ANALISI DI FEDERICA VOLPE
CondividiDa tempo un romanzo non mi incollava così alle sue pagine.
La collezionista mi ha inchiodato a letto come la più dolce delle malattie, e non mi ha lasciato andare fino a quando le parole di Chiara De Luca non hanno smesso di vibrare sulla carta.
La vicenda è, di per sé, piuttosto semplice: Federica Consoli, ragazza appena laureatasi in Lingue e letterature straniere, si ritrova costretta a cercare casa e lavoro per riuscire a sopravvivere.
Ciò che rende formidabile lo scritto è lo stile, la sensibilità, l’attenzione che l’autrice pone sulla realtà che circonda Federica e che sembra sempre doverla inghiottire da un momento all’altro.
Il tema principale del romanzo è, dunque, la disoccupazione.
C’è una frase, un ritornello che la protagonista ripete tra sé, il quale è “noi (umanisti) facciamo cose belle, che già di per sé ci ripagano”.
E’ una convinzione dell’anima che cozza coi bisogni più materiali, che sono da soddisfare per la semplice sopravvivenza, eppure è una convinzione che resiste, seppure intrisa di amarezza e rassegnazione.
Alla domanda che più volte viene posta a Federica, ovvero al classico “Che cosa ti piacerebbe fare?”, la ragazza risponde molto spesso con un confuso “non lo so”.
Ma la voce interiore della ragazza, abilmente intersecata dalla De Luca col vissuto del personaggio e le vicende che la investono, ci rivela la sottilissima speranza che le grida nel cuore: “la traduttrice letteraria”, è la reale risposta che Federica vorrebbe dare all’enigma.
Del resto, la neolaureata è affetta, come si enuncia dal sottotitolo del romanzo, dalla cosiddetta SdBB (ovvero, Sindrome di Babbo Natale), che consiste in un disperato credere ad un colpo di fortuna, ad un aiuto improvviso da parte di un’entità che i più hanno scoperto non esistere, ma nella quale la ragazza crede perché è l’unico appiglio che ha per uscire dal grigiore e dalla disperazione della vita quotidiana. “Chissà se Babbo Natale ha già ricevuto il mio CV”, si chiede spesso Federica quando è immersa nei suoi pensieri.
Ma tutto questo ottimismo e questa speranza sono oramai soffocati quasi completamente dal duro volto della realtà, la quale riserva alla protagonista una serie di colloqui che sembrano quasi essere usciti dal teatro dell’assurdo, e di cui lei fa collezione (da qui il titolo dell’opera).
Altro tema che spesso torna nel romanzo è quello dell’arte.
Federica è innamorata della poesia, tiene libri di poesie in bagno, e di poesie ne ha scritte anche alcune in passato. Questo animo poetico lo si coglie fortissimo in ogni pagina, quasi in ogni frase. Perfino le descrizioni di personaggi e di luoghi divengono, nel romanzo, profondamente poetici, dal che si capisce anche che Chiara De Luca condivide quell’amore e quello spirito poetico, poiché poetessa a sua volta.
La ragazza arriva anche a riflettere sulla poesia contemporanea, e conduce un’aspra e ben riuscita critica verso chi indossa la maschera del poeta su quella più utilitaristica dell’avvocato, o del politico. Altro mezzo col quale si giunge a trattare il tema è l’incontro della ragazza con il pittore. Dopo che egli, indossata la maschera dell’artista, usa Federica come strumento di piacere, lei, ancora sconvolta, riflette “io non ho mai pensato di fare l’artista. Per fare l’artista ci vuole un’anima grande”.
Altro momento in cui si discute di ciò, ma sulla letteratura in generale, riguarda la visita che Federica fa alla libreria: trova per lo più solo testi legati al consumismo, e si ritrova presto costretta a levare le tende, stomacata da quella realtà così diversa da quella desiderata.
Altro tema fondamentale è quello dei rapporti umani.
La neolaureata si trova completamente sola, spiazzata, a dover cercare una casa da condividere con sconosciuti. L’umanità che la circonda è rappresentata dai coinquilini, dai vari personaggi incontrati per strada, o alla stazione, e i vari possibili datori di lavoro, oltre che un fantasma, Giulio Santi, che le intasa la mail box senza motivo apparente, dopo aver rotto con lei.
