venerdì 9 luglio 2010

E chi è il mio prossimo?

Omelia del giorno 11 Luglio 2010
XV Domenica del Tempo Ordinario (Anno C)

E' una domanda che 'un dottore della Legge' pone a Gesù, dopo che il Maestro aveva risposto ad un'altra domanda, che è davvero essenziale, non solo per chiarire quali debbano essere i rapporti tra di noi, senza fare distinzioni, ma soprattutto per 'avere le chiavi' della vita eterna.

E la domanda era: 'Maestro, che devo fare per avere la vita eterna?: Una domanda che dovremmo fare tutti a Gesù, e la Sua risposta è lapidaria. In poche parole riassume quale deve essere il nostro rapporto non solo con Dio, ma con chi ci è vicino, chiunque sia: 'Che cosa sta scritto nella Legge? Che cosa vi leggi?'. Il Suo interlocutore rispose: 'Amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima, con -tutta la tua forza e con tutta la tua mente e amerai il prossimo tuo come te stesso. E Gesù: 'Hai risposto bene: fa questo e vivrai'. Ma quegli volendo giustificarsi ribadì appunto: 'E chi è il mio prossimo?

Un 'problema', questo, che potremmo porci tutti.

Viviamo in un tempo in cui ci si divide tra popoli, etnie, culture, diversità di situazioni. Basta pensare a quei fratelli che clandestinamente entrano nella nostra patria, fuggendo dalla fame o addirittura dalla violenza, e approdano da noi, in cerca, se non di amore, almeno di rispetto ed accoglienza.

Siamo stati anche noi, a suo tempo, emigranti in cerca delle stesse cose.

Quando ero parroco nel Belice, tanta gente, soprattutto giovani e uomini, abbandonavano la loro terra in cerca di lavoro. Nei primi anni del '900 stipati nelle navi come merce, partivano per l'America, impiegando giorni e giorni, in condizioni di estremo disagio. Venivano 'accolti' in una zona di Brooklyn e lentamente cercavano lavoro. Alcuni tornarono, ma molti si resero indipendenti, non solo, con il tempo acquisirono la cittadinanza americana, e alcuni o i loro figli fecero carriera.

Li andai a trovare e stetti con loro per un mese intero. In Canada c'era a Montreal una zona tutta italiana ed era chiamata 'Piccola Italia'.

Dopo la guerra, negli anni '50, iniziò la fuga verso il Venezuela. Protetti dall'allora Presidente, molto accogliente, seppero con un poco di fortuna creare anche lì, a Caracas, un quartiere 'italiano' e lentamente costruirono aziende specializzate in calzature, che poi vendevano viaggiando all'interno dello Stato.

Qualcuno tornò al paese, ma quasi tutti preferirono restare dove c'era possibilità di crearsi una vita dignitosa. Con l'intuito tipico della gente del Sud, che cerca il futuro, seppero creare tanti modi per `fare industria'.

Per due anni dedicai il tempo delle ferie a visitare i nostri in Germania e Svizzera, dove il lavoro c'era e quindi anche la possibilità di mandare a casa un guadagno per costruire casa e porre le fondamenta per un domani.

Vero che per risparmiare vivevano con il minimo; a volte affittando stanze dove dormivano in tanti, oppure vivendo in baracche fatiscenti, in cui mancava anche l'indispensabile per un po' di decoro. Provai a restare con loro per due giorni, ma non riuscivo a riposare tanto erano maleodoranti. Vivevano 'tollerati', ma come braccia di lavoro necessarie e quindi accettati, seppur non accolti.

Ricordo che un giorno, visitando una città svizzera con alcuni di loro, fui accompagnato allo zoo. Ma non potemmo entrare perché sull'ingresso c'era scritto: 'Vietato ai cani e agli italiani'.

Veniva spontanea la voglia di ribellarsi, in nome della dignità che è un bene di tutti, ma ciò poteva tornare a danno di chi restava.

E non erano solo i siciliani che incontravo, ma anche lombardi, veneti. Forse ci siamo dimenticati, oggi, pensando a chi viene da noi, emigrando dal suo Paese, che i nostri nonni o padri ben conoscono che cosa significhi lasciare tutto per la propria famiglia e trovare... lavoro, forse, ma sfruttato e 'condito' di disprezzo.

Ma quel neanche tanto sottile e inconfessato razzismo, che è tra noi, mette alle spalle le nostre stesse 'radici' e, considerando gli emigranti come un 'pericolo per la sicurezza' - salvo poi 'usarli e sfruttarli' quando fa comodo - , usa l'orribile parola 'respingimento', quasi a voler tenere tranquilla la nostra coscienza.

Tranne, per fortuna, le CARITAS, che non considerano i 'presunti pericoli', ma guardano all'uomo, in carne ed ossa, in cerca di speranza e amore. Benedette CARITAS, che mostrano il cuore della Chiesa di Gesù!

Gesù, infatti, alla domanda del dottore della legge: `Ma chi è il mio prossimo?' risponde:

"Un uomo - notate 'un uomo', senza specificare apparenze esterne, se nere o bianche, se forestiero o altro: UN UOMO, come siamo tutti noi agli occhi di Dio, uguali e chiamati ad amare ed essere amati - scendeva da Gerusalemme a Gerico ed incappò nei briganti che lo spogliarono, lo percossero e poi se ne andarono, lasciandolo mezzo morto.

