Michele Caccamo, Con le mani cariche di rose, elliot edizioni 2019
recensione di Emanuele Aloisi
Nel
romanzo Con le mani cariche di rose l’autore sembra ripercorrere la
biografia, illustrandone la poetica, di Renée Vivien, poetessa londinese di
fine ottocento vissuta prevalentemente a Parigi, dove morì alla giovane età di
trentadue anni per una pleurite, favorita dallo stato anoressico (11 giugno
1887-18 novembre 1909). E in parte lo fa, attraverso riferimenti a opere e
poesie riportate, usate come marcatori temporali, come filo conduttore avvolto
a un nucleo di contenuti ed emozioni. Vita e morte le estremità del filo,
intrecciate in un misterioso dialogo, dipanate dall’illogicità di un
sentimento: l’amore. Perché l’amore non ha logica, se è amore, e non ha
pregiudizi, né un credo senza un Dio, la religione degli uomini che legano la
libertà. Ma ha l’odore dei fiori, le rose, di cui si riempiono le mani, e le
cui impronte sono molteplici.
Un
libro dedicato alla Musa delle violette, alla Lesbo del 1900, che nella vita,
come del resto nell’opera, si era a sua volta ispirata a Saffo, avendola
tradotta. Si era ispirata al tiaso, al
culto di Afrodite, in un tempo in cui non era lecito, e forse non lo è ancora; in
cui il viola veniva ad assumere tutt’altro significato rispetto a quello di un
colore, in un quadro paideutico sfumato, analogamente alla pederastia maschile.
Michele
Caccamo con la poesia di Vivien, e il viola del suo platonico amore per Violet,
del sensuale, felice e travagliato amore per altre donne, infrange le barriere
del tempo, tornando a Saffo, e alla celebrazione di una poesia intimistica, non
corale, per seminare nel cuore e nella mente di chi lo legge, quei semi di
pace, di non giudizio o pregiudizio, di fratellanza e uguaglianza, di cui è
meritatamente portavoce, il seme di un amore universale.
E
anche questa volta, come con altri editi, con altre storie, lo fa dopo essersi immerso nelle parole, oserei dire nella carne,
di un’altra nuova donna, portandone all’aperto la fragranza dell’anima, come se
fosse un fiore regalato al vento. Poiché l’anima, come la poesia, non va
incontro al fenomeno del “putrescere” semmai alla mortificazione, all’incisione
di cicatrici, di gioie dolori e di ricordi: “Ecco
la notte: vado a seppellire i miei morti,/i sogni, i desideri, i dolori, i
rimorsi,/ tutto il passato. Vado a seppellire i miei morti.”(R. Vivien).
Un
filo, quello tessuto nel romanzo, che si tinge di ricercate cromie
linguistiche, tipiche dell’autore, e dell’alternante naturalezza delle fibre poetiche.
La
prosa poetica di Michele Caccamo, in armonia con Vivien, diventa a tratti simbolica,
capace di far compiere al lettore un viaggio nella profondità di un mare senza
zavorra di ragione. Anche se i luoghi esistono, hanno la sabbia di Costantinopoli,
o l’acqua del Tamigi e della Senna, c’è un abisso senza luoghi in ciò che è
narrato: “è un tempo la Natura, dove a
volte parole/ escono confuse da viventi pilastri/ e che l’uomo attraversa tra
foreste di simboli/ che gli lanciano occhiate familiari” (CharlesBaudelaire-Corrispondeze-Le
Fleurs du Mal).
Ed
è con la Natura, o l’oggettivazione di un soggettivo naturale, che l’autore fa
riemergere in superficie l’importanza di una filosofia sensibile:
“L’amore è la
risorsa per la sopravvivenza, è una giacenza di vita. E il suo ricordo, a
volte, vale quasi il tempo vissuto. Anche il dolore, volendo ti dà dei
vantaggi. Non ha importanza chi tu abbia amato, o chi ti abbia amato, che tu
abbia gioito o pianto. Non sono importanti i corpi o le spiegazioni, ma è
l’estasi, è la sublimazione dell’amore che dà a un’anima la sua immortalità”.
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