sabato 15 luglio 2023

Un vero ponte per il presente attraverso la memoria

recensione di Enrico Maria Guidi



Ormai da tempo il genere del racconto non trova più il favore del pubblico, sostituito da una marea di romanzi, se così li si vuol chiamare, spesso mono-genere, polizieschi, fantasy o anche banali resoconti ancora attaccati a un certo neorealismo, che nulla hanno, nonostante le vendite e i premi di taluni, se non pochi e per lo più non italiani, da dire, né da un punto di vista della trama, che poi non è ciò che fa di uno scrivente uno scrittore, e tanto meno per la novità della forma, della costruzione, insomma dello stile. Non è cosa nuova, già Benjamin lo notava nel suo Angelus novus a proposito della capacità ormai perduta di narrare e dell’ormai offuscata figura del narratore: “Il narratore – per quanto il suo nome possa esserci familiare – non ci è affatto presente nella sua viva attività. È qualcosa di già remoto, e che continua ad allontanarsi. (…) Questa distanza [dell’osservatore o del lettore] e questa prospettiva ci sono imposte da un’esperienza che abbiamo modo di fare quasi ogni giorno. Essa ci dice che l’arte di narrare si avvia al tramonto. Capita sempre più di rado d’incontrare persone che sappiano raccontare qualcosa come si deve: e l’imbarazzo si diffonde sempre più spesso quando, in una compagnia, c’è chi esprime il desiderio di sentir raccontare una storia. È come se fossimo privati di una facoltà che sembrava inalienabile, la più certa e sicura di tutte: la capacità di scambiare esperienze”.

La capacità di scambiare esperienze”, questa è una, non la sola, facoltà della letteratura e della narrazione, non tanto con un intento moralistico, ma come compartecipazione alla vita, al suo andare e divenire. Non a caso Maria Lenti, solitamente capace di esprimersi al meglio nella poesia, ha voluto intitolare questa sua raccolta di prose, dove si alternano brevi racconti, impressioni, spunti critici, Apologhi in fotofinish, dove l’apologo nella nostra tradizione è un breve racconto con fini in qualche modo pedagogici e tutti ricorderemo quello di Menenio Agrippa riportato da Livio e quelli famosi e più moderni di Leon Battista Alberti. Ma questi racconti molto brevi, poiché è soprattutto a quelli che faccio riferimento, hanno una caratteristica che supera il pedagogico e si avventurano nella dimensione di una condivisione dell’esperienza operata tramite la memoria, e che, non so perché e consapevole della differenza di genere, mi hanno ricordato quelli contenuti nella raccolta Il mio secolo di Günter Grass.

Non l’intenzione di “fare della morale” quindi, né della psicologia, anzi proprio la forma concisa del racconto in Maria riesce a sottrarre all’analisi psicologica la memoria sollecitando la memoria stessa di chi legge verso luoghi dell’infanzia, forse, o dell’immediato giorno prima, magari durante la visita a una amica malata (Milena) e minata dall’incubo di un male che cancella, appunto, la memoria, costituendosi come esperienza vissuta e sollecitando il lettore stesso a raccontare, a trasmettere parte della propria esistenza, e questa assimilazione sembra avere la necessità di possedere uno stato di rilassamento e di tranquillità che oggi è sempre più raro.

La memoria è anche il tramite, il media, che accompagna e permette il passaggio dall’età infantile o comunque adolescenziale, a quella adulta, dove se prima certe sensazioni si rivelavano come incomprese, forse istintive, anche segnate dall’inevitabile tensione verso la trasgressione, come nel caso della musica proibita nel collegio delle suore per cui “Alcune di noi, il divieto era già un invito a violarlo si infilavano in una stanza ‘riservata alle reverende’. Qui, io sempre in mezzo alle più grandi se c’era da ‘beccare’ qualche cosa, mi rannicchiavo tra il muro e il trespolo su cui stava come un monumento un piccolo parallelepipedo magico, una Telefunken”, poi si comprendono nella loro essenza: “Ho capito una volta cresciuta”, che la musica si è “Trasformata in una necessità: come valenza si rappresenta ogni mattina” (La radio), segnando il limite tra un’età e l’altra, ma pure tra il silenzio, l’incomprensione, e la ricerca di una propria voce che possa gettare uno sguardo personale sul mondo.

Così è pure per quei sentimenti che si avvertono e sentono durante l’infanzia a ai quali non si sa dare un nome, anzi non si riesce proprio a capire che essi sono parte di noi, li si accetta così per quello che sono, li si vive, per poi tornare alla memoria in altre età e acquistare il senso vero di ciò che sono. È il Caso di Gelosia, là dove l’adulto ricorda con gioia e malinconia la gita con i propri genitori in bicicletta verso la campagna, la novità e sorpresa di una biscia che attraversa la strada e l’insorgere di quello strano stato dell’essere che lo fanno sentire estraneo e compartecipe al tempo stesso del rapporto tra i due amati genitori, ma che solo poi, nel ricordo maturo, sa prendere un nome, una definizione, gelosia appunto.