Per caso, un sacerdote scendeva per quella medesima strada e quando lo vide passò oltre dall'altra parte della strada. Anche un levita, giunto in quel luogo, lo vide e passò oltre Invece un samaritano, che era in viaggio, passandogli accanto lo vide e ne ebbe compassione Gli si fece vicino, gli fasciò le ferite, versandovi olio e vino, poi, caricatolo sopra il suo giumento, lo portò a una locanda e si prese cura di lui. Il giorno seguente, estrasse due denari e li diede all'albergatore, dicendo: 'Abbi cura di lui e ciò che spenderai di più, te lo rifonderò al mio ritorno. Chi di questi tre ti sembra sia stato il prossimo di colui che è incappato nei briganti?'. Gli rispose: 'Chi ha avuto compassione di lui'.

Gesù gli disse: 'Va' e fa anche tu altrettanto'." (Lc. 10, 25-37).

Stupenda parabola, che incide a caratteri d'oro quale sia la natura della carità. Gesù la descrive nello `avere compassione' e non fermarsi lì, ma tradurre la compassione in fatti concreti, che riportino a respirare la gioia della vita e fa del samaritano - che tra l'altro non era uomo stimato dai Giudei, perché veniva dalla Samaria, i cui abitanti si differenziavano nella fede, mentre per noi potrebbe essere una qualsiasi persona di cui avere poca fiducia.... - il simbolo della compassione verso chi sta male.

Ma partiamo da colui che Gesù definisce semplicemente 'un uomo', ossia uno qualunque, senza titoli: un uomo che andava per infatti suoi. Il suo viaggio viene interrotto da quelli che Gesù chiama `briganti', che lo derubano e lo abbandonano sulla strada semivivo, ossia uno la cui vita ormai dipende dal comportamento di chi passa vicino...

Quante storie potremmo raccontare di persone abbandonate sulla strada a causa dei loro simili o di situazioni difficili, che si sentono 'mezze morte'!

Ma è facile trovare chi abbia la bontà di fermarsi e accompagnarle con amore nella loro difficoltà, fino a ritrovare la serenità?

Si ha purtroppo la sensazione che troppi, di fronte al dolore di un fratello, 'vedano e passino oltre', come fecero il sacerdote e il levita.

C'è troppa indifferenza... questo è il grande male!

E quando la fede non è al servizio dell'amore, davvero non ha più contenuto.

Ormai questo nostro mondo, che pensa ai propri interessi, che è chiuso nei propri egoismi e profitti, non ha più tempo né cuore per chi soffre... a meno che la TV ci proponga casi di sofferenza a livello locale o planetario, che scuotono la nostra sensibilità, e ci fanno uscire dalla nostra indifferenza.

Non si può stare in questo mondo, tra la gente, in famiglia, come se nessuno esistesse al di fuori di noi! La natura stessa dell'uomo è fatta per essere l'uno completamento dell'altro.

La solitudine, l'indifferenza non ci onorano, ma anzi ci condannano.

Ringrazio davvero Dio che mi ha messo in situazioni difficili, dove sono stato mandato per il servizio pastorale. Nel Belice, a Santa Ninfa, il terribile terremoto che distrusse vari paesi, lasciando tutti senza casa e senza domani. Ero sconvolto quella notte e, guardando la cara Chiesa Madre, andata in briciole, chiedendomi e chiedendo a Gesù, anche Lui sotto le macerie, il perché di tutto quello sfacelo, venni improvvisamente chiamato da un giovane, che mi invitava ad aiutarlo a salvare i suoi cari, rimasti sepolti sotto la casa.

Da allora la mia vita fu da `samaritano', al punto da dimenticarmi, nei primi giorni, di mangiare.

Fu un medico che, vedendomi, mi richiamò alla realtà, invitandomi a prendere cibo e riposarmi con lui. E posso dire che da allora è stata una grazia ogni volta ho potuto 'farmi vicino', avere compassione di tanti che incontravo 'semivivi', per mille ragioni, sulla mia strada.

Non è necessario fare 'prodigi . I miracoli della carità devono essere il tessuto delle nostre giornate... una sola cosa ci è chiesta: lasciare che Gesù operi attraverso di noi, nei piccoli gesti, parole gentili, un sorriso, che Lui rende 'grandi' per chi li riceve

Ricordo una notte di Natale, dopo la Messa solenne, tutto parato, rientrando in sacrestia, mi accorsi che in un angolo c'era una ragazza che piangeva a dirotto. Mi fermai, la consolai.

Alcuni giorni dopo venne a trovarmi e dirmi: 'Grazie di essersi accorto di me. Ho capito cosa vuol dire avere a cuore gli altri'.

Ma credetemi è davvero, oltre che cristiano, profondamente umanizzante per noi, conservare occhi di attenzione per chi soffre e ha bisogno di qualcuno. Riempie la vita ed è segno che l'amore, ricchezza dell'umanità, è vivo e ci rende più veri.

E chissà quante volte anche voi, semplicemente leggendomi, avete trovato nelle parole di Gesù e nel mio povero, ma sincero, farmi vicino, per avere cura, un momento di sollievo.

Mi viene da dire a voi, carissimi - permettetemi di dirlo -: 'Siate samaritani', in famiglia, coi vicini, sul lavoro, con gli 'estranei' che incontrate, accogliendo l'invito di Gesù: 'Va' e anche tu fa' lo stesso!'



Antonio Riboldi – Vescovo –

Internet: www.vescovoriboldi.it

email: riboldi@tin.it

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