venerdì 28 ottobre 2011

Su La polvere dietro di Graziano Turesso

FaraEditore, 2011

recensione di Vincenzo D'Alessio

Quando parlo di un racconto, di un romanzo breve, dimentico sovente, preso dalla foga dell’avvenuta lettura, che chi legge il “risultato critico” non sempre ha letto il libro di cui parlo, né conoscere gli autori che cito per rinvigorire i termini letterari del risultato critico. A volte mi scuso con il lettore e ammetto il diaframma che separa chi ha già letto da chi deve essere invogliato a leggere il libro di cui parlo. Il libro di cui parlo, oggi, è Lapolvere dietro, di Graziano Turesso, pubblicato dalla casa editrice Fara di Rimini, risultato vincitore in uno dei concorsi letterari, diffusi tramite internet  dalla casa editrice riminese, per scoprire i talenti che maturano in questa stretta penisola italiana. Non necessariamente “nuovi” , alla prima esperienza, ma unici perché pieni di solarità, di memoria. Il patrimonio più grande che l’Umanità conosca: la ricchezza della memoria.
 “(…) Le stavo simpatico, avevamo parlato di industrializzazione e progresso e poi di narrativa di viaggio, sorrideva, ma il sorriso del marito era diverso, quello di sua madre era divertito, premuroso, quello di Don Carmine era già una risata” (pag. 50). Il Nostro autore ci trasmette, in questa proposizione, la scelta che ha fatto per raccontarci il meglio che la sua memoria ha assunto in questo doppio viaggio, tra realtà e sogno, sulla scia del Surrealismo di Breton e Desnos; ben rappresentato in Italia da Massimo Bontempelli, Tommaso Landolfi e altri grandi autori del Novecento. Lo indica Stefano Radaelli nella sua autorevole redazione critica al libro: “Con l’autorevolezza e la misura di una narrazione in prima persona, caratterizzata da un periodare paratattico né abusato né compiaciuto, l’autore racconta un viaggio di ricerca  e di ritorno” (pag. 7).
La Narrativa di viaggio è uno dei filoni più solidi della scrittura in una nazione come la nostra, dove il tema dell’emigrazione, dei ritorni, degli immigrati attuali, vuoi  per posizione geografica, difficoltà economiche e guerre,  conosce in tutte le sue sfaccettature: le necessità, i lutti, le miserie, gli alisei che spirano sulle acque degli oceani. A tal proposito mi sovviene il perturbante che emana dalla vivacità del racconto di Turesso: “E adesso, invece, erano laggiù, in Lucania, nella terra dei loro genitori. Non sapevamo dove andare, non sapevamo nemmeno dove ci trovassimo, e questo li emozionava” (pag. 41).
 “Difficilmente il suo luogo / abbandona ciò che abita vicino all’origine” (Hölderlin) Ho ripensato a questo passaggio oltre che per il viaggio anche per la presenza femminile che pervade tutto il racconto del Nostro: è la donna dell’avventura affettiva sensuale; la donna saggia e dagli occhi puliti; la donna meridionale, professionista, che vive a Milano ma ritorna al suo luogo d’origine con la propria famiglia; le donne del Sud radicate nel subire il loro destino paesano; la madre terrena vera e la Madre Terra alla quale tutti torniamo: “Ed ero nel paese dov’è nata mia madre. Finalmente. E nemmeno me n’ero accorto, che m’ero liberato di certezze su cui posare il culo e sedermici, come le avessi guardate e ne avessi smascherato il gioco: nel bisogno di loro c’era anche la loro debolezza, perché avevano bisogno, quelle certezze, del bisogno che avevo di loro” (pag. 43).
La paratassi rende bene l’uso della Lingua Italiana utilizzata oggi dalla generazione del secondo millennio cristiano. Tutte le elisioni usate nel racconto  acuiscono l’empatia della narrazione nei confronti del lettore: “Ben scritto, con un ritmo vorticoso che incatena alla lettura” (MarinaSangiorgi nella nota critica a pag. 7). In questa scrittura scorgo la forza narrativa di altri autori contemporanei come Andrea di Consoli, Licia Giaquinto, Maria Teresa Di Lascia e, per l’assetto narrativo del paesaggio, l’accostamento a Gesualdo Bufalino del saggio La luce e il lutto (Editori Riuniti-Sellerio, 1990).
Quanta solarità c’è in questo racconto. Che stupenda meridionalità trasfusa nel gelo della necessaria emigrazione nel Nord della nostra penisola. A Sud manca il lavoro e mancherà ancora se non si impianta una agricoltura produttiva, un sistema efficace senza politici, senza raccomandati, senza prevaricazioni: “Campi. Ovunque era campagna. Terra asciutta, alberi strinati dal sole, spettinati dal vento. Terra fertile. La gente ci coltivava e ricavava tutto quel che la terra può dare, ma a guardarla, quella terra, la mano dell’uomo non ce la si vedeva, non c’eran coltivazioni disegnate con il righello, non c’erano i colori appaiati dei campi coltivati a rotazione” (pag. 44).
Tutto il Sud della penisola ha bisogno di rinnovamento, di riavere quanto gli è stato tolto dopo l’Unità della nostra penisola, in nome di una spietata corsa alle industrie e all’esigenza di manodopera che ha spopolato, peggio delle stesse guerre subite, le nostre fertili campagne. La Madre ha bisogno di ritrovarsi nella sua terra natale, là dove finalmente ogni nuova generazione può vivere senza allontanarsene.
Il racconto termina con l’accoglienza dei nuovi “naufraghi”, gli immigrati del nostro pianeta, e come sempre accade sono i giovani meridionali a offrire loro il segno indelebile dell’antica ospitalità trasmessaci dalle popolazioni greche venute a fondare più di duemila anni fa nuove “polis” di civiltà.

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