martedì 16 luglio 2013

Racconti galluresi

di Sandro Serreri



Ho paura dessere felice


Ho paura d’essere felice! Sì, ho paura d’esser felice, perché quando lo sono – e quando lo sono? – sento di non essere me stesso, di non essere tormentato, ansioso, bisognoso, disorientato, e se non sono tutto questo non so chi sono, se non c’è né dolore né sofferenza non so chi sono.
Ho paura d’esser felice, perché la felicità m’impedisce di sentirmi solo e quando non mi sento solo non sento i miei cari vuoti, le mie carissime assenze. E, chi sono io senza i miei vuoti - questi vuoti! -, senza le mie assenze - queste assenze! -? Semplicemente, non sono!
Non sarei, perché non avrei nulla da scrivere, perché non avrei né desideri né sogni, perché non mi vedrei tra il giorno e la notte, come un esplorato senza né mappe né bussola.
Ho paura d’esser felice, se questo significa non dover lottare, non dover camminare, non dovermi amare sino alla follia.
Se questo è il prezzo, allora, non voglio essere felice!
Se la felicità mi rendesse sordo e muto, paralitico ed ebete, allora, non voglio essere felice!
Se la felicità m’impedisse di osservare ciò che non si vede e di udire ciò che non si sente, perché ci sono tantissimi altri colori dentro i colori e ci sono moltissimi altri suoni dentro i suoni, allora, non voglio essere felice!
Se la felicità mi chiedesse il sacrificio titanico di non più estraniarmi e così non poter più esser visto come strano, allora, non voglio essere felice!
Se la felicità m’ingannasse facendomi assaporare il vino della tranquillità, allora, non voglio essere felice!
Se la felicità m’imponesse di non esser più straniero né qua né là né in nessun altro luogo, né terrestre né metafisico, allora, non voglio essere felice!
Se la felicità mi ordinasse di non abitare più in queste mie stanze - ah, le mie stanze! -, allora, non voglio essere felice!
No, non la voglio questa felicità!
No, non lo voglio quest’oro!
No, non lo voglio questo sole!
Ridatemi i miei colori, le mie musiche, le mie parole!
Restituitemi tutto! perché io possa andar via e, forse, esser felice.

Tempio Pausania, martedì 16 luglio 2013




-->
Dentro i confini della notte




Spensi la luce sui miei occhi accesi e ammutolii la mia lingua mentre tutt’intorno la sera spalmava un nero-blu d’una tristezza inimmaginabile.

Cercai, allora, di allungare il poco sguardo rimastomi appiccicato, ma non riuscii ad intravedere se non una fessura dalla quale una luna, stanca ed invecchiata, sbirciava nel ridicolo tentativo di cogliere l’istante, giusto ed esatto, del passaggio tra il rosso, il viola e l’oscurità.

Mi sporsi più avanti, molto avanti, il più avanti che potei, ma, ahimè! inutilmente. Gli occhi erano bui e la lingua incollata tra le corde ed i denti, tra la voce e le labbra e queste d’un pallore da far così paura che nulla, ma proprio nulla, poteva farle risuonare.

Una pesante coltre si librò lungo gli spazi interdetti come uno stormo di uccelli migratori. Sollevai, a questo punto, il naso verso l’alto deglutendo una saliva al sapor di mirtilli.

Ebbi, solo allora, la possibilità di fantasticare un pochino sui pochissimi colori rimasti incollati sulle ombre merlate assai ricche di brividi e di paure inconfessabili.

Mossi lentamente il mio corpo in direzione opposta decidendo di fare una camminata sui tetti stando, però, ben attento a non lasciarmi ipnotizzare dai gatti e dai gufi, dai grilli e dalle guardie componenti la ronda notturna.

Sotto, le vie erano bellissime e desolate.

Saltando e volando ebbi la buffa sensazione di essere libero, ma non era libertà, ma, piuttosto, quel che si prova quando si assapora, sulla punta della lingua, un solo piccolissimo granello di zucchero e, poi, la sua dolcezza resta per un po’ di tempo sospesa tra gusto e ricordo.

Rimasi immobile, come una lucertola al sole, permettendo alla notte di strisciare lungo la mia pelle e così lasciarmi addosso un profumo indimenticabile.



Tempio Pausania, domenica 14 luglio 2013.



-->
A piedi nudi sulla sabbia





Siamo come l’infinito eterno che passa in un baleno sulla spiaggia dove nessuno cammina, ma tutti annusano l’aria con la speranza che il buon mattino sprema i suoi agrumi versandoli su seni ben disposti.

I bambini giocano con la sabbia e le buche sono come le voragini che abbiamo dentro, ma loro - solo loro! – non hanno né paura né orgoglio, questo, poi, lo abbiamo solo noi, noi destinati a osservarli disperati, perché sappiamo che qualcuno di loro, presto o tardi, vi precipiterà dentro e, allora, sarà la fine, loro e nostra.

Che importanza ha, poi, se le conchiglie sull’arenile non disdegnano d’esser catturate ed imprigionate dentro barattoli di latta o di vetro. Queste, suonano e cantano voci lontane.

L’incanto ed il tremolio della sera sopraggiungono improvvisamente sorprendendo i castelli di sabbia e le orme degli innamorati. Le ombre si rifugiano, allora, sotto gli ombrelloni e mentre il sale evapora ed in lontananza giochi meravigliosi di luce confondono i colori e le ultime sensazioni, qualcuno ne approfitta per rubare l’orizzonte che, ormai tinto di stelle, appare grande come il mare che ha, come sempre, a quest’ora, un brivido, un brivido di morte assai prematura.

La solitudine prende il posto della risacca portandosi dietro tutto il peso di quel che è stato smarrito nello spazio dorato e ancora un po’ celeste.

Il nero, poi, pervade i pochi lembi rimasti scoperti e la paura da fanciulli che non vogliono dormire inonda quello strano ed incomprensibile sentimento che emerge quando, finalmente, t’accorgi che tutto è finito.

Ci si ritrae, allora, e ci si rannicchia come un paguro minacciato e, la testa tra le ginocchia ossute, attendere, pazientemente, e sognare, piacevolmente, di poter contemplare, anche domani, il giorno.



Tempio Pausania, sabato 13 luglio 2013.


Nessun commento: