venerdì 9 settembre 2011

Graziano Turesso vince il concorso Faraexcelsior

Con il romanzo breve (o racconto lungo) La polvere dietro, Graziano Turesso di Alzate Brianza (CO) vince la sezione A. (vedi anche la sezione B.).della I edizione del  concorso Faraexcelsior con le seguenti motivazioni (un grazie senito ai giurati Maria Pina Ciancio, Marina Sangiorgi, Saverio Pazzano e Stefano Redaelli):

Un monologo impetuoso, precipitoso, scorrevole, di un giovane proletario che racconta di ragazze, lavori manuali e precari, e un viaggio a piedi nella Lucania di sua madre, per cercare sé e le proprie origini. Ben scritto, con un ritmo vorticoso che incatena alla lettura. (Marina Sangiorgi)

Con l’autorevolezza e la misura di una narrazione in prima persona, caratterizzata da un periodare paratattico né abusato né compiaciuto, l’autore racconta un viaggio di ricerca e ritorno. La focalizzazione sul personaggio principale favorisce l’immedesimazione e sostiene la veridicità del racconto. Bello l'attacco narrativo sinestetico ed il finale, in cui un fugace incontro diventa epifania di ritorno-cambiamento del protagonista. (Stefano Redaelli)


Complimenti a Graziano Turesso che dice di sé: «Ventidue anni in fabbrica, sperando che la lettura salvasse la classe operaia. Che la riscattasse. Poi i padroni c’han detto di svuotare gl’armadietti ed andarcene. Forse han fallito loro, i libri; o forse han fallito gl’operai che non ne leggevano mai. Ma io, che m’ero circondato solo di libri e d’operai? Questa cosa dovranno proprio spiegarmela. I libri.»

Scarica il Certificato Faraexcelsior 2011

Qui sotto l'incipit dell'opera vincitrice e quelli delle altre opere segnalate per essere menzionate in questo blog.

 
La polvere dietro
 di Graziano Turesso

All'odore ci s'abitua, m'avevano detto il primo giorno, poi non lo senti più. M’intristiva da quanto mi faceva schifo, era un aroma rancido che rendeva quelle giornate di lavoro ancora più pesanti ed angoscianti. Il pensiero che ci si potesse abituare a qualcosa di così orribile era perfino più ingombrante e triste di tutto il resto. Poi, passato qualche tempo senza che ne tenessi il conto, smisi di accorgermene. Era stato quattro anni prima, e m'era sembrato impossibile che ci si potesse abituare ad un odore del genere. Così dolce, chimico. Nauseante. Tutte le mattine, all'alba. Tutti i giorni, fino a sera. Ci s'abitua a tutto, mi dicevano. Io no, pensavo, io non m'abituo: abituarsi è perdere.
Quattro anni prima l'avevo deciso io, che avrei fatto quel lavoro. Ne avevo un altro, c'avevo passato cinque anni, da quando ne avevo quindici, e una mattina avevo detto a mamma che mollavo il liceo perché papà era ammalato e i miei fratelli erano bambini e c'era bisogno di lavorare. Era pure vero, ma l'avrei fatto in ogni caso. Il perché non lo sapevo, allora, e non lo so nemmeno ora. Trovai lavoro in una tessitura: ero il più giovane e imparai a fare un sacco di cose, in là dentro. Provarono anche a insegnarmi che qualche volta bisogna chiudere il becco per rispetto, ma quella lezione la imparai più avanti, da solo, per non chieder nulla a nessuno, per non piegar la testa. M'insegnarono certi baci che non conoscevo, due colleghe. Ai più giovani bisogna insegnar tutto. Una mi spiegava cos'amasse fare con il marito; l'altra, nell'altro turno, parlava meno, ma le piaceva baciare e dopo le cene aziendali mi portava a casa in macchina.
Quando me ne andai, a vent'anni, ero un po' meno giovane e mi sembrava di sapere un sacco di cose. C’eran tristezze, è vero, ma viste tanti anni dopo sembrano punteggiatura. La punteggiatura d’un testo che parlava di tutto, che s’infilava ovunque. Sotto al braccio avevo la vecchia macchina da scrivere che m'aveva regalato il proprietario dell'azienda. Cerca di usarla, mi diceva, mi raccomando: non sei mica nato operaio. Ma il giorno dopo l'avevo già cacciata in fondo all'armadio.
Fu per mio zio che decisi di cambiar lavoro, d'andare a lavorare in quella tintoria.
Ci litigavo sin da quand'ero bambino, con lui. Parlava poco, e io meno. Quando parlava picchiava duro. Cominciai a reagire a brutto muso già da bambino, e una volta da ragazzino lo cacciai di casa, dalla nostra, perché aveva preso a male parole mio fratello. La gente lo subiva, perché era davvero in gamba e perché con quelle maniere gli bastava una parola per far tacere chiunque, sempre in malo modo. Io mischiavo ormoni e nervi e quando la pazienza finiva ci litigavo. Quanto l'ho odiato. Quante volte, più tardi, mi son chiesto se non fossero le somiglianze a farmelo odiare, se non fosse qualcosa che c'accomunava a spaventarmi, qualcosa come l'orgoglio. Il suo, il mio. (…)

