recensione di Gualtiero De Santi
V’è
alcunché di singolare nel racconto breve, una ben caratterizzata
performatività. Per chi lo frequenti e soprattutto ne pratichi la scrittura, è
ormai un punto d’obbligo assumere concisione e misura esattamente bilanciate.
Con l’uguale criterio, le frasi sezionate e centellinate anche nella previsione
di una conclusione vicina rispondono a una varietà di criteri adunativi e di
genere, come è evidente che sia: gli uni legati ai ricordi e, diciamo così, alle vicissitudini di un più o meno ordinato orto
domestico; gli altri con le marcature
formali per esempio di un articolo che assuma corso narrativo; altre ancora sospinte
a un’escavazione intimistica e
psicologica.
Impigliate
in una precipua scansione formale, queste narrazioni beneficiano di un rapporto
tonale con la propria materia acquisendo un po’ per volta la declinazione e il
passo veloce delle short stories
di
tipo anglosassone. In Italia se n’è avuto un bell’esempio con due eccellenti
libri di Manuel De Sica, Il mio diavolo
custode (1996) e La visita notturna (2004):
il primo virato su una lignée che da
E.A. Poe conduce a Stephen King tutt’attraverso venti “esercitazioni crudeli”;
il secondo modulato su una sorta di pattern
all’inglese tra flemma, sarcasmo e mistero. In altri casi, come s’è detto, entra
in campo un modello giornalistico (tipo
quello di Vietato sporgersi dai
finestrini del trio Paterlini-Mietto-Monini, resoconti di “notizie” apparse su “Linus” dal 1983 al 1987).
Se
si va indietro nel tempo, i due archetipi nostrani potrebbero essere i
partitari paradossali di Achille Campanile e soprattutto le storielle di
Zavattini (con, in entrambi i casi, antecedenze europee in un Cami e nei suoi
grotteschi “teatrali” per “investigatore deduttivo”, oppure nei cuentos y chascarillos dell’andaluso Valera
e nelle greguerias di Don Ramón de la
Serna). Naturalmente il parterre è di
molto più affollato né si riuscirebbe a darne qui conto. Ma adesso si è
aggiunta alla estrosissima brigata l’urbinate Maria Lenti che fa delle proprie
pagine un canovaccio di presenze a un proprio vissuto e a una immediatezza
intelligibile e senza maschere.
Una
sua prima prova nel cosiddetto genere “breve” – o una delle prove d’esordio ove
si considerino antecedenti apparizioni in riviste e volumi collettanei – potrebbe
indiziarsi in Due ritmi una voce (Il
Vicolo, Cesena 2006), e in questo caso l’ordine di significato ha imposto una
forma leggermente ampliata. Arriva adesso Certepiccole lune (FaraEditore, Rimini 2017), uscito tra i vincitori dal
concorso Narrabilando che prevedeva in premio il diritto di stampa, il che è
avvenuto con un “libretto” editorialmente ben strutturato, agevole a leggersi e
a tenere in mano (così che la lettura possa farsi magari anche camminando e in
situazioni dinamiche peraltro in accordo con il brio e i quadri di movimento dell’autrice).
Le
motivazioni che hanno accompagnato le scelte della giuria dicono di una
precisione che si lascia apprezzare nel processo compositivo e insieme di una
bella fluenza di pensieri e emozioni. La scrittura di Maria Lenti, come del
resto fa avvertiti