Vincitori sez. Racconto (v. anche la sez. Poesia e l'attestato dei vincitori) del concorso Pubblica con noi 2009
I classificato
Piero Macrelli, nato a Rimini il 02-07-1963, diploma tecnico di scuola superiore, lavora come dipendente in un supermercato.
Incipit dell'opera
Gilgamesh scrive:
ma allora sei marchigiana…
Rosadilima scrive:
non lo dico quindi non puoi sapere se lo sono
Rosadilima scrive:
sì, come no
Gilgamesh scrive:
ti ho scoperto. Sei marchigiana. Ed io, puro romagnolo, mi vado a mischiare con una marchigiana…
Gilgamesh scrive:
e pensare che stavo quasi per innamorarmi di te......
Gilgamesh scrive:
ahahahahahhaahhahahahha
Rosadilima scrive:
aahahahhaha
Gilgamesh scrive:
scherzo....
Gilgamesh scrive:
non ho nulla contro i marchigiani. ma l'accento di ascoli piceno fa piangere....
Rosadilima scrive:
fa cagare per meglio dire
Gilgamesh scrive:
anche io con la mie esse sibilanti da riminese non dovrei parlare.....
Rosadilima scrive:
assomiglia all'abbruzzese
Gilgamesh scrive:
ma se tu fossi della zona di ravenna....
Gilgamesh scrive:
magari all'interno
Gilgamesh scrive:
di fianchi generosi e non secca...
Gilgamesh scrive:
impazzirei per te...
Rosadilima scrive:
io ho i fianchi stretti e sono magra come un giunco
Rosadilima scrive:
sono alta e magra
Gilgamesh scrive:
fianchi maschili?
Rosadilima scrive:
nooo
Rosadilima scrive:
ma ho le forme al posto giusto
Rosadilima scrive:
sono femmina dalla testa ai piedi
Rosadilima scrive:
non ho niente di maschile (per fortuna)
Gilgamesh scrive:
saresti disposta ad ingrassare 5-6 chili per amore?
Motivazioni
(Morena Fanti)
Ben de-scritto il senso di straniamento, un allontanarsi da sé stesso per guardarsi da fuori e vedere agire l’altro, quello che gira in internet con un nick e che acquista una sua identità a scapito di quella del protagonista: “Già dai primi approcci alla chat mi resi conto che ero stato catturato in un vortice emotivo che andava ben oltre la mia comprensione. L’alter ego da me creato, dopo i primi incerti passi, cominciò a muoversi con una sicurezza ed autonomia che non mi sarei mai aspettato”.
Un racconto molto attuale che tratta un tema forte vivendolo dall’interno, in modo semplice e diretto.
(Angelo Leva)
L'analisi introspettiva è fatta in maniera aperta, con argomenti chiari e condivisibili perché fanno parte dell'esperienza comune. Linguaggio chiaro senza scadimenti retorici, banali e prevedibili. Ricorda Il male oscuro di Giuseppe Berto che a metà del Novecento fece riconoscere migliaia di Italiani nel protagonista del libro.
(Nino Di Paolo)
In una storia che sembrerebbe “solo” una storia di disagio mentale sono invece contenuti due momenti “letterari” importanti: uno di contenuto ed uno stile.
Quello di contenuto è il racconto del passaggio, per il protagonista maschile, dal solo leggere allo scrivere, da “Urania” alle chat.
Quello di stile è nella descrizione dell’atto sessuale, uno degli scogli classici dello scrittore (come quello del discorso diretto) , sempre in bilico tra il banale ed il volgare, che qui viene brillantemente affrontato evitando questi due pericoli.
Racconto profondo e gradevole al tempo stesso. (Nino)
(Caterina Camporesi)
La certezza di avere un unico io indiviso non è più sostenibile, così la tecnologia, qualora la vita reale non offra più ruoli significativi e soddisfacenti offre l'opportunità di mettere in gioco altri ego virtuali per aiutare il difficile compito della sopravvivenza. La storia della relazione fra un uomo e una donna raccontata rappresenta il fallimento, quando l'io reale e quello fantastico si incontrano e si confrontano. L'eventuale speranza sembra comunque affidarsi al virtuale.
Mauro Simeone ha trentadue anni e ha già pubblicato un titolo (Rocco Calcestruzzo – Dialogo con se stessi, 0111 Edizioni, 2008) e alcuni suoi racconti sono apparsi su varie antologie (Qui tutto va a puttane, Gingko edizioni, 2008).
Incipit dell'opera
Luca si presentò nel bar con la solita maglietta verde sdrucita, i bermuda sotto il ginocchio e un paio di scarpe da ginnastica scollate e sporche di terra.
Non era tipo da indossare t-shirt griffate per mostrarsi forte e vincente agli occhi degli altri anzi, gli dava fastidio avere Dolce & Gabbana o Fred Perry testimonial della sua anima. Fosse stato per lui sarebbe andato sempre in giro nudo.
Seduti al tavolino del bar c'erano i fighi del Pigneto, Alessandro e Marco più un terzo elemento che aveva visto solo di rado che aveva un pizzetto disegnato ad arte e lo sguardo annoiato.
Gli altri due invece li conosceva bene, erano tutti cresciuti insieme su quelle strade, erano stati amici d'infanzia, anche se amici non è proprio il termine corretto perchè lui aveva sempre dovuto pagare lo scotto della sua inferiorità; era lui quello che non era capace di impennare la bicicletta su una ruota, lui quello che nelle partite a pallone veniva scelto sempre per ultimo, lui l'ultima persona da chiamare e la prima da prendere in giro.
Per questi motivi crebbe con poca autostima e il senso di rivalsa nei loro confronti era cresciuto sempre di più, giorno dopo giorno e anno dopo anno, tanto che ormai, pur di suscitare il loro interesse, se ne inventava di tutti i colori:
– Ho visto cose che voi umani non potete neanche immaginare: ho visto pianoforti che volano, supposte grandi come dirigibili, zanzare che sventolano la bandiera della pace.
– Anche io ho visto cose che tu non puoi neanche immaginare – lo interruppe Alessandro, il vero leader della compagnia, quello che sfoggiava sempre l'ultimissimo modello di cellulare, vestiva Dolce & Gabbana ma soprattutto da bambino era capace di fare un chilometro intero su una ruota sola.
– Ho visto ragazze che ci stanno, camicie di Brook Brothers a quindici euro, ingressi omaggio al Kursaal.
Marco e l’altro ragazzo scoppiarono a ridere e iniziarono un fitto lancio di olive verdi di Gaeta contro Luca che rimase lì immobile, impassibile e umiliato.
Uscì fuori del bar con la convinzione che non sarebbe mai riuscito a ottenere la stima dei suoi coetanei, neanche se fosse stato un cacciatore di cyborg in Blade Runner.
– Vattene via drogato!
– Tossico che non sei altro!
– Fattone!
Gli appellativi che risuonarono da dentro il bar erano i soliti, niente di nuovo davvero. Luca non ricordava una sola volta che quelli che lui chiamava amici l'avessero chiamato col suo nome. Per muovergli accuse e insulti usavano sempre l'etichetta del drogato che effettivamente era ma a lui sarebbe piaciuto che qualche volta l'avessero insultato chiamandolo per nome e non usando un generico “tossico” o “drogato”.
No, sentirsi dire “Luca sei un coglione” non sarebbe stato affatto male.
Motivazioni
(Nino Di Paolo)
In quanti modi vediamo il drogato, il tossicodipendente, il tossicomane, il “tossico”?
Come uno che fa pena, come uno che se l’è cercata e si arrangi, come uno da curare, come uno da punire, come un fastidio, come…
Questo racconto, senza toni drammatici, scritto in modo semplice e gradevole, mi ha permesso di vedere, per la prima volta, in un testo, il drogato come una persona assolutamente come tutte le altre, cosciente di un bisogno rispetto al quale siamo spesso disattenti perché lo consideriamo acquisito od irrilevante per importanza: quello di essere chiamati per nome, cioè il massimo della normalità e, allo stesso tempo, della personale specificità, dell’irripetibilità di ciascuno.
Il testo è simpatico, appena appena ruffiano, certamente piacevole.
(Caterina Camporesi)
Ambientato in un quartiere di periferia di Roma nel periodo delle ferie estive, il racconto, scandito da citazioni di canzoni di Lucio Battisti, narra le vicende di una gioventù persa i cui tentativi di trovare senso e speranza nei valori dell'umanità e nel futuro sono brutalmente irrisi. Luca, il protagonista, con alle spalle un percorso di droga, impegna tutto se stesso affinché il bisogno d'amore e di riconoscimento umano e sociale venga accolto. Lo sforzo, non solo non dà risultati positivi, ma va verso un finale agghiacciante.
Giuseppe Cornacchia, 1973, co-gestisce il portalino letterario www.nabanassar.com dal 2002. Vive e studia in Inghilterra. Ha pubblicato nel 2003 con Ass Cult Press di Pistoia, nel 2006 con Fara Editore di Rimini e in bilingue italiano/inglese nel 2008 con Erbacce Press di Liverpool. Variamente segnalato su carta e in rete.
Incipit dell'opera
Fredda mattina di novembre, mercoledì, ore 9. Cielo coperto.
"Miscredente", così il capo.
"Ma no, le assicuro, c'è un equivoco", così Barbaro.
"Furfante, truffaldino, brigante!"
"Le spiego, se mi dà un minuto le spiego"
"Avanti, sentiamo..."
"I-i-io, v-v-veramente..."
"Cialtrone! Buffone! Via, via, prima che ceda alla tentazione di prenderla a calci!"
Si era brillantemente concluso il colloquio col capo per un avanzamento di grado.
"Ehi, sembri stravolto, che t'è successo?", così un collega.
"Al diavolo!"
Era sicuro d'essersi guadagnato il licenziamento.
Passò dall'ingresso di servizio.
"Buongiorno, signor Barbaro", così la portinaia.
"Addio"
Che sciocca portinania.
Si infilò nel bar vicino.
"Un chinotto, per favore"
"Ecco a lei"
"Senta, che dice del tempo? Ha visto che nuvole, non è che pioverà? Sa, ho i panni sul balcone, non vorrei rilavarli"
"Mah, a occhio non piove. Se poi piove, non so"
"Ehi, amico, non piove, sta tranquillo". Un tipetto tosto, alle prese con un Martini caldo.
"Chi è lei, Mandrake?"
"Ah, ah. No, no, l'ho sentito alla radio"
"Bene, grazie. Il suo Martini lo pago io"
Per strada, importunando turiste non accompagnate.
"Hello, miss. Can I offer you a drink?"
Risatine.
Motivazioni
(Stefano Martello)
Qualche giorno fa, in mezzo al traffico di Roma, con una musica che non sentivo e con mille pensieri, ho visto due persone che si prendevano a schiaffi per qualche oscura ragione che aveva a che vedere con i cartelli stradali. Ho dato due colpi al clacson e ho pensato al film della sera. Con un dialogo brillante, secco e coinvolgente, questa è la trasposizione letteraria di quel giorno, e di tanti altri giorni. Di smarrimento del buon senso, di assorbimento passivo di ogni genere di dato e di assenza di un qualsiasi processo di elaborazione e critica. Ma il film in prima serata era veramente imperdibile!
(Nino Di Paolo)
Tre racconti, di cui il secondo, “Giovanni”, fantastico, sospeso tra l’incredibile ed il surreale, che esprimono la follia dell’esistenza e una ricerca impossibile di senso.
Incredibili e surreali ma, purtroppo, non inverosimili.
Si danno la mano la coscienza dell’assurdità del reale e la follia, e non in posizione di causa ed effetto. La scrittura è scarna, a frasi brevi ma illuminanti, visionaria e concreta insieme.
Romano, autore di genere fantastico/fantascientifico. Lavora come consulente di Marketing e Management. Si piazza finalista o riceve menzioni d’onore in occasione di vari premi di letteratura di genere, a volte con pubblicazione (Tabula Fati, Nuovi Autori Science Fiction 1, 2, 3, e 4, Apuliacon 2005, Racconti dall’Oltrecosmo 2005, Space Prophecies II, 2006, Racconti dall’Oltrecosmo 2007, Ferrara & Ghost 2008) e di narrativa generale (Il Prione 2005 e 2006, Interrete, Città di Melegnano, Racconti in Viaggio, Energheia, Alla Luce delle Mainarde, Prader Willi, La Voce delle Donne, Merano Europa, Zenone, Città dei Sassi, Chiave di Svolta, Pubblica con noi, Premio Letterario Casentino 2008, Premio Nemo Editrice 2008, Le Fenici 2008, Loris Biagioni 2008, Giorgio La Pira 2008, Alois Braga 2008, Duerre 2008, Erga Omnes 2008, Volo Rapido Porsche 2008); vincitore nella sezione fantascienza del premio Akery 2006 (al quale poi nel 2007 e di nuovo nel 2008 è giunto secondo), secondo classificato al Trofeo Rill 2008, vincitore del Premio Rasa Calogero, vincitore del premio di fantascienza Apuliacon 2007; al premio Parco Majella 2006 e al Premio Pennacalamaio 2007 vincitore con la prima raccolta di racconti, “Fantasie di Mondi Possibili”; vincitore del Premio Adeia 2008, vincitore del Premio Archimede - Siracusa 2008, infine vincitore del Premio Pennacalamaio 2008. Suoi racconti di genere fantastico sono stati pubblicati nelle antologie Fuga da mondi incantati, Nexus Editrice 2008, I Racconti del Prione 2005, e I Racconti del Prione 2006, entrambi per i tipi delle Ediz. Giacché - La Spezia, Nuovi Autori Science Fiction 1, 2 e 3, e 4”, La Voce delle Donne, Ediz. Fiori di Campo, I Racconti di Energheia, Ediz. Energheia, I Racconti dell’Oltrecosmo I e III, Space Prophecies I & II, 2006, Volo Rapido 2008 – Letteratura Creativa in 356 minuti, e nelle riviste letterarie «Il Club degli Autori», «Fondazione» e «Nugae».
