella!”
“Tu lo sai perché la luna è rossa?”
“Io no. E tu lo sai?”
“Io sì che lo so.”
“Dimmelo, allora.”
“Non te lo dico.”
“Allora vuol dire che non lo sai!”
“Sì che lo so, ma non lo voglio dire.”
Ci vuole una notte buia, e poi bisogna stare fermi, con gli
occhi rivolti in alto ma non fissi, né diretti alla ricerca di un oggetto
definito.
Piuttosto, persi.
Bisogna lasciare che lo sguardo vada a perdersi dietro le
stelle, dentro il tremolare che fanno, nel buio; accorgersi che i puntini
bianchi diventano sempre più numerosi man mano che li guardi e vederne
comparire ogni tanto dei nuovi, più pallidi e lontani, piccolissimi, tanto
piccoli che a volte scompaiono subito, appena un attimo dopo che li hai visti.
È attraverso questo abbandono della vista che passano,
veloci, le stelle cadenti.
“Chi arriva ultimo al campanile, paga pegno!”
“Non vale, non vale! Sei partita prima tu!”
“Prova a raggiungermi, se sei capace!”
“Ti prendo quando voglio!”
“Guarda, la luna!”
“Secondo me, se sali fino in cima al campanile, e se
allunghi una mano, puoi arrivare a toccarla, la luna.”
“Sei uno sciocco: la luna non si può toccare.”
“E perché no?”
“Perché la luna è il volto della Madonna!”
Le stelle cadono e non puoi dire quante saranno in una
notte, che possono apparirne quattro in un minuto e poi mancare dal cielo per
ore.
Sono così rapide a comparire che a malapena ti rimane la
sensazione di averle viste, e di loro ti resta il ricordo di un’immagine che è
già svanita prima ancora di potere anche solo dire “Eccone una!” oppure “È là!”
Che, poi, non sono neanche stelle.
(…)
«Il racconto riprende il tema del rimpianto in età
adulta di quel periodo dorato della fanciullezza in cui tutto pareva ancora
possibili, quando tutto davvero sembrava valesse la pena di essere fatto:
grandi futuri si aprivano davanti agli occhi ammirati del protagonista che si
incantava a fissare il cielo di notte, sperando di poter vedere le stelle
cadenti - ed esprimere così il desiderio più importante della sua vita. Ma è
l'amara chiusa che svela la certezza di aver mancato l'appuntamento con la vera
vita desiderata da ragazzo.» (Niva Ragazzi)
«Il tema di questo racconto è uno dei più antichi e
frusti: le memorie dell'adolescenza, un amore che poteva essere e non è
stato.L'autore lo rende nuovo attraverso l'originale struttura narrativa, che
alterna i dialoghi tra i due protagonisti (lui – la voce narrante – che resta
anonimo, lei di cui solo alla fine sapremo il nome) a brani di prosa lirica, in
cui la vicenda personale si mescola alla grande rotazione cosmica della volta
celeste, nella notte di San Lorenzo, che misura il passare degli anni, dalla
giovinezza alla maturità alla vecchiaia. È così che la storia viene suggerita
più che raccontata, fino alla conclusione intrisa di malinconica rassegnazione.» (Sergio Pasquandrea)
- Pedalando
senza fretta di Francesco Di Sibio (Frigento, AV)
Francesco Di Sibio
(Pontedera, 1975). Ha pubblicato La
Passione (Edizioni Parva, Rovigo, 2001), una Via Crucis in poesia,
distribuita nel 2003 dal CEI in tutte le parrocchie italiane. È incluso in
antologie tematiche, si ricordano: Lapolvere e la luna. I poeti del 23 novembre (Delta 3 Edizioni,
Grottaminarda, 2011), Letteratura… con i piedi (Fara Editore, Rimini, 2014) e in riviste di settore. È tra i curatori della
collana foto-poetica Pietre Vive
(Delta 3 Edizioni).
Pedalando senza fretta
Una
mattina fredda e ventosa, mentre era ancora buio, il furgoncino della
distribuzione giunse al solito orario nei pressi dell’edicola di Varco. Era
l’unica edicola del paese. Lasciati i pacchi dei quotidiani nel luogo
stabilito, riprese il suo viaggio giornaliero.
L’edicolante
arrivò al suo posto di lavoro dopo un’oretta, mentre l’alba cercava con fatica
di farsi largo tra le nuvole nere, vista l’ora, sembravano ancora più scure.
Stringendo il collo con una bella sciarpa di lana dai colori vivaci, l’indossava
tutto il giorno lamentandosi di dolori cervicali, prese in modo repentino i
quotidiani, li portò un pacco alla volta all’interno dell’edicola e, una volta
al chiuso, iniziò con calma la liturgia lenta e organizzata del mettere ogni
testata al proprio posto. Nulla sembrava caratterizzare in modo diverso dal
solito quella giornata, tutto appariva fin troppo uguale ai giorni passati, non
li definiva monotoni per non affogare di prima mattina nella malinconia.