Opere segnalate

• Glasgow Blues di Luca Paci (Thornton Heath, UK)

Un racconto scritto in terza persona che include i pensieri e le sensazioni del solo personaggio protagonista, in un incastro di rimandi e citazioni letterarie, stralci epistolari, diaristi, monologhi. Costruito su una serie di conflitti interiori, domande, chiarezze, risoluzioni è tutto incentrato sulla ricerca di un senso della propria esistenza e della propria scrittura, che a fine racconto sembrano sostenersi e sorreggersi a vicenda, in una rivelazione etica, forse, umanistica nuova. (Maria Pina Ciancio)

Il tratto distintivo del romanzo è la scrittura: capacità linguistica non indifferente, padronanza sintattica, una discreta capacità dell'autore di evocare i propri autori di riferimento, abilità nel creare un ambiente che il lettore può vivere e respirare. Buona, dunque, la capacità di creare uno sfondo narrativo e di fare agitare, lì dentro, il percorso umano e creativo del protagonista. In questo il lettore si trova coinvolto. Il limite sta nella piega a volte troppo intimistica che il racconto prende, vista anche la sostanziale debolezza dell'intreccio. Ma la fascinazione della scrittura rende più leggera questa mancanza. (Saverio Pazzano)

Luca Paci (Novara, 1970) ha studiato filosofia e letteratura all’Università di Pavia e a Swansea (Galles) dove ha conseguito un PhD sulla teoria della storia in Croce. Ha vinto il premio internazionale di poesia a Giulianova Terme nel 1994 e pubblicato una raccolta di poesie in inglese (The Fine Line, Chanticleer Press, 2005). Ha tradotto e curato l’edizione inglese de La Ragazza Carla di Elio Pagliarani (Troubador, 2006). Ha scritto un saggio su Carmelo Bene ed uno sul travestitismo in Pagliarani. Ha collaborato a Cities, architecture and society con un corto su Londra per la Biennale architettura di Venezia nel 2006. È apparso con una serie di poesie sull’antologia Poesia del dissenso II (Joker, 2006). Ha realizzato il videopoema London Trip-tych con Luke Heeley e Rowan Porteous (Dubious Audio, 2007). Ha contribuito all’antologia Vicino alle nubi sulla montagna crollata (Campanotto, 2008). Ha curato l’edizione di Pro/testo, raccolta di poesie civili contemporanee (Fara, 2009). Vive e lavora a Londra.

Glasgow Blues – diario precario. 
di Luca Paci 

In linea di principio, un libro scritto in prima persona, come lo è questo romanzo, inserisce tra le cose che accadono realmente lo spessore di uno sguardo e l’affermazione di una presenza. La stranezza di questi libri potrebbe dunque provenire da ciò: scritti in prima persona, sono letti in terza. E forse anche da un’altra contraddizione: affermazione di una presenza, sono la storia di un presente. Chi scrive «Io», persino in un libro dal quale si giudica del tutto assente, dimostra senza dubbio una grande compiacenza nei riguardi di se stesso. Poiché affermarsi non equivale necessariamente a mettere più ‘Io’ nel mondo, ma anche a cercare di non mettere nessuno là dove c’è ‘Io’. (Maurice Blanchot) 

Nella lenta atonia di un silenzioso collasso nasce la voglia di prosa. (Cesare Pavese)

§ È solo in questa stanza dimessa. Una lampada illumina il manifesto di una mostra sulla stampa messicana all’Hunterian Gallery, la faccia triste di una delle opere etniche di Ana Maria Pacheco, la riproduzione del Cristo di Dalì sul lago di Cafarnao, un materasso sul pavimento ed un piumone color vinaccia. Appesa al soffitto una lampada di carta bianca ed un piccolo banco impiallacciato in rovere chiaro. La mano impugna la penna.

Interrogarsi sull’inizio non serve; serve scrivere, attraversare la tempesta della pagina bianca. Il libro è già stato scritto da un’altra parte. Un luogo reale o immaginario poco importa. Travolto dalla scrittura il personaggio è già inscritto. Frasi brevi e colme del senso delle arance mature. I numi tutelari troppi per essere nominati e poi lo sappiamo, si scrive sempre sulla cenere per la cenere. 

§ Collocare la scena. Glasgow. Un italiano sui venticinque anni. Il profilo aquilino, lo sguardo inquisitore, una pura e audace voglia di scrivere e scopare. La stessa esplosione creativa in entrambi gli atti. Max dice che non scrive male, ma l’italiano lo mastica poco. Lui ha la testa piena di Nietzsche e crede che un giorno camperà di scrittura. Ha una donna dagli occhi blu che lo ama come la vita, una discreta cultura classica ma parecchia boria e detesta ogni tipo di disciplina. Non riesce a concentrarsi, fluttua periodicamente nel lavoro come negli amori. Vive una vita sregolata senza il coraggio e l’entusiasmo di un decadente. Raccoglie citazioni criptiche ed aneddoti astrusi che trascrive e ammassa in un grande quaderno rosso. Ama l’idea di viaggiare, ma condivide l’opinione di Montaigne: quando si viaggia, il bagaglio più pesante siamo noi stessi. È un nomade che ripercorre sempre lo stesso tragitto, anche se in fondo vorrebbe essere un vero esploratore. (…)


• About Tokyo about Me di Lella De Marchi (Pesaro)

Un racconto intimo, una storia privata, ma anche un viaggio nelle terre lontane del Giappone, alla scoperta di una cultura e di un modo di vivere differenti. Un mondo, quello interiore della protagonista e quello esteriore, scanditi e fusi poeticamente in un tutt’uno, in cui il lettore ha la sensazione di immergersi, quasi fosse “reale”, così distante, eppure vicino. (Maria Pina Ciancio)

Il tentativo di descrivere, attraverso il viaggio in posti esotici, lo stato interiore della voce narrante, non è pienamente riuscito, a mio parere. Inoltre mi pare che l'andamento della prosa sia privo di slancio, del necessario ritmo. (Marina Sangiorgi)

Tokyo e la protagonista si muovono insieme, il lettore può sentire il respiro dell'una e dell'altra. Una scrittura in grado di evocare i tratti distintivi della città giapponese, dei suoi riti e ritmi. Non si tratta della creazione di uno sfondo narrativo: Tokyo è in scena, protagonista tale e quale all'io narrante. Il percorso umano di questo io narrante è interessante, proprio grazie alla scrittura. Una piega a volte troppo intimistica limita la tenuta narrativa. (Saverio Pazzano)

Lella De Marchi è nata a Pesaro nel 1970, dove risiede. Ha pubblicato una raccolta di racconti Racconti Nove (Edizioni Albatros Il Filo, 2007) ed un libro di poesie La Spugna (Raffaelli Editore, 2010), Premio Opera Prima Astrolabio 2010, e finalista in molti ed importanti premi. Sue poesie, haiku, racconti, sia editi che inediti, premiati, compaiono nelle antologie di premi e in blog su internet. Ha da poco terminato il suo secondo libro di racconti Tutte le cose sono uno, finalista al Premio Città di Castello e Premio Jacques Prévert e il suo secondo libro di poesie Metropoli Cosmopolita, segnalazione di merito al Premio Montano. È artista e fotografa. www.lellademarchi.it
 

 About Tokyo about Me  
di Lella De Marchi

La tua memoria sbocca in una prigione perpetua. Là ritroverai sempre gli stessi fiori, le stesse foreste di capelli, gli stessi disastri di carezze. (Louis Aragon)

Gnothis sé autòn (Socrate)

