domenica 9 dicembre 2018

"Paradigma di esse" di Evaristo Seghetta Andreoli. Recensione di Cinzia Demi.


"Paradigma di esse" di Evaristo Seghetta Andreoli. Recensione di Cinzia Demi.

Leggendo Paradigma di esse ciò che resta è il desiderio di guardare oltre, lo stupore per ciò che in quell’oltre lo sguardo incontra, lo spaesamento per ciò che non può essere immaginato o per ciò che è passato e non torna, il sentirsi parte di un mistero che dai versi del poeta traspare e tocca l’esperienza di ognuno, facendosi fuoco e poesia.


Conosco Evaristo Seghetta Andreoli da qualche tempo. Discreto signore della poesia italiana, ha cominciato ad affacciarsi agli albori della contemporaneità dal 2013, pubblicando il suo primo libro nella maturità. Ho letto i suoi testi, l’ho incontrato a Bologna per la presentazione di un suo lavoro, e subito mi ha ispirato un senso di quiete e di pacata ma diligente armonia nell’atteggiamento che, mi pare, si conceda di tenere nei confronti del vivere e della poesia. La collana della casa editrice Passigli, che accoglie due dei suoi libri, venne fondata da Mario Luzi e ha al suo attivo alcuni dei nomi più rilevanti tra i nostri poeti. Evaristo si può dire che abbia così conquistato, in breve tempo, un posto di tutto rispetto all’interno di quest’arte bruciando molte tappe, dimostrando che, a volte, si può – dopo aver meditato e lavorato sulla propria interiorità – uscire allo scoperto più avanti, darle comunque voce significativamente e ottenere oltremodo ascolto.


