Delta3 Edizioni, 2010
recensione di Vincenzo D'Alessio
Sono trascorsi trenta lunghi anni dalla sera del 23 novembre 1980, quando alle 19,34 un sisma violentissimo devastò le aree interne irpino-lucane, arrecando morti e feriti; distruggendo definitivamente intere comunità, dissanguate dalle interminabili emigrazioni; cancellando radici culturali sopravvissute ad analoghi fenomeni precedenti. Questa cesura generazionale ha accelerato processi degenerativi sociali che oggi mostrano i loro nefasti effetti nella politica nazionale, nelle vicende municipali locali, nell’ipocrisia di fronte ai drammi umani che il pianeta vive.
Io scrivo come testimone, sopravvissuto a quell’evento. Scrivo per commentare la stupenda antologia poetico/storica realizzata dal binomio vincente: Giuseppe Iuliano e Paolo Saggese, dal titolo: La polvere e la luna- I poeti del 23 novembre (Delta3 edizioni, 2010). Una antologia ricca di testimonianze poetiche. Ricca soprattutto di un’analisi vera e sentita degli eventi naturali, e storico sociali, compresi nel “Secolo Breve”, cioè il nostro Novecento. Ho detto binomio vincente, quello del presentatore e del curatore dell’Antologia, perché mi piace raffrontarli ad un altro binomio eccezionale del cinema italiano d’autore: Ennio Morricone e Sergio Leone. Quest’ultimo, nato a Roma e ivi scomparso, aveva le sue radici umane proprio nella terra natale di Paolo Saggese, Torella dei Lombardi in provincia di Avellino, il padre, Vincenzo, era nato e vissuto in questa terra prima di emigrare, ed entrambi hanno fatto visita ai luoghi natali durante la loro esistenza.
Sergio Leone, regista di grande talento, dedica la sua eccezionale serie di film Western proprio al padre. Paolo Saggese, curatore dell’opera antologica in esame, dedica quest’opera alla memoria del padre Giuseppe, vicesindaco al momento del sisma dell’80, del suo piccolo paese, e poeta civile. Infatti, Giuseppe Saggese, come scrive il figlio in questa Antologia, “(…) Io sono dalla parte di questi ultimi [gli idealisti], sono dalla parte di mio padre, amministratore comunale di un piccolo paese irpino in quei giorni e in quegli anni del terremoto, che logorarono prematuramente il suo fisico sino a causarne la sua morte il 6 giugno 1990” (pag. 16), pagherà la sofferenza, del suo impegno civile, con la vita. Paolo tenta, dunque, in primis una catarsi per superare il doppio dolore che lo colpì: il sisma violento e incontrollabile, la perdita del genitore, quale padre della terra d’origine.
“La polvere e la luna”, rimasero negli occhi fanciulli del curatore, quella drammatica sera: “(…) E infatti, quando i superstiti si radunarono nelle piazze devastate, videro levarsi una nuvola di polvere dai borghi distrutti e al di sopra una luna bellissima e lontana. Chi usciva dal buio, sembrava un fantasma cosparso com’era di polvere. C’era la polvere e la luna, c’era la morte e la speranza” (pag. 17).
Oltre la catarsi c’è il racconto, la memoria perenne, che va tramandata, vissuta ancora come lacerto vivo dell’esistenza di chi, sceglie, di restare su questa terra ballerina, afflitta da una “notte senza fine” voluta, principalmente e senza soluzione di continuità, dalla classe politica che la governa. Lo ricordano le parole drammatiche e vere del grande statista Ferdinando Cianciulli da Montella, intimo amico dell’altro grande sindacalista irpino Vincenzo Napoli, a proposito del terremoto del 7 giugno 1910: “Ci voleva proprio il terremoto perché la stampa borghese, i reali e i governanti d’Italia si accorgessero che anche quaggiù vivono dei sudditi, perché in cinquant’anni nessun deputato ha saputo o voluto mettere a nudo le nostre piaghe; fame, espropriazioni, violenza fiscale e carabiniera, mancanza d’acqua, d’igiene, di salute; malaria in più punti, deficienza di mezzi di istruzione, di comunicazione, di agricoltura evoluta (…). Non basta, Maestà, il vostro viaggio sportivo a far dimenticare cinquant’anni di sofferenze che ormai gridano riparo” (pag. 19).
