in memoria del giovane poeta Antonio D'Alessio
La Poesia nella nostra penisola ha cantato, nei secoli, la passione civile. L’ha fatto con la consapevolezza che fosse necessario esserci, che fosse indispensabile ponderare, con le parole, quello che la forza interiore dello spirito di vita richiedeva, nei modi e nei tempi che il poeta viveva. Possiamo iniziare dai versi dell’Altissimo Poeta: “Ahi serva Italia, di dolore ostello, / nave senza nocchiere in gran tempesta, / non donna di provincie, ma bordello!” (Purgatorio, CantoVI, vv.75-78)
Versi di una purezza civile che suonano ancora oggi di profonda attualità. Perché? Noi tenteremo una risposta, per testimoniare il nostro tempo e per affidare ai giovani poeti il futuro della penisola che verrà. Ci viene in aiuto Alessandro Manzoni: “Dagli atrii muscosi, dai Fori cadenti, / dai boschi, dall’arse fucine stridenti, / dai solchi bagnati di servo sudor, / un volgo disperso repente si desta; / intende l’orecchio, solleva la testa, / percosso da novo crescente romor.” (Adelchi, I coro, anno1820-22). Aggiungiamo la voce limpidissima del grande recanatese Giacomo Leopardi: “O patria mia, vedo le mura e gli archi / e le colonne e i simulacri e l’erme / torri degli avi nostri, / ma la gloria non vedo” (All’Italia, dai Canti, anno1818).
Le celebrazioni del centocinquantesimo anniversario dell’Unità della nostra penisola sono già iniziate. Culmineranno il prossimo anno 2011. Ma, seguendo le orme di Leopardi, siamo convinti che la vigilia della festività è pregna di maggiore forza, poiché contiene tutte le aspettative di un popolo di fronte al risultato da raggiungere. Dal raggiungimento in poi, c’è il lento deflusso nel mare magnum dell’oblio.
Pochi anni dopo la voce di un altro poeta canta nella solitudine del proprio cuore tutta l’energia della passione civile, è il sacerdote Pietro Paolo Parzanese: “ (…) Così l’Irpinia perdé fortezza e nervi; / e ne’ cenci del tiranno aspetta / un pan che nutra gli affamati servi” (L’Irpinia, anno1889-1898). Sublime e fervente è la voce civile del giovane Renato Serra, morto sul fronte della Prima Guerra Mondiale, a soli trentuno anni: “Certi problemi non possono rimaner legati al destino di una generazione; che può anche essere fiacca, pettegola, ottusa, cieca e vile; come questa sembra. Ma l’Italia è un’altra cosa. È una realtà. Pare che dorma, in questa distesa grigia, fra queste Alpi taciturne e questo mare scolorito, sotto il cielo basso e chiuso; con tutti i suoi uomini rintanati nel torpore e nello squallore delle piccole case, ognuno stretto fra i suoi muri, seduto alla cenere e al fumo del suo focolare, imprigionato nel suo buco, nel suo orizzonte, nei suoi interessi, nella sua meschinità” (Esame di coscienza di un letterato, Ediz.Studio Tesi, anno1994).
Sul fare del mattino, usciamo per le stradine di Montefusco, nel freddo secco del vento che viene dal Nord. Siamo su una collina Irpina, nella dimenticata provincia di Avellino. Qui, nel compatto castello divenuto carcere, si stavano spegnendo uomini che avevano studiato, sperato, lottato con le proprie mani, per riuscire a colmare quella sete, pura, di passione civile. Risento i loro nomi, sono cinquantadue, nell’ora d’aria al Vaglio, siamo nel febbraio del 1852: barone Nicola Nisco, duca Sigismondo di Castromediano, Carlo Poerio già ministro dei Borbone e il conte Michele Pironti. I loro versi sono scolpiti nelle pietre angolari di questo carcere e risuonano nel silenzio che abbatte ogni oblio.
Nella nebbia che nasconde le distanze, Ernesto passa veloce con un fascio di legna tra le mani. Ha una mantella di lana sulle spalle e un berretto in testa. Sono le otto di questa mattina fredda ma l’odore del suo pane ha già invaso tutta la parte alta dell’abitato di Montefusco. Si è posato sulla fila verdemare dei lecci, bianchi di fiori appena in boccio. La poesia che sentiamo è quella che ci fa sperare che un giorno il Meridione, di questa penisola italiana, abbia anch’esso una libera imprenditoria, piccola come il forno di Ernesto, ma pura, con l’entusiasmo che solo la passione sincera sa imprimere.
L’abbiamo scritto e firmato, nel Manifesto dei Poeti Irpini, a Guardia dei Lombardi il 13 aprile 1997, eravamo in tanti e siamo già dispersi come semi nel mondo. Tutti noi, posando le mani su quel foglio di carta, respiravamo lassù, più in alto, la passione civile per un’Italia migliore: “Dal cuore verde di questa antica terra (…) noi, eredi dei troppi inganni perpetrati dagli ipocriti politici, innalziamo la nostra poesia al di sopra delle barriere delle ideologie, delle falsità, delle menzogne, per lasciare respirare la libertà da sempre avversata” (Manifesto dei Poeti Irpini, anno1997).
I giovani hanno diritto ad un lavoro dignitoso nella propria terra, come scriveva Guido Dorso, hanno diritto ad esercitare liberamente le proprie capacità lavorative, assunte con lo studio e l’esperienza, nella terra dei propri antenati. Non essere scacciati, perché incapaci di curvare la schiena di fronte al potere politico-clericale che domina sul territorio meridionale. Hanno diritto a vivere lavorando. Non a servire per tutta la vita un padrone ingiusto. Vale bene quanto abbiamo scritto per la poetessa lucana Maria Pina Ciancio: “Quando, in tempi di profonda solitudine umana come quelli che viviamo, giunge da un editore, non posizionato nel cuore del Meridione, un libro pieno di quella forza meridionale che riscalda le notti fredde del Nord di qualsiasi luogo conosciuto, e si avvale del contributo storico/critico di un poeta genovese nella postfazione, vuol dire che la “Questione meridionale” non è più nelle mani della politica: è oggi nelle mani della Poesia” (Profili critici, FaraEditore, anno 2010).
Lottiamo, con questa forza che abbiamo, affinché il lavoro nasca, insieme alla nuova gente venuta dal mare , e non si disperda più nel buio di una Storia degli uomini senza poesia.
Vincenzo D’Alessio, uno dei poeti irpini.
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