Paradigma di esse      
                                                                                                                             

Costruire un libro di poesie sulla base del paradigma di un verbo sembra una cosa del tutto inusuale. Ma non lo è poi così tanto se il verbo in questione è il più utilizzato – e pur tuttavia, spesso, bistrattato, condannato, abusato – dai poeti, ovvero il verbo essere che trova la sua consistenza nel suo stesso mistero il quale, a detta di Heidegger, si raccoglie proprio nelle menti e nelle viscere dei poeti che arrischiando, diventano “i pastori dell’essere”: «Dal silenzio senza parole a lungo custodito, e dall’accurata chiarificazione dell’ambito in esso diradato, viene il dire del pensatore. Dalla stessa fonte viene il nominare del poeta.» (Poscritto a Che cos’è metafisica). Così D’annunzio, tanto per citare un esempio, divenuto sia il Vate che il Veggente nella proprio poesia, dirà che questa chiama a “una divina festa”, annuncerà quel che di straordinario c’è nell’esistenza “Io vi dirò quel che da voi s’attende, le vostre sorti auguste, la deità che in voi splende”.
Così, Evaristo Seghetta Andreoli, non sfuggendo alla lunga schiera di autori che sull’uso di tale verbo hanno fondato la loro poetica – anche se non sempre con accezioni positive – sfonda la quarta parete, e mette in scena una rappresentazione del se dove il lettore può provare – dimentico di trovarsi in un immaginario letterario – a immedesimarsi nell’antro più inconscio del poeta, e forse anche del proprio.  Fatto sta che, tutti i capitoli del libro che stiamo esaminando, Paradigma di esse, sono intitolati a coniugazioni del verbo essere – vale a dire ad altrettante dimensioni dell’essere – quali Sum ovvero su ciò che è, e che è sostanza del vivere; Es ovvero al confronto con l’altro, e con la mancanza di risposte sull’essere e il non essere delle cose; Fui ovvero su ciò che è stato e sulla dimensione a cui si appartiene, e dalla quale è impossibile uscire; Esse ovvero su ciò che fonda il rapporto tra futuro e presente, e sull’idea di poesia quale mezzo per aiutare a uscire dal nulla, dal possibile vuoto dell’esistenza. Ed è innegabilmente ambizioso il tentativo dell’autore, la visione che appronta tra le pagine del suo lavoro, il meticciato tra la volontà di non ridursi a semplice cantore e l’introduzione di una filosofia della poesia dove tutto sembra avere un suo peso specifico. Ciò che resta dopo aver letto questo libro è, in massima parte, il desiderio di guardare oltre, lo stupore per ciò che in quell’oltre lo sguardo incontra, lo spaesamento per ciò che non può essere immaginato o per ciò che è passato e non torna, il sentirsi parte di un mistero che dai versi del poeta traspare e tocca l’esperienza di ognuno, facendosi fuoco e poesia stessa. Fa impressione il numero di volte in cui ci troviamo di fronte alla parola colle - o collina - e alle dimensioni che questa rappresenta, leopardianamente dettando: “Conficcata sul seno della collina,/questa bandiera di luna a indicare/la via rettilinea delle tenebre” ;“Il colle non basta più: occorre lasciarlo, di mattina”; “Anche quando tornerà il mare/a coprirti e il vento/consumerà le tue pietre/… negli atomi dissonanti dei miei versi/resterà ancora traccia di te,/colle delle illusioni”; “Il campo di calcio pieno di sassi/tagliava a metà la collina:/uno spazio asimmetrico/feriva il cono sacro agli dei”; “C’era vento, quel giorno,/molto vento ad Est./Tutti noi, incamminati/verso il colle dell’augure,/sbandavamo,/in un pellegrinaggio/disarticolato, scomposto,”; “segnali opachi o assenti:/il cielo fugge distratto/insieme alle nuvole./Nemmeno un corvo, un rondone…/Là, sul colle dell’augure,/è calma piatta.//Il presagio è nel Nulla”; “Lasceremo questo colle,/percorrendo il sentiero del Nulla,/verso un luogo che non sarà/nemmeno un luogo”; “Ed ora, spero di sognare la collina/assediata dalla scolaresca degli scriccioli,/accolti solo dall’ultimo augure:/imparano, così, a volare…”. Il colle (o la collina) che è innegabilmente il luogo della poesia per Evaristo (quello di Montegabbione, dov’è nato e vive), fa parte del suo vivere quotidiano, diventa lo spazio e il tempo stesso in cui vivere, sentire, rivivere, stupirsi, progettare e immaginare ciò che possibilmente c’è oltre, assurge a totem delle preghiere, ad archetipo universale dei sogni.
Ma, Leopardi, compare anche nella dimensione della solitudine di un’infanzia e di un’adolescenza che si fanno ricordo e rimpianto, che danno contezza di un pessimismo metafisico, dove gli elementi si fanno correlativi oggettivi dei sentimenti come in Campane: “Sono rimasto qui, stasera…/Avrei potuto presenziare a non so che cosa,/invece sono rimasto ad ascoltare/le campane sul cielo della mia infanzia,/sul midollo della mia estate, e quell’azzurro sopra il campanile…”; come in Pomeriggio d’estate: “Oggi, seduto ad aspettare la canicola,/che che ci illude, che non arriva,/tra mattoni e sassi,/ho cantato le mie canzoni/ai vicoli,/ai gerani assolati./Gli usci murati dal Tempo, le finestra sbarrate/da grate contorte di ruggine./Pomeriggio di nuove attese e di vecchie paure…”. Elementi dunque che pescati dal reale danno voce a una poesia che, pur contenendo una rilevante vena malinconica di rimpianto, pur essendo impregnati di nostalgia e memoria, sono capaci di offrire anche squarci proiettati in un futuro ancora possibile di presagi: “E’ inconsapevolezza profonda/ciò che emerge: onda fluviale/raccolta nella cavità del cuore./Sgorga da lì/la voce del presagio/… da lì, la melodiosa voce, affidata/a labbra d’infante, che induce ad agire/o arrestare l’inesorabile divenire”.
Una poesia infine, quella dell’autore, costruita ad arte, con sapienza di stile dove i fonemi ricercati, la rima dosata, la voluta profusione d’immagini e l’imbastimento metaforico approdano a un meccanismo di resa – anche musicale e sensoria, oltre che significativa – che fanno di tutto l’impianto una voce a tratti dissonante, ma penetrante, nella realtà poetica contemporanea.