Non sono forse le stesse mancanze che albergano, oggi, nel nostro Sud? Cosa è cambiato in cento anni di Storia?
La risposta è in questa sapiente Antologia che, la vicina Università degli Studi di Salerno, bene farebbe ad adottare come testo “terapeutico” nel percorso di studi storico/letterario che le generazioni attuali seguono: “Credo nella funzione etica della poesia” (pag. 15) scrive Paolo Saggese, quasi un grido da Rivoluzione Meridionale del suo predecessore Guido Dorso. Ed io credo fermamente che sia giunto il momento storico, vichianamente parlando, affinché il ruolo delle buone menti meridionali, assurga a volontà di cambiamento per l’intera penisola italiana. Questa Antologia è un fermento.
Accanto alla voce del regista Saggese, ci sono i temi poetico musicali che reggono l’insieme della Storia, del compositore Giuseppe Iuliano, sentinella contadino di una civiltà scomparsa, prematuramente, senza essere vegliata che da pochi: “(…) Un sussulto ed un’inquietudine per molti, a fronte di secoli di disconoscenza e di silenzio. La storia non ha potuto tacere che, tra le vertebre degli Appennini, c’erano sentinelle di borghi, sciami di genti e il loro fiato. Ogni attenzione è diventata nostra. Mai il mondo è apparso così piccolo e vicino” (pag. 10). In queste parole risento la eco di un'altra voce possente che, dal Friuli, terremotato nel 6 maggio 1976, scriveva su quell’immane e analoga tragedia: “Certo che siamo tutti grati per quanto ha scritto il mondo di noi; ma una donna di Gemona, proprio in mezzo alle macerie, mi disse: 'Ce tant che o vin pajàt par fanus cognosci' quanto abbiamo pagato per farci conoscere! E io non so ancora se è stata narrata la vera storia di quanto è avvenuto; se noi stessi e tutti siamo in grado di capirne il mistero. In questo senso è bene che si scriva e se ne parli; per aiutarci appunto a capire. Per non perderci d’animo. Per non sbagliare. Per non dimenticare” (David Maria Turoldo, Il mio vecchio Friuli, Edizioni Biblioteca dell’Immagine, Pordenone, 2001).
L’Antologia comprende 119 poeti, tanti quanti sono attualmente i comuni della provincia di Avellino. L’Irpinia ne contiene di più, se pensiamo che i confini geopoetici, come scrive il curatore, superano le martoriate vette dell’Appennino Meridionale, raggiungono la Lucania, il beneventano, il salernitano e il napoletano. Proprio tutte le province, compreso il casertano, perché grande fu il dramma e grandi sono state le conseguenze ancora oggi presenti. Nulla è stato dimenticato!
Il valore letterario di questa Antologia è senza misura: avvicina poeti che per loro personale storia non avrebbero condiviso lo spazio comune con altri; unisce un coro di voci soliste che all’unisono cantano la stessa possente immagine poetica, senza alcuna presunzione d’emergere se non nell’insieme della loro diversità; infine offre un contributo di conoscenza facendosi lievito nella Letteratura Italiana Contemporanea: “Perciò, se la poesia del Sud, al contrario di quella del Nord opulento, si caratterizza in genere per il suo atteggiamento 'civile' è perché qui da noi la mala politica, il clientelismo, la delinquenza organizzata, il malaffare hanno avuto un carattere distruttivo estraneo al resto del Paese ed hanno generato una situazione di difficoltà economica, di povertà e sudditanza ancora molto diffusa” (pagg. 41-42).