Incipit dell'opera
Johanna correva veloce sulla spiaggia e gli andava incontro. Dall’alto della scogliera chiunque non avrebbe potuto distinguere che un puntino in rapido movimento, e per un istante fu come se anche Balkan avesse visto così quella scena.
Era certo che si trattasse di lei, anche se ancora non riusciva a vederla in volto; riconosceva la sua immagine da lontano, dal desiderio che la muoveva verso di lui, dalla leggerezza. Mentre la guardava avvicinarsi, Balkan non riusciva a sentirla, mentre lei lo chiamava per nome, perché la voce della donna era sovrastata dalle onde del mare; ma era così felice che lei fosse lì che questo non gli importava. L’idea di riaverla fra le sue braccia prevaleva su qualunque altro pensiero; per tutto il resto, le domande, i dubbi, le incomprensioni e lo stupore non sarebbe mancato il tempo, poi.
C’era solo una lingua sottile di sabbia fra il balzo della colossale parete basaltica e la marea che risaliva in fretta, ed un senso si urgenza si sovrappose alla placida bellezza di quella visione.
La risacca diventava sempre più vicina, e Balkan cominciò a pensare che non avrebbe avuto modo di salutare la sua amata nella maniera che avrebbe voluto, ovvero abbandonandosi ad un bacio senza tempo.
Il cielo appariva sereno, e la luce dei due soli era al massimo dell’intensità diurna. Non c’era dubbio, si trovava nel sistema binario di Darlan, uno dei luoghi più temuti della galassia, frequentato unicamente da pirati, predoni e trafficanti di ogni risma. Gente in mezzo a cui era cresciuto e con cui aveva imparato a vivere più che dignitosamente. Proprio per questo non riusciva a capacitarsi di come anche lei, che apparteneva a tutt’altro genere di mondo, potesse trovarsi laggiù, libera, e sola.
Si erano detti addio da qualche settimana, ma lei doveva aver cambiato idea.
Lo aveva dunque raggiunto e aveva corso un gran rischio per riuscire a rintracciarlo. Ne concluse che era ancora innamorata di lui, e questo era più che abbastanza.
Al diavolo la marea, le rocce, e i malviventi che infestavano il pianeta; come al solito, lui avrebbe trovato un modo per cavarsela, e anzi persino per trarre vantaggio dalla situazione, per sé, e per lei.
Per loro, insieme.
Johanna era ormai a poche decine di metri, quando Balkan vide la bestia. Un’aquila gigante, sbucata all’improvviso alle proprie spalle, stava picchiando dall’alto delle rocce verso la donna. Balkan rimase inebetito a guardarla, dubitando dei suoi stessi occhi; su Darlan IV non c’erano animali, escludendo le più meschine fra le razze del genere umano.
Non aveva mai visto da vicino quel genere di predatore, ma era come se ciò fosse avvenuto; quando era bambino, suo nonno gli narrava di aver visto i rapaci imperversare durante le razzie dei villaggi saccheggiati dai signori nei sistemi più lontani dal centro dell’Impero, prima della nascita della Lega. Ma non avrebbe mai sospettato che potessero esserci ancora degli esemplari selvatici in libertà, e di certo non su quel mondo abbandonato.
L’uomo estrasse la sua arma iniziò a correre verso la donna, sperando di riuscire a sottrarla alle grinfie di quel mostro.
Per quanto si sforzasse di precipitarsi in suo aiuto, Balkan si accorse con orrore che riusciva a muoversi molto lentamente; la gravità sembrava essere aumentata ad un livello intollerabile, e la bestia sarebbe arrivata su Johanna prima di lui. Non poteva permetterlo, proprio ora che l’aveva ritrovata.
Puntò il fucile paralizzante, sparò, e si rese subito conto che l’arma non funzionava; la gettò in terra con violenza rabbiosa, prima di lasciarsi andare ad un urlo disperato, disumano, che avrebbe spezzato il cuore a chiunque avesse avuto la cattiva sorte di udirlo.
– Balkan! Svegliati, accidenti! Sveglia, Balkan!
Le parole risuonarono nel silenzio.
Motivazioni
(Stefano Martello)
Non c’è nulla da fare; un buon racconto breve di fantascienza riesce a migliorarmi la giornata. Scritto bene, con una citazione nemmeno tanto nascosta a “Fanteria dello Spazio” nell’individuazione del nemico ed al “Gioco di Ender” (Orson Scott Card) nella visione di una guerra necessaria. E con degli spunti – e se essere invasi da un insetto non fosse una cosa poi così terribile? - che, forse, potrebbero trovare forza ed essenza in un romanzo, più articolato e meno costretto dalla formula del racconto breve.