Intro 

Guardo dall’oblò dell’aereo il mondo fermo senza di noi coi suoi colori originari da cartina geografica. Il blu corrisponde al mare, il marrone alla terra, il verde alla campagna. E’ una visione infantile e rassicurante. È un’immagine di archetipica felicità. E mi sento una bambina serena. Dovrebbe sempre essere così il mondo. Forse la serenità è proprio questo. Che le cose restino sempre così come sono state. Come ci hanno accolto. Nel posto in cui ce le hanno indicate la prima volta. Con i colori che avevano la prima volta.
Che tutto resti intatto nella nostra mente. Esattamente come ci è apparso per la prima volta. Guardo dall’oblò dell’aereo il mondo fermo sotto di noi coi suoi colori originari da cartina geografica. E mi accorgo che mi sto muovendo. Quando cammini sulla terra a volte neanche ti accorgi di avere quella terra sotto ai piedi. Cammini sul suo movimento impercettibile. A volte vai all’indietro, a volte vai all’avanti, a volte al contrario, a volte in perfetta sintonia, ma sempre rispetto a quel moto. Spesso non ti accorgi neanche che ti stai spostando. L’aderenza fisica alla terra rivolge in qualche modo il nostro movimento verso l’alto. L’energia fisica della terra si trasferisce nella mente. E dalla terra ricerchiamo il volo. Come i cuccioli degli uccelli pronti a lasciare il nido.
Ma adesso, dall’oblò di questo aereo è la terra che si fa riferimento al nostro desiderio innato di movimento. E sembra immobile. Senza di noi. Dall’oblò di un aereo la terra esiste davvero. La puoi vedere. Ed esercita un’attrattiva gravitazionale irresistibile sul movimento del tuo corpo, mentre è libero nell’aria. Come una madre addolorata che voglia richiamare a sé il proprio figlio disperso.
Sopra le città, i monti, i laghi, il mare, le cose e gli uomini resi invisibili dalla lontananza, il sole sta sorgendo lento e inesorabile. Rotonda certezza di luce sulle cose. Ladro di magia e di silenzi. Di buio, dubbi e incertezze. Affastellarsi indistinto di sogni, desideri, speranze, allusioni, possibilità. La notte sta morendo, dentro al suo rito. Scompare e dietro lei il giorno viene..
Sopra le città, i monti, i laghi, il mare, le cose e gli uomini resi invisibili dalla lontananza, il sole sta sorgendo col suo parlare lento, ma inesorabile. Esisti, caro mondo, esisti. Non puoi nasconderti. Ti scoverò ovunque andrai. Con la mia luce ti vincerò, svelandoti. Sembra che gli dica. (…)



• Che bella compagnia di Alessandra Carlini (Rimini)

Storia di tre sorelle nella Rimini di ieri. La guerra, il dopoguerra, attraverso gli occhi prima desiderosi poi disincantati di Catia, e dell’attore, poi ex attore fallito, Rolando Micheli. Nel testo ci sono errori, incongruenze e ingenuità. Ma il testo si fa leggere con discreto interesse e i personaggi principali sono descritti con attenzione. (Marina Sangiorgi)

Scrittura chiara nella sintassi e nelle scelte lessicali, pulita e senza fronzoli. Questo consente all'autore di ricreare un conteso culturale e storico abbastanza preciso, insieme alla descrizione di ambienti, contesti, situazioni. La trama prosegue piana, in un crescendo nel quale si confrontano ambizioni dei protagonisti, ricerca di felicità, dinamiche familiari, amori e scelte, di coraggio e di convenienza. Sono un po' deboli gli elementi narrativi che tengono insieme queste dinamiche e che avrebbero potuto dare alla costruzione complessiva del romanzo la giusta tensione. (Saverio Pazzano)

Alessandra Carlini  vive a Rimini. Nel 2003 vince il terzo premio al concorso III Millennio indetto da Fara Editore, con il racconto I fiori e la signora M. Nel 2006 vince il primo premio al concorso nazionale di scrittura teatrale Premio San Vitale di Bologna, con l’atto unico La badante nel boudoir, messo in scena con la regia di Angela Malfitano. Nel 2008 viene selezionata per la pubblicazione all’interno della raccolta Storie e versi (Fara Editore), con il racconto Il bianco e il rosso. Nel 2010 viene pubblicata all’interno dell'antologia Un mare di carta (editrice SensoInverso di Ravenna) con il racconto Costruire, andare avanti. Nel 2011 viene messo in scena, con il patrocinio dell'Alma Mater Studiorum di Bologna, il suo testo teatrale Un tè con Ada ovvero La macchina delle meraviglie.

