Prima di sistemare in libreria, questa bella Antologia poetica Salvezza e impegno, curata dall’instancabile Alessandro Ramberti, ho voluto lasciare per ultima, perché più vicina e vera ai contenuti dell’opera, la poesia di Sara Dematteis, che reca il titolo: “VIVO DUNQUE SPERO”.
In questi giorni è scomparso il grande regista italiano Mario Monicelli. Intervistato dalla redazione del giornalista Michele Santoro, autore della trasmissione “Anno Zero”, ebbe a dire che la speranza è un modo di tenere buona la gente, inventato da chi detiene il potere, di modo che l’attesa freni la veemenza, spesso violenta, che è insita nel genere umano. Quando finisce l’attesa della speranza, d’altronde è una virtù praticata dagli esseri umani da millenni, termina anche l’esistenza, lo ricorda il poeta Ugo Foscolo: “(…) Vero è ben, Pindemonte! Anche la Speme, / ultima Dea, fugge i sepolcri; e involve / tutte cose l’obblio nella sua notte”(Dei Sepolcri).
Dunque dovremmo disperarci? E a che serve?! Ci involeremo verso una inquietudine che non ci abbandonerebbe più. La Nostra poetessa Dematteis di fronte al più cupo dolore, la scomparsa del suo giovane amore Claudio, malato di fibrosi cistica, rivolge la parola poetica a freno della disperazione e accende in noi, ancor più, il desiderio di vivere, con due cuori nel petto. Lo so, si vive male con due cuori: si vive contemporaneamente con la vita e il male di vivere: “noi siamo una cosa sola” (pag. 426) questo verso limita il verso precedente: “(…) Poi lei si è riaccesa, / mi ha strappato via la tua presenza fisica, / mi ha posato le tue ali su di me, / perché sei salvo, / perché vivi e respiri adesso, / respiri del nostro amore” (pagg. 425-26).
Nei versi l’indicazione “lei” è riferita alla malattia, la Fibrosi Cistica, che attacca principalmente il sistema respiratorio, limitando l’esistenza della persona: “(…) lei ci ha regalato solo atrocità. / Ci ha regalato la tosse, notti insonni, febbre, anni in cui le / 'vacanze' / in ospedale sono state dieci volte tanto / le nostre ferie al mare” (pag. 425). Una vita “normale” è impossibile. Lo sanno bene tutti i bambini, divenuti adolescenti e giovani, che si sono riuniti intorno al poeta Guido Passini. Lo sanno i loro genitori. Le persone che amano. Lo sa bene la struttura dello Stato Italiano impreparata a sostenere questi “ultimi”, questi “invisibili”, destinati alle cure dei famigliari, anche oggi come cento anni or sono. Scrive bene la poetessa Carla De Angelis, nei suoi bei libri, sulla completa solitudine “degli esseri umani portatori di una diversa natura fisica”.
Lo scriveva anche il grande poeta cristiano David Maria Turoldo, nel suo stupendo libro racconto Il mio vecchio Friuli (Edizioni Biblioteca dell’immagine, Pordenone, 2001): “Era una triste e insieme inevitabile convinzione: che fosse vivo. Vivo come me. Non che sapessi cosa volesse dire 'vivo'. Forse, a parole, non lo saprei imbastire neppure oggi.” Quest’Antologia compie il suo compito: vivere e sperare, salvarsi e impegnarsi; i modi che ci permettono questa breve realizzazione, sono la nostra diversità, la singolarità che, unita ai nostri simili, realizza il vero genere umano.
Il solco dell’inchiostro sul foglio è simile alla lacrima che solca il viso senza svuotarsi. Il verso poetico è la lacrima più bella dell’Umanità. Questo dono è il gesto più dolce di Madre Natura, troppo spesso “maligna” , verso quei figli che l’invocano per capire, per sentire, la musica che muove l’esistenza, chiamata Vita. Lo rivela candidamente Sara Dematteis di fronte al dolore immenso della perdita: “(…) Cla, / hai dato voce a me, / ed io con voce dolce racconto di te” (pag. 424). Il nostro testamento è questo: “Perché la morte non è la fine dell’amore, / perché l’amore basta all’amore” (pag. 426).
Montoro
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