Incipit dell'opera – Aperta la porta, trascinai la valigia fino a quella che sarebbe stata la mia camera da letto. Pochi metri, a dire il vero. Il soggiorno era più piccolo di quanto ricordassi, il cucinino, il bagno, piccolo anch’esso, e la casa finiva là.
I pochi mobili che arredavano la casa erano IKEA e tutto sommato non stavano male. L’appartamento era scarno, essenziale, ma pieno di luce.
Il palazzo invece, quanto di più anonimo potesse concepire un architetto, era un parallelepipedo su una collina. Intorno, tanti cloni grigi dello stesso contenitore. Chissà che soddisfazione replicare uno scatolone come quello.
Aprii la finestra e mi affacciai sul piccolo balcone da cui si vedeva una delle poche chiazze di verde di tutta la zona, una fetta di campagna bruciata dal sole. La ringhiera, in metallo bicolore non era altro che una rete irrigidita che sembrava non potesse reggere il peso di un uomo.
In fondo, una spessa lastra di vetro opaco divideva la mia porzione di affaccio con quella dei vicini, molto più piccola, sembrava.
Non avevo idea di chi abitasse nella porta accanto né mi importava saperlo.
Arrampicato a stento sul vetro che divideva il balcone, un gelsomino, sopravvissuto ai traslochi degli inquilini precedenti. Era in fiore e profumava incredibilmente, nonostante la terra coperta di crepe dall’arsura, come le madri africane ridotte pelle e ossa dalla fame che allattano ancora un bambino e il bambino è bello e il latte esce a gocce dal loro seno, nonostante loro, le madri, siano solo dei fantasmi.
Anche i fiori del gelsomino erano belli. Corsi ad annaffiarlo con un contenitore incrostato di calcare che avevano lasciato i miei predecessori.
Quanto a me, dovevo comprare tutto in quella casa.
Lo avevo voluto io. Lasciando Sergio volevo disfarmi di tutto il mio passato. Non che non fosse stato bello. Tutto il passato ha qualcosa di bello, a pensarci.
Io preferivo ricominciare, svegliarmi la mattina e vedere una stanza nuova, oggetti nuovi, anche scadenti ma privi di ricordi. Neanche i miei libri avevo voluto.
Non stavo male. Con Sergio era finita. Non sopportavo più quell’amichevole convivenza, quell’affetto che basta uno sguardo per capirsi, quel fare tutte le cose insieme, il nostro eros addomesticato, funzionale al fare di noi una coppia perfetta.
Sergio aveva accettato senza comprendere. Complice ancora una volta mi aveva lasciato andare. Quanto ai libri, potevo andarli a prendere quando ne avevo voglia, non c’era bisogno di avvertirlo prima e la casa la conoscevo.
Giudizio di Morena Fanti
Atmosfera sognante e scrittura delicata ma precisa, per questo bel racconto in cui la fantasia del sogno, del desiderio, ma anche la sconfitta della solitudine, porta alla creazione di persone e storie così sentite e intime da essere vere. E poco importa se alla fine tutto ciò che rimane è solo un cartoncino con la scritta “Jasmin”.
Anche quando sembra non esserci più niente, quando si misura solo il vuoto e il nulla, c’è sempre una possibilità e riuscire a coglierla è già avere qualcosa.
Incipit dell'opera – Domenica di sera
– Ci vediamo domani, Timo. Ah! Dite agli amici che li ho aspettati, ma... stavo quasi per scordarmene, devo passare in redazione a prendere dei libri.
– Non si preoccupi, professore. Buonanotte, – dice quello sottraendo al ceppo braci con una paletta in mano, mentre un paio di braciole macerano sapori dentro una fondina lambita dalla fiamma e due clienti le tengono di mira dal tavolo lì accanto.
Un grappino al banco - anticipandosi gli esterni tra i baveri già alzati - e un uomo dall’aspetto giovanile esce dalla trattoria.
“La Patria del Friuli” in tasca, e la sua firma in calce all’editoriale quotidiano, e fuori trova la sequenza di stagione: la sentinella infreddolita che sorveglia l’atrio dell’ospedale militare, qualche persona che s’incrocia stringendosi le spalle, gli altri... chiusa la giornata se ne stanno in famiglia con le stufe accese.