Arrivò
il momento di uscire nuovamente all’esterno, bisognava inserire le locandine
negli appositi espositori. Ogni quotidiano locale provvedeva a inviare la
locandina con la o le notizie più importanti della giornata, era il classico
modo per invogliare possibili acquirenti a farsi avanti, almeno a entrare per
sfogliare il giornale.
Aprì
una ad una le pieghe delle locandine, fino a che si trovò letteralmente davanti
agli occhi quella del quotidiano La Provincia. Il titolo era secco e conciso: Il Giro d’Italia passerà da qui.
L’edicolante
sgranò gli occhi, non credendo al momento a ciò che stava leggendo. Gli occhi
si erano scollegati per un lungo istante dal cervello. Quando si riebbe, corse
all’interno e sfogliò con vigore il giornale, finché trovò il pezzo in cui si
parlava della notizia. Lesse tutto d’un fiato ad alta voce:
“La
nona tappa del Giro d’Italia del prossimo anno percorrerà alcune strade della
nostra provincia e vedrà l’arrivo sul monte Sventola, presso la stazione
sciistica, dove ci sarà anche un Gran Premio della montagna di seconda categoria.
La salita, lunga quindici chilometri, inizierà all’interno del comune di Varco,
sarà utilizzata, quindi, la strada che si arrampica dal versante sud.
Conosciuta e amata da tanti cicloamatori, è percorsa soprattutto nei mesi
primaverili ed estivi. Per la prima volta la più importante corsa a tappe del
ciclismo nazionale transiterà lungo le nostre valli e montagne. I
rappresentanti del comune di Vetta, che ospiterà l’arrivo, parteciperanno
sabato prossimo a Milano alla presentazione dell’intero percorso della gara.
L’occasione è di quelle importanti, saremo per un giorno al centro
dell’attenzione delle migliaia di appassionati delle due ruote spinte a pedali.
È già previsto un calendario di iniziative per far conoscere il comprensorio
sciistico e naturalistico della nostra montagna”.
–
Hai capito a quelli di Vetta!
Furono
le sue uniche parole.
(…)
«Una vera storia alla Vitali, ambientata in un
paesino dall'umore nostrano, personaggi ben delineati e una descrizione in
bilico tra l'affetto e il rimpianto: un racconto veramente gradevole da
leggere.» (Niva Ragazzi)
- Maria di
Giuliana Vercesi (Milano)
Giuliana Vercesi, è una maestra in pensione. Vive a
Milano.
MARIA
Maria, prima di sposare mio nonno, era poverissima, al punto che all'età di cinquant'anni aveva un’unica prospettiva: quella di andare a servizio da una certa contessa, MariaLuisa Arcimboldi, nata Serafoni, notoriamente esigentissima col personale, una persona dalle gambe corte, stupida e maleducata ''Ogni lavoro è onesto'' – si ripeteva Maria, ma era spaventata. La gran dama signora Serafini intimoriva Maria già dal tempo in cui veniva con la domestica a comprare la frutta.
Maria non era nata povera: suo padre, vedovo, aveva gestito per tanti anni un negozio di frutta e verdura, in via Vitto Pisani e lei, fino al matrimonio, vi aveva lavorato col fratello Pino, mentre sua sorella Lina si era impiegata in una Ditta lì vicina, poi si era sposata molto giovane con un certo Giacomo, conosciuto in ufficio, un uomo di aspetto mediocre, pieno di sé con una testa leonina e tanti capelli rossi, che l'aveva ben presto riempita di corna Giacomo era arrabbiato col mondo, bestemmiava, odiava tutti, cinquanta volte il giorno Lina si pentiva di averlo sposato. ''Non era così, prima, ’ diceva, e forse era vero o era lei che si sbagliava.
Lina era alta e magra, con il viso dai lineamenti comuni, Maria era piccola, magrissima, sempre in movimento, agilissima.
Le due sorelle si volevano bene, entrambe avevano frequentato tutte le cinque classi delle elementari, poi la Lina era andata a un corso di stenografia.
Quando Maria conobbe il pover Lorena, aveva già trent'anni e, per l'epoca, era tardi per sposarsi, figuriamoci per avere un bambino! Infatti, il bambino di Maria era morto qualche ora dopo la nascita. Maria lo chiamava “bel me fiulin” e portava un medaglione al collo con il piccolo ritratto del figlio: un piccolo viso scarno da neonato che sembrava cercare aria. Maria spese i soldi della dote per curare il pover Lorena quando si ammalò di tisi, i quattro soldi che le rimasero furono spesi per il funerale e una tomba decente.
(…)
«Un racconto corale, una storia di famiglia e di paese,
destini intrecciati di personaggi che dicono un'Italia ormai lontana, quella in
cui quasi tutto – e certamente un intero sistema di esistenze – può dipendere
da un matrimonio.» (Roberta Leone)
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