recensione di Vincenzo D'Alessio
Sono trascorsi trenta lunghi anni dalla sera del 23 novembre 1980, quando alle 19,34 un sisma violentissimo devastò le aree interne irpino-lucane, arrecando morti e feriti; distruggendo definitivamente intere comunità, dissanguate dalle interminabili emigrazioni; cancellando radici culturali sopravvissute ad analoghi fenomeni precedenti. Questa cesura generazionale ha accelerato processi degenerativi sociali che oggi mostrano i loro nefasti effetti nella politica nazionale, nelle vicende municipali locali, nell’ipocrisia di fronte ai drammi umani che il pianeta vive.
Io scrivo come testimone, sopravvissuto a quell’evento. Scrivo per commentare la stupenda antologia poetico/storica realizzata dal binomio vincente: Giuseppe Iuliano e Paolo Saggese, dal titolo: La polvere e la luna- I poeti del 23 novembre (Delta3 edizioni, 2010). Una antologia ricca di testimonianze poetiche. Ricca soprattutto di un’analisi vera e sentita degli eventi naturali, e storico sociali, compresi nel “Secolo Breve”, cioè il nostro Novecento. Ho detto binomio vincente, quello del presentatore e del curatore dell’Antologia, perché mi piace raffrontarli ad un altro binomio eccezionale del cinema italiano d’autore: Ennio Morricone e Sergio Leone. Quest’ultimo, nato a Roma e ivi scomparso, aveva le sue radici umane proprio nella terra natale di Paolo Saggese, Torella dei Lombardi in provincia di Avellino, il padre, Vincenzo, era nato e vissuto in questa terra prima di emigrare, ed entrambi hanno fatto visita ai luoghi natali durante la loro esistenza.
Sergio Leone, regista di grande talento, dedica la sua eccezionale serie di film Western proprio al padre. Paolo Saggese, curatore dell’opera antologica in esame, dedica quest’opera alla memoria del padre Giuseppe, vicesindaco al momento del sisma dell’80, del suo piccolo paese, e poeta civile. Infatti, Giuseppe Saggese, come scrive il figlio in questa Antologia, “(…) Io sono dalla parte di questi ultimi [gli idealisti], sono dalla parte di mio padre, amministratore comunale di un piccolo paese irpino in quei giorni e in quegli anni del terremoto, che logorarono prematuramente il suo fisico sino a causarne la sua morte il 6 giugno 1990” (pag. 16), pagherà la sofferenza, del suo impegno civile, con la vita. Paolo tenta, dunque, in primis una catarsi per superare il doppio dolore che lo colpì: il sisma violento e incontrollabile, la perdita del genitore, quale padre della terra d’origine.
“La polvere e la luna”, rimasero negli occhi fanciulli del curatore, quella drammatica sera: “(…) E infatti, quando i superstiti si radunarono nelle piazze devastate, videro levarsi una nuvola di polvere dai borghi distrutti e al di sopra una luna bellissima e lontana. Chi usciva dal buio, sembrava un fantasma cosparso com’era di polvere. C’era la polvere e la luna, c’era la morte e la speranza” (pag. 17).
Oltre la catarsi c’è il racconto, la memoria perenne, che va tramandata, vissuta ancora come lacerto vivo dell’esistenza di chi, sceglie, di restare su questa terra ballerina, afflitta da una “notte senza fine” voluta, principalmente e senza soluzione di continuità, dalla classe politica che la governa. Lo ricordano le parole drammatiche e vere del grande statista Ferdinando Cianciulli da Montella, intimo amico dell’altro grande sindacalista irpino Vincenzo Napoli, a proposito del terremoto del 7 giugno 1910: “Ci voleva proprio il terremoto perché la stampa borghese, i reali e i governanti d’Italia si accorgessero che anche quaggiù vivono dei sudditi, perché in cinquant’anni nessun deputato ha saputo o voluto mettere a nudo le nostre piaghe; fame, espropriazioni, violenza fiscale e carabiniera, mancanza d’acqua, d’igiene, di salute; malaria in più punti, deficienza di mezzi di istruzione, di comunicazione, di agricoltura evoluta (…). Non basta, Maestà, il vostro viaggio sportivo a far dimenticare cinquant’anni di sofferenze che ormai gridano riparo” (pag. 19).
Non sono forse le stesse mancanze che albergano, oggi, nel nostro Sud? Cosa è cambiato in cento anni di Storia?
La risposta è in questa sapiente Antologia che, la vicina Università degli Studi di Salerno, bene farebbe ad adottare come testo “terapeutico” nel percorso di studi storico/letterario che le generazioni attuali seguono: “Credo nella funzione etica della poesia” (pag. 15) scrive Paolo Saggese, quasi un grido da Rivoluzione Meridionale del suo predecessore Guido Dorso. Ed io credo fermamente che sia giunto il momento storico, vichianamente parlando, affinché il ruolo delle buone menti meridionali, assurga a volontà di cambiamento per l’intera penisola italiana. Questa Antologia è un fermento.
Accanto alla voce del regista Saggese, ci sono i temi poetico musicali che reggono l’insieme della Storia, del compositore Giuseppe Iuliano, sentinella contadino di una civiltà scomparsa, prematuramente, senza essere vegliata che da pochi: “(…) Un sussulto ed un’inquietudine per molti, a fronte di secoli di disconoscenza e di silenzio. La storia non ha potuto tacere che, tra le vertebre degli Appennini, c’erano sentinelle di borghi, sciami di genti e il loro fiato. Ogni attenzione è diventata nostra. Mai il mondo è apparso così piccolo e vicino” (pag. 10). In queste parole risento la eco di un'altra voce possente che, dal Friuli, terremotato nel 6 maggio 1976, scriveva su quell’immane e analoga tragedia: “Certo che siamo tutti grati per quanto ha scritto il mondo di noi; ma una donna di Gemona, proprio in mezzo alle macerie, mi disse: 'Ce tant che o vin pajàt par fanus cognosci' quanto abbiamo pagato per farci conoscere! E io non so ancora se è stata narrata la vera storia di quanto è avvenuto; se noi stessi e tutti siamo in grado di capirne il mistero. In questo senso è bene che si scriva e se ne parli; per aiutarci appunto a capire. Per non perderci d’animo. Per non sbagliare. Per non dimenticare” (David Maria Turoldo, Il mio vecchio Friuli, Edizioni Biblioteca dell’Immagine, Pordenone, 2001).
L’Antologia comprende 119 poeti, tanti quanti sono attualmente i comuni della provincia di Avellino. L’Irpinia ne contiene di più, se pensiamo che i confini geopoetici, come scrive il curatore, superano le martoriate vette dell’Appennino Meridionale, raggiungono la Lucania, il beneventano, il salernitano e il napoletano. Proprio tutte le province, compreso il casertano, perché grande fu il dramma e grandi sono state le conseguenze ancora oggi presenti. Nulla è stato dimenticato!
Il valore letterario di questa Antologia è senza misura: avvicina poeti che per loro personale storia non avrebbero condiviso lo spazio comune con altri; unisce un coro di voci soliste che all’unisono cantano la stessa possente immagine poetica, senza alcuna presunzione d’emergere se non nell’insieme della loro diversità; infine offre un contributo di conoscenza facendosi lievito nella Letteratura Italiana Contemporanea: “Perciò, se la poesia del Sud, al contrario di quella del Nord opulento, si caratterizza in genere per il suo atteggiamento 'civile' è perché qui da noi la mala politica, il clientelismo, la delinquenza organizzata, il malaffare hanno avuto un carattere distruttivo estraneo al resto del Paese ed hanno generato una situazione di difficoltà economica, di povertà e sudditanza ancora molto diffusa” (pagg. 41-42).
Montoro, gennaio 2011
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