Nevicherà? Il giornalista letterato alza lo sguardo – il cielo soppesa il fumo dei camini indeciso se appendersi a quegli appendiabiti insicuri o proseguire fino alle montagne per togliersi giù il manto. Chissà! L’uomo lascia il poetico fondale dei pensieri grigio-piombo e accosta l’andatura piegandola a sinistra – la quinta è chiusa dalle Grazie – rasenta la roggia che s’imbuca con una curva ai piedi della scala, sorvola la penombra dell’asfalto poi scricchiola le suole sulla ghiaia. Ammutolita, in centro al prato ovale, la fontana si specchia nella rotondità del gelo. Su in alto, l’angelo in silenzio sopra il campanile della piccola Patria impone con il dito il sostare della notte, ed ecco che il primo sfarinarsi bianco imperla il naso al nostro amico. Avverte così freddo che si fermerebbe per abbracciarsi a se stesso – se non fosse che sospende il passo per dare strada agli interni spenti sulla sagoma di un autobus che passano veloci sotto le pendici del Castello; poi sale verso l’arco dell’antica porta di mattoni. Sfiora tra le labbra il motivetto di una canzone popolare – arriva dalla radio del chiosco alle sue spalle attorniato da un giro di lampadine colorate – e giunto là sotto scruta quattro angoli pesti di buio. L’illusione di un duello ad armi pari per mutare il finale di una storia avviata da un politico che guarda interessato all’istituto regionale e arrotola il giornale allungando una stoccata contro un sicario prezzolato che salta su dal fondo – l’odore acre del piscio dei viandanti lo allontana non visto; l’altro... via a riferire!
Giudizio di Angelo Leva
La tecnica del racconto breve qui è ben interpretata anche se un po' debole nella chiusura. La costruzione di ogni racconto è complessa e paragonabile a quella di un giallo e per questo richiederebbe una maggior resa finale.
Schegge di Daniele Vergni
Una sola cosa era certa in quel momento, tutti noi volevamo uscire di li, la situazione era fuori controllo. Non potevamo stare ancora lì dentro, tutti stretti l’un l’altro, tutti insofferenti nei confronti degli altri.
Tutti in gabbia, soggiogati da scelte a cui non potevamo approdare, repressi e rabbiosi, una bomba ad orologeria chiamata pazzia.
Jack il rabbioso impulsivo aveva voglia di distruggere tutto, di controllare ogni cosa e lanciarla caoticamente in aria per poi farla cadere a caso e farla spezzare in mille frammenti che si sarebbero mischiati in maniera ancora più disordinata. Aveva il fuoco negli occhi e si muoveva in modo sconclusionato dirigendo gli arti su e giù, cercando cose che non c’erano, che non potevano esserci. Si rigirava e prendeva tutto con ostilità, distruggendo ogni cosa. Le sigarette frantumate e la voglia di fumare crescente, l’abat-jour decapitata con la testa penzoloni verso sinistra, non completamente staccata dal fragile corpo lesionato, soltanto una vertebra fuori posto, la radice stroncata.
Pochi attimi per dar posto al suo carattere e tutto era diventato un campo di battaglia con lui come unico sopravvissuto.
Proprio in quel momento Jack il paranoico fece il suo ingresso, sedendosi subito a terra, in un angolo, cullandosi freneticamente. Le mani, le une sulle altre, si sfregavano velocemente. Gli occhi correvano da sinistra a destra cercando strane presenze, fantasmi quotidiani. Le dita della mano sinistra si grattavano una guancia, scavando un solco che regalava attimi di speranza, poi subito verso la bocca per farsi serrare da denti che cercavano spigoli di unghie accorciate fino a sanguinare. Il terrore di essere scoperto, di far vedere lo stato delle cose, degli oggetti distrutti in camera, del suo viso sconfortato, dei suoi occhi instabili, gonfi di paura.
Appena le mani coprirono il volto iniziò a piangere in maniera affannosa, tanto da sembrare una preda in trappola, stretta da ferree morse intorno al collo. Pian piano il suo pianto si trasformò in una temibile risata. Il suo lancinante ghigno era inconfondibile. L’espressione così sardonica non poteva essere che quella di Jack il pazzo, il più temibile di tutti noi.
Giudizio di Stefano Martello
Più che schegge, frammenti, ritratti di persone; volti di sopravvissuti che cercano ragioni per affrontare la giornata. Racconti che – lo ammetto – mi hanno messo una certa inquietudine addosso, consapevole come sono del fatto che anche io, quando tira male, cerco un appiglio in un oggetto o in una nuova avventura che tanto nuova non è. Racconti sull’umanità, che è fragile e speranzosa. E un pochino inquieta.
***
L’età di Scipione [una specie di riepilogo].
Non si può vivere senza nemici, questo innanzi tutto. Senza di loro non ci saremmo noi, né senza
loro la grandezza di Roma. Noi siamo qui per loro e loro qui per noi, e solo così noi ci possiamo
riconoscere, non essendo loro.