La Lenti sa però andare oltre e analizzare e riscoprire zone del sentimento che forse erano rimaste sepolte nella memoria infantile, ma non, ripeto, come psicologismo, ma come sensazione che viene di nuovo vissuta, rielaborata e trasmessa come esperienza viva al lettore. E ancora di più la vena della vita, il senso di trasmettere un’esperienza e di far riflettere su di essa, emerge quando come nel racconto Visite, è proprio attraverso la narrazione di un altro, una suora, che il passato torna presente, non come sequenza di eventi, ma come una corrente di sensazioni e emozioni, forse anche di rimpianti, che si rivelano come agenti nel momento vissuto dell’attualità, che ritorna: “La visita a suor Carla mi ritorna nella ariosità verso mio padre, nel suo muro verso mia madre. Ogni volta, opponendole un muro di non ascolto, esco con la sensazione che, davvero, lei sia stata innamorata del mio uomo straordinario; che quel lontano amore, magari nemmeno vissuto o non ammesso o non nominato come tale, abbia lasciato indietro – dietro il muro dei decenni di tempo – l’amicizia, solare e remota, di mia madre cui riserva solo un accenno”.

C’è un bisogno, un’urgenza, di attualità in Maria Lenti, di un rendere presente il passato, non come nostalgia, ma come atto in divenire, di agire. Pure nei pezzi che non sono propriamente racconti, ma piccoli saggi questa necessità emerge. Per esempio ne La Muta in ascolto, oancora di più nel bel tratteggio della figura della madre di Raffaello Sanzio, Magia Ciarla, la madre di Raffaello, dove ciò che sembra interessare la scrittrice non è il dato biografico in sé, tra l’altro totalmente insufficiente, nulla o quasi si sa di lei, né l’esaltazione della donna dai doveri prefissati dalla tradizione in quanto madre, ma quella della donna, della madre che ha sentito, magari intuendone la genialità, l’amore materno verso colui che era sostanzialmente un bambino, non madre e donna succube di una cultura patriarcale, ma costruttrice del destino del figlio. Magia lo ha “allattato (…) lo ha tenuto fra le braccia, avrà immerso il gomito nell’acqua per l’assaggio della temperatura (…) lo ha vestito: prima la camicia bianca cucita in casa, la maglietta di lana fatta ai ferri(…)”, decide per lui una fatto più grandicello “colori, stoffe, fattura, cappello”. E di tutto ciò che poteva essere solo un vago ricordo per il pittore una volta maturo, vista la scomparsa della madre quando era ancora in giovane età, poteva rimanere poco, un nulla forse, magari supplito dal rigoroso magistero paterno, e invece “Magia Ciarla è restata, silente, dentro Raffaello: con i suoi segni e la sua impronta, indefinibili, indeterminabili, ma non negabili o da ignorare come se non fosse esistita”. La memoria, il ricordo non è solo sensazione, è qualcosa di palpabile che rimane, che si fa presente, e che ha la capacità di suggestionare e insegnare, fornire una lezione di vita, anche quando non appartiene alla sfera personale, ma è recepito e accolto attraverso il racconto di altri.

E qui torna Benjamin che in una frase riassume tutto quanto è stato scritto qui sopra e che bene si adatta a Maria Lenti e al suo Apologhi in fotofinish, a questa narratrice presa a prestito dalla poesia, ma che ha fatto di questi pezzi un vero ponte per il presente attraverso la memoria; ancora da Angelus novus: “Il narratore prende ciò che narra dall’esperienza – dalla propria o da quella che gli è stata riferita e lo trasforma in esperienza di quelli che ascoltano la sua storia”.

Enrico Maria Guidi

1 commento:

Marilù ha detto...

Cara Maria Lenti, NON è assolutamente vero che il genere del racconto NON trovi più il gusto favorevole del pubblico specie se chi ti commenta pare NON conoscere le NUOVE AVANGUARDIE in cui si assiste ad una rinascita di sperimentazioni di linguaggi e dove attività di intellettuali chiamati ora ad interpretare la società della ricostruzione e dello sviluppo si pongono l'obiettivo principale di perdere la polemicità aggressiva e spettacolare per giungere invece, magari a più proficue collaborazioni per l'industria culturale e dei mass media. Queste sono esperienze arricchite con tematiche antropologiche e soprattutto PSICOANALITICHE serie per un impegno democratico che hanno promosso lo smontaggio dei codici culturali tradizionali alla luce delle teorie strutturalistiche e freudiane e questo è un dato credo importante da rendere noto a chi ti commenta ed anche a te. Buona fortuna. Marilù