I vari personaggi fanno sì che Federica faccia varie riflessioni sulla vita e sull’amore (“l’amore è un cane che viene dall’inferno”, ripete spesso tra sé, citando Bukowski e rivelando ulteriormente il suo innamoramento verso l’arte).
Il rapporto che lei riesce a instaurare con gli altri si basa soprattutto su estraniamento ed incomprensione, che è per lo più reciproca. Federica si sente sola, non capita, incapace di adattarsi al vivere, o almeno al vivere così come gli altri concepiscono quest’atto.
Inoltre la ragazza ha uno zio, che rappresenta l’Assenza e l’Incapacità per eccellenza, il quale la tortura con chiamate di sfogo dopo che ha distrutto con le sue stesse mani il suo nucleo familiare.
Federica cerca di accontentarlo, sapendo che lo zio sarà sempre uguale a se stesso, così come lo è l’essere umano. Si avverte, quindi, una certa sfiducia nell’umanità, ma una certa fiducia in quell’entità ideale che si è auto costruita, e nella quale crede fortemente, che è appunto Babbo Natale.
Federica è anoressica. La De Luca ne parla con un’eleganza estrema, senza striature di solito vittimismo.
L’autrice sceglie saggiamente di non fare dell’anoressia uno strumento di stupida attrazione mediatica, ponendovi un accento spropositato. "Qualcuno dice che l'anoressia è un disagio sociale provocato da modelle, madri-modello, modelli estetici irraggiungibili, padri-modelli-mancanti. Ma non è nient'altro che una malattia. A un certo punto capisci che non sai vivere, che ogni cosa sfugge al tuo controllo e ti sovrasta (...) È la volontà, quella stessa volontà che ti spinge a vivere, che cambia di segno, e ti spinge a morire. In realtà non vivi e non muori. Rimandi vita e morte a data da destinarsi, e vai avanti giusto perché ci sei (...)", spiega la ragazza, in uno dei suoi monologhi interiori.
L’autrice, quindi, ne parla di rado, la malattia è appena abbozzata, non diventa protagonista ma viene tenuta a bada, in un cantuccio, a guardare di sbieco la scena.
Anche il fumo, che è una costante anche fin troppo accentuata nel corso del romanzo, fa capire il disagio del vivere che prova, la volontà di farsi male nonostante gli innumerevoli moniti, la volontà di annichilirsi, sparire.
Il finale consiste in un meritatissimo lieto fine.
C’è in primo luogo il ritorno di un personaggio, un drogato che Federica aveva visto armeggiare con la siringa verso l’inizio del romanzo. La ragazza, passando in quel punto si era trovata a chiedersi se il ragazzo si fosse arreso alla vita o, come lei, nonostante tutto, volesse rimanere e vedere come sarebbe andata a finire. Questo ritorno, dunque, è fondamentale elemento di speranza nel grottesco grigiore della vita della neolaureata, uno spiraglio di luce che comunque è macchiato di sangue e ingiustizia.
La ragazza riesce, infine, a trovare un lavoro dallo stipendio decente, e ciò avviene il 23 dicembre.
Federica, uscendo dal colloquio, vede passare un uomo vestito di rosso: “Capii che Babbo Natale era quello, e che veniva a Natale, quando tutti se l’aspettavano già”, conclude, prima di ricevere una telefonata della quale non sapremo mai l’autore.
La collezionista, ovvero la Sindrome di Babbo Natale ha quel gusto agrodolce che incanta ed emoziona.
Da una parte c’è Federica, con tutte le sue buonissime qualità, il suo animo fortemente poetico, il suo sarcasmo affascinante, la sua grande capacità di riflessione e il suo vaglio critico, e i suoi sogni rotti dalle circostanze ma per i quali continua a lottare, e dall’altra c’è Federica con le sue debolezze che la inchiodano, la immobilizzano, non le lasciano la possibilità di respirare appieno la vita, chiusa in uno spleen tremendo che la atterrisce e imprigiona, non concedendole la minima possibilità di uscire dal dolore, senza la minima possibilità di redenzione.
La conclusione, che lascia tutto in sospeso, compreso il fiato del lettore, ci fa sognare un futuro, se non più roseo, almeno meno grigio.
Insomma, un romanzo degno di ogni tipo di lode, il quale ti incolla alle pagine, ma al quale si sta inchiodati con grandissimo piacere.
DI FEDERICA VOLPE
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