Salute fratello, se stai bene sono contento. Io sto bene.
Ti scrivevo il giorno seguente la presa di Cartagine Nuova, appena terminata la distribuzione del
bottino e dei prigionieri tra le truppe, mentre gli uomini ancora esausti si concedevano a un meritato riposo dopo il veloce assedio, la battaglia, la strage. Per tutto il pomeriggio ci aveva tenuti impegnati l’assegnazione della corona murale che, come ben sai, non è faccenda da poco quando più di un soldato ne vuole il riconoscimento. Erano in due questa volta a vantarsi, un certo Quinto Tiberilio, centurione della quarta legione, e il soldato della fanteria di marina Sesto Digito, e entrambi promuovevano il proprio merito con un tale entusiasmo da infervorare l’animo degli uomini dei loro reparti. Non fossero bastati i soldati, anche gli ufficiali presero a farsi di parte, e Gaio Lelio si schierò per Digito e Sempronio Tuditano per Tiberilio. Mi divertono sempre questi impulsi arroganti come di cani svelti su un brandello di carne e quel giorno mi mostravano nel suo massimo splendore il cameratismo dei nostri guerrieri, assai proficuo in battaglia ma da disciplinare nel campo. Decisi infine per una giuria e con Lelio e Tuditano feci sedere Cornelio Caudino, il tuo amico, che si mise a mediare tra i due con la solita ilarità. Prese a chiamare Lelio Straminchia e l’altro Macinachiappe, riuscendo a mischiare sorrisi di scherno alle urla sui volti dei soldati. Si stabilì infine di donare una corona a Tiberilio e una a Digito, ai quali dissi di avere avuto la certezza che fossero saliti nel medesimo istante sulle mura della città. I due rimasero soddisfatti, gli altri si rasserenarono tutti.
Pensavo ancora alla loro veemenza quando, tornando alla tenda, avvicinai il recinto del mio lupo, bellissimo e sempre propizio. Vedevo rivoli di fumo alzarsi ancora dai bastioni della città e
scricchiolii di legno arso e nuovi piccoli crolli precipitare in qua e in là. Il più delle costruzioni era rimasto integro comunque. Stava intanto arrivando Lelio dal luogo dell’adunata camminando come infastidito, scrollandosi lo stivale e sembrava che avesse schiacciato qualcosa. Voleva sapere se mi fossi risentito per la sua partecipazione alla disputa; gli ho risposto se mi avesse mai visto preoccupato per l’animosità dei soldati. Ha sorriso allora e mi ha posto un’altra curiosa domanda che diceva essergli sorta in mente durante l’incoronazione del suo milite, se cioè fossero gli uomini a fare la storia o piuttosto la storia a fare gli uomini. Credo intendesse dire se siamo liberi nelle nostre scelte. Una bella questione, non trovi? Gli ho risposto che ci avrei pensato su.
Giudizio di Caterina Camporesi
Il racconto di tre momenti nella storia dell'uomo: l'origine di Roma e la necessaria presenza del male perché essa sia e divenga ciò che è; Bologna nel suo andamento quotidiano. Infine i nostri giorni che debbono accettare la presenza se non la convivenza con figure extraterrestri con la possibilità di eliminarle con un semplice gesto quotidiano: getti di urina. Il tono è erudito, leggero e ironico in alcuni casi scanzonato e al contempo riflessivo.
Incipit dell'opera – Cristine sedeva al computer come se stesse lavorando, ma in realtà guardava fuori dalla finestra, davanti a cui aveva posizionato il suo tavolo da lavoro. Questo le consentiva di osservare il volgere delle stagioni attraverso il cambiamento dell’aspetto degli alberi del giardino posto al centro di Place des Vosges. Aveva cercato a lungo quella casa e poi infine l’aveva trovata, in uno dei quartieri recentemente rinati di Parigi: il Marais. Hotel nobiliari e palazzi storici, certo, ma anche piccoli stabili dove, tra le viuzze del ghetto, un po’ alla volta erano arrivati artigiani e artisti. Girando per le strade potevi trovare piccoli atelier di sartoria, negozi di cappelli, librerie improbabili e cartolerie con colori pastello e a cera esposti in bella mostra in vetrina. Per non parlare del cibo, c’era solo l’imbarazzo della scelta. Dal ristorante russo kosher , con suoi pesci in salamoia ed i suoi blinis, fino alla sontuosa tavola libanese ed alle decine di pizze e fhelafel, che in fondo “ altro non erano che pizze ripiene di carne in versione araba”, così si ripeteva Cristine che aveva un certa quota di sangue italiano, come del resto molti francesi del Midì.
Gli alberi erano in fiore, non avrebbe saputo dire di quale specie di piante si trattasse, non era appassionata di botanica, ma il colore tra il viola ed il rosaceo delle infiorescenze le piaceva. Tutto quel colore le procurava come una leggera vertigine, uno stordimento, una allegria che le faceva comprendere che la primavera era finalmente tornata, dopo le nebbie e l’umidità dell’inverno.
In realtà quella piazza le piaceva anche perchè di lì era passata la Grande Storia. Caterina Dei Medici aveva fatto spianare i palazzi dopo la morte del re, suo marito, in un duello avvenuto proprio lì. Le piaceva quella regina italiana , spietata e macchiavellica nei comportamenti, ma ancora di più la sua fragile ed in qualche modo malinconica figlia , Margot. Cristine Blondel amava i processi e gli accadimenti storici, ben oltre il suo lavoro di insegnante in un liceo della capitale.
Aveva acquistato accessori colorati anche per il suo tavolo , un tappetino per il mouse rosso, evidenziatori multicolori ed anche un mazzo di tulipani rossi e gialli, che aveva appoggiato di fianco allo schermo del computer in un vaso di ceramica, anch’esso di colore rosso, regalatole da un’amica. La finestra e lo schermo del computer, erano in realtà due mondi simmetrici che si intersecavano, entrambi reali e mutevoli.
Aveva appena risposto ad una mail proveniente dall’Italia, con attenzione , ma anche con molta allegria. Non sapeva perché, ma tutte le volte che sul suo schermo appariva la sigla di quella università italiana, per lei sconosciuta fino a pochi mesi fa , diventava immediatamente di buon umore. L’occasione per entrare in contatto, era stato un progetto in cui erano state coinvolte varie scuole ed università dei due paesi, tra cui la sua.
Giudizio di Morena Fanti
Buona l’idea di raccontare l’evoluzione di un rapporto che inizia con l’attrazione sul piano intellettuale e ‘distante’ e prosegue sul piano fisico e ravvicinato.
I piani di comunicazione cambiano e il senso di realtà ha più presa sui protagonisti finché diventa tutto troppo ‘reale’ e Cristine deve fuggire da ciò che è diventato troppo coinvolgente fino a rappresentare una potenziale causa di dolore. Ben reso ma è tutto troppo “raccontato”. Sarebbe stato ancora più bello se i protagonisti avessero agito di più mostrandosi direttamente ai nostri occhi.
Incipit dell'opera – Cuore di plastica
Salgo una scalinata realizzando progressivamente qual è la meta. Tutto mi appare esageratamente grande. Accolgo le informazioni visive nel momento in cui le immagini si fanno insieme di particolari. E vedo cornici della realtà. Meglio identificate. Marmo… i gradini della scala. Cemento…la parete di un grattacielo. Vetro…la porta d’ ingresso. Un meccanismo elettronico mi permette di entrare e qualcuno chiede dove dobbiamo recarci. Io ed altre persone, comunemente entrando, ci soffermiamo, ascoltiamo e qualcuno inizia a parlare. Relativamente a informazioni su quale piano riferito a uffici a persone. Ad appuntamenti presi.
Seguo un tragitto unanime fino all’ ascensore. Fermatosi a diversi piani, silenzioso, veloce. Rapidamente al mio piano infilo un corridoio luminoso, bianche le pareti. Esaltata la prospettiva come di chi guarda dal basso o, meglio, da più lontano di dove mi trovo.
Vengo subito ricevuta. E’ un uomo che, dall’ interno dell’ ufficio, la porta accostata, da dietro una scrivania, mi vede e dice “entra, accomodati”. Un sedile a poltroncina mi accoglie e avverto che la gonna che indosso mi sta stretta. Esageratamente si ritira lasciando vedere le gambe oltre il confine di calze autoreggenti. Consentendo la visuale di slip in tessuto elastico a righe. La superficie nuda del mio corpo visibile supera varie proporzioni. Indosso una camicetta bianca sbracciata allacciata in vita. Non indosso il reggiseno. Un top trasparente e rosa emerge. E’ visibile un corpo liscio e stirato. Senza pieghe o cuscinetti. Senza ritorno. Una linea continua mi definisce. Sottile.
I miei capelli una massa enorme di fili lunghi oltre la vita. Attorcigliati, una treccia non ben composta, ma saldamente legata da più nastri. Di molti colori avvinghiati così da trattenere la massa dove la treccia è lacunosa e ribelle.
Giudizio di Angelo Leva
È uno scrivere che sa creare attesa nel lettore. Le parti nel racconto sono svelate nei tempi giusti così da non creare mai scontatezze. Purtuttavia l'incipit e la chiusura sono in difetto di forza attrattiva e anche nella parte centrale si potrebbe essere più concisi.
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