Alcuni testi da: Paradigma di esse

Pomeriggio d’estate

Oggi, seduto ad aspettare la canicola,
quella che ci illude, che non arriva,
tra mattoni e sassi, ho cantato le mie canzoni
ai vicoli, ai gerani assolati.
Gli usci murati dal Tempo, le finestre sbarrate
da grate contorte di ruggine.
Pomeriggio di nuove attese e di vecchie paure…

Cambia ancora la pelle il serpente
sul muro dell’orto. Tra i rovi,
le more annerite ricordano che già
un’altra estate sta passando.

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Presso la fontana

Il colle non basta più: occorre lasciarlo,
di mattina, quando schiamazza,
dietro l’ultima curva, il clacson della corriera.

Non c’è tempo, adesso, per pensare
alla sera, al ritorno: Ora, tutto intorno,
ogni cosa si muove veloce e cambia, cancella…

Cerco nella piazza il coraggio
per gestire le mia difesa, lì,
presso la fontana, dove scroscia,
fluida e sincera, la Verità.

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Colle delle illusioni

Anche quando tornerà il mare
a coprirti e il vento
consumerà le tue pietre;
quando, nella fornace estiva,
il sole avrà divorato i boschi,
polvere le ossa,
i pensieri evaporati
alle notti di luna piena,
negli atomi dissonanti dei miei versi
resterà ancora traccia di te,
colle delle illusioni.

****

Rossetto

Non so perché
non ti lasciai portar via l’oro
delle tazzine, quelle tazzine inglesi…
Forse perché avresti sottratto a me
lo spessore della porcellana
e quello delle tue labbra.

Eppure, da tempo,
non si usavano più,
dimenticate in soffitta…
La polvere aveva coperto
il rosso dell’amore
e la speranza.

****

Esse

Fammi sognare, ti prego,
fammi sentire che essere
non è poi così difficile,
che sta qui, nel cuore, questo tamburo
che accompagna la sacerdotessa di Cibele,
e la nostra non è ordinaria processione
di ebbre baccanti assetate del miele dei sensi.

Dammi memoria, per sentire ancora
il profumo della prima sigaretta,
in quella cantina di gatti e di fumo,
tra i ritagli di una terzina
di questa commedia incipiente
e il riso d’amore consumato
al primo tepore dell’esistenza.


Bologna, 9 dicembre 2018

Cinzia Demi

Evaristo Seghetta Andreoli (1953, Montegabbione - TR) . Di formazione classica-umanistica ha lavorato per quarant’anni come funzionario di un istituto di credito, vivendo in molte città italiane,  e coltivato i suoi studi letterari. Ha pubblicato: I semi del poeta (Polistampa Editore, 2013);  Inquietudine da imperfezione (Passigli Editori, 2015);   Morfologia del dolore (Interlinea Editore, 2015);   Paradigma di  esse (Passigli Editori, 2017). Fa parte dell’Associazione Culturale Pianeta Poesia di Firenze e dell’Associazione Tagete di Arezzo. Sue poesie e recensioni sulle sue opere sono apparse su riviste letterarie tra le quali: La lettura del Corriere della Sera, La Gazzetta di Parma, La Nazione, Il Resto del Carlino, Erba d’Arno, Retroguardia, Feeria, Il Ventaglio, Atelier. Con i suoi libri ha ottenuto riconoscimenti in alcuni importanti premi letterari italiani. Hanno scritto di lui, tra gli altri: Giuseppe Panella, Franco Manescalchi, Carlo Fini, Carmelo Mezzasalma, Camillo Bacchini, Michele Brancale, Valeria Serofilli, Franco Manzoni, Giuseppe Manitta, Eleonora Rimolo, Luigi Oldani.


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