Che bella compagnia 
di Alessandra Carlini

1.
L’estate del 1938 aveva segnato una svolta nelle aspirazioni artistiche di Catia.
Nelle sue lunghe passeggiate, con il fazzoletto in testa per proteggersi dal vento di marina, puntava verso le distese di sabbia e erba per cercare i palchetti traballanti su cui si esibivano le cantanti in decolleté e i tenori in disarmo. Non sapeva bene cosa cercare, ma anche senza volerlo i suoi occhi indugiavano sui volti degli astanti, scrutavano le persone a passeggio, si allungavano fin dentro i caffè, in cerca di una cosa che lei stessa non era in grado di ben definire, di spiegarsi, con quel tono suadente che usava quando – ed era un’abitudine consolidata – parlava alla Catia interiore.
La Catia interiore era superba nel fornire alibi a tutte le reticenze, omissioni, chiusure, ma non dava delucidazioni sul suo vivere senza meta, senza tappe esistenziali che le consentissero di tirare il fiato come un uccello migratore che si posa sul filo del telegrafo.
Si lasciava alle spalle l’acqua sporca dei piatti e filava via sui suoi polpacci robusti, desiderosa degli spazi che si aprivano davanti al mare, svicolando dai conoscenti, ignorando le occhiate dei seduttori balneari, riposando le gambe soltanto seduta davanti alla guitteria ambulante. Sedeva rigida, convinta che la posizione della spettatrice non le si confacesse più di tanto, ma sentendosi ormai stanca di quel mettersi in mostra nel cortiletto della casa a due piani che continuava a dividere con i genitori, in cui la tensione alla rivalità la costringeva a osare, a dire la sua in ogni occasione, a guardare sfacciatamente gli uomini negli occhi per sfidarli a corteggiarla. Si riteneva algida, la Catia, e anche un tantino superiore, ma alcune volte cascava a gambe all’aria pure lei.
Fortunatamente nessuno dei suoi conoscenti la vide rincorrere il mezzo tenore Giusto Malvezzi alla fine dello spettacolo La storia di Melusina, né la videro tagliare la via del camerino – approntato in fretta e furia con lenzuola usate – al fine dicitore Rolando Micheli, perché altrimenti la sua fama di donna svagata e tutta d’un pezzo sarebbe finita. Se con il Malvezzi non ebbe fortuna – il cantante la liquidò con uno sgarbato spintone – con il Micheli, originario di Pennabilli, seppe trovare una chiave a mezzo tra l’adulazione e la provocazione che ottenne un discreto risultato. Si rividero dopo due settimane.
L’estate era al culmine, e il campo in cui si incontrarono secco e torrido. Camminarono lentamente fino ai cespugli più vicini, dove, al primo spiazzo ombroso, il Micheli si lasciò andare pesantemente nell’erba scricchiolante. Catia fece una risatina poi lo imitò, cercando di trattenere l’orlo della gonna che tendeva a risalire pericolosamente la coscia.
Così, a tu per tu, Rolando Micheli rivelò a Catia una collezione esasperante di difetti. La pelle bianca da animale notturno, le braccia sottili di chi in vita sua ha sollevato al massimo un leggìo, il sudore che gli luccicava sulle tempie, perfino l’unghia lunga e sudicia del mignolo della mano destra, tutto le suscitava un certo ribrezzo nonché una sensazione di ilarità. Non era così seducente, dopotutto, e questo pensiero la confortava e la rendeva allegra. (…)


• La borraccia avvelenata di Fabrizio Sparaco (Roma)

Un giallo spedito e coinvolgente dallo stile asciutto e deciso e dalla struttura coerente ed elaborata. I tasselli dell’intreccio appaiono fitti e intricati, tutti incentrati sulla figura del protagonista e i rapporti tra i personaggi, tuttavia quei tasselli sono offerti al lettore in modo abilmente nascosto, cosicché solo alla fine possa riannodarli e risolvere l’enigma. (Maria Pina Ciancio)

Grazie a un buon intreccio narrativo e alla coerenza stilistica col genere – giallo – il racconto si snoda e lascia leggere con interesse. Le soluzioni dell'enigma differite, i personaggi – seppur appena tratteggiati – coinvolgono il lettore nella ricostruzione dei fatti, attraverso iterate ipotesi. Un po' affrettato il finale con l'esposizione della soluzione da parte del narratore (in qualche punto troppo presente nel commentare ed anticipare gli eventi). (Stefano Redaelli)

Fabrizio Sparaco. Romano, una laurea in Scienze Politiche, inizia a scrivere assiduamente nel 2002. È autore di romanzi e opere teatrali. Predilige uno stile narrativo semplice e un linguaggio realistico. Ha esordito nel 2005 con il romanzo Le Furie Rosse (Michele Di Salvo Editore). Nello stesso anno ha pubblicato anche La Caccia (Società Editoriale ARPANet). Nel 2006 ha vinto il premio Letterario Internazionale per inediti Elsa Morante con una commedia teatrale intitolata Il Sindaco. È del 2007 La Piaga (Il Melograno), mentre nel 2008 ha pubblicato L’Eroe (Giraldi editore). Ha vinto la XII edizione del Premio di narrativa italiana inedita Arcangela Todaro – Faranda 2008 Sezione Romanzo con È sempre notte (Bononia University Press). Nel 2009 ha vinto la I edizione del Premio internazionale Stravagario Emozionale con I gatti di Roma, divertente giallo ambientato in una Roma calda e assolata. Nel 2010 ha pubblicato Il biglietto d’addio, un altro giallo con protagonista il commissario Lorizzo.

La borraccia avvelenata 
di Fabrizio Sparaco

Uno Il commissario Lorizzo venne svegliato dallo squillo del cellulare che teneva a portata di mano, sopra il comodino. Avendo il sonno leggero, dormiva con le tapparelle e la porta della camera completamente chiuse. Allungando la mano, acchiappò il telefono. Ancora assonnato, disse. “Che ora è?”
“L’una passata” rispose una voce agitata.
Sebbene gli sembrasse una voce familiare, Lorizzo non riuscì a identificarla. Accese l’abat-jour del comodino, schiacciò un tasto della sveglia e una luce rossa proiettò ora e minuti sul soffitto. Il tizio non lo stava prendendo in giro. Era l’una della prima domenica di maggio. Quella mattina, come tutte le domeniche che non era in servizio, aveva appuntamento alle 07.30 al Fungo dell’Eur con il solito gruppo di ciclo amatori della società Leonida. Stavolta, in palio c’era la tappa del Monte Civita. Una gara molto sentita tra i dilettanti, tanto che un migliaio di corridori accorreva da ogni regione d’Italia. Dopo il sorprendente decimo posto nell’edizione precedente, Lorizzo, nei ritagli di tempo, aveva fatto una preparazione invernale dura e meticolosa e ambiva a salire sul podio. La sera era andato a dormire presto, troppo presto. Il pensiero e l’ansia per la competizione gli avevano giocato un brutto scherzo. Per finire gli ululati di un cane gli avevano dato il colpo di grazia. Rigirandosi nel letto, aveva preso sonno dopo le cinque. Quando alle 6.30 aveva suonato la sveglia, era così stanco che si era limitato a disattivarla.
Lorizzo era talmente incazzato per aver disertato la gara che chiuse la comunicazione. Si alzò e aprì le persiane. Il cielo era azzurro e il sole spandeva una luce abbagliante. La bella giornata aumentò la sua incazzatura. Sulle due ruote dava il meglio di sé proprio con il bel tempo. Avrebbe fatto sfracelli, se avesse potuto partecipare alla gara. Stavolta, Claudio, alias il cannibale, non avrebbe avuto vita facile.
Stava per avviarsi verso il bagno che squillò il telefono. “Sì, pronto?”
“Mauro, sono Gianni” rispose la stessa voce. Il tono era ancor più agitato.
Gianni, detto il Grillo, era il presidente della Leonida. Alto un metro e sessantatre per cinquantatre chili, negli anni migliori, quando la strada saliva, si alzava sui pedali e spariva tra i tornanti, agile come un grillo. Tre anni prima, con il trionfo alla Gran fondo, aveva avuto il suo momento di gloria. Poi, una serie interminabile di malanni fisici lo aveva relegato tra gli outsider. Quest’anno pareva che avesse recuperato lo smalto dei tempi d’oro tanto che le malelingue avevano insinuato l’ombra del doping, dietro le sue performance. Già, il doping era una piaga diffusa anche tra i cicloamatori, forse più che tra i professionisti. (…)


• Quello strano signore con gli occhiali da sole di Alessandro Ranuzzi (Ravenna)

Incontro angelico adolescenziale narrato con partecipazione emotiva non sbiadita dagli anni. La presenza di rievocazioni oniriche sostiene la narrazione sospesa tra mondo materiale e mondo dello spirito di cui Phanuel è mediatore e congiunzione. Superflui ai fini del patto narrativo l’incipit – in cui il narratore si presenta – e il finale un po' moraleggiante; il racconto potrebbe iniziare e finire con la rievocazione (senza interventi commentativi a posteriori). (Stefano Redaelli)

Sono nato a Ravenna 53 anni fa, città nella quale dove tutt'ora vivo e lavoro. Sono sposato e ho tre figli. Sono impiegato in una provveditoria marittima e il mio lavoro si svolge all'interno dell'area portuale ravennate. Sono in possesso del diploma di licenza superiore. Nella mia vita ho fatto diversi lavori e ho abitato in diverse città, quali Milano e Roma. Ho lavorato anche a Londra, città alla quale sono fortemente legato. Ritengo che lo scrivere sia l'attività che più mi abbia gratificato. Il fatto che non abbia raggiunto traguardi importanti non mi ha mai demoralizzato. Io scrivo per il piacere di farlo e sono orgoglioso se quello che racconto riesce a divertire, interessare o stupire qualcun altro.

Quello strano signore con gli occhiali da sole 
di Alessandro Ranuzzi

Mi chiamo Guido Guidi. Per questo nome devo ringraziare l'eccesso di fantasia che sfiorò i miei genitori il giorno che venni al mondo. Avendo passato da un pezzo la mezza età sento il bisogno di raccontarvi una storia che ebbi l’occasione di vivere in prima persona molto… molto tempo fa.
-.- 

Quando il tutto ebbe inizio avevo compiuto da poco i tredici anni e la mia vita fino a quel momento era stata normale. Normale come la vita di un qualsiasi bambino, o ragazzino che dir si voglia, della mia età.
A quel tempo frequentavo la seconda media.
Una mattina, terminata l’ultima ora di lezione, uscii dall’aula e mi avviai verso la gradinata d’ingresso della scuola. Una volta fuori notai una persona all’apparenza strana, che percorreva il marciapiede sul lato opposto della strada.
Indossava uno curioso soprabito grigio scuro, lungo fino ai piedi e il suo incedere lento lo stava portando verso il parco, che distava non più di duecento metri.
Era alto e robusto. Non sembrava essere vecchio, anzi. Aveva i capelli di un colore chiaro non ben definito e non troppo curati, ma nel complesso sembrava una persona a posto. Nel senso che… a prima vista avrebbe potuto essere stato scambiato per un barbone, ma i barboni barcollano. Barcollano perché hanno bevuto. Barcollano perchè gli mancano le forze… Insomma non camminano come camminava lui. Lui aveva un passo sicuro.
Non so dirvi perché, ma mi sentii irresistibilmente attratto da quell’individuo… un uomo supposi. Anche se non gli avevo visto la faccia pensai che le femmine solitamente non vanno in giro conciate in quella maniera. Le femmine sono sempre più eleganti. Anche una barbona, a modo suo, è sempre più elegante di un barbone.
Tornando a quel tipo, avevo anche notato che portava uno spesso paio di occhiali da sole. Sulle prime pensai che fosse cieco, ma non aveva né cane né bastone e il modo in cui si muoveva sicuro tra la folla mi fece scartare quella possibilità.
Lo seguii con lo sguardo finché non vidi che effettivamente aveva svoltato per un vialetto che entrava nei giardini pubblici, per dirigersi poi verso una panchina vicina ad un enorme platano.
Andando contro tutti gli avvertimenti che i miei genitori mi avevano ripetuto fino allo sfinimento, mi diressi anch’io verso il parco.
Ogni fibra del mio corpo mi gridava di tornare indietro.
Ero indeciso, ma non avevo alcun timore. Giunto anch’io all’ingresso dei giardini attesi un pò, poi alla fine mi diressi verso una panchina, una che non fosse troppo distante dalla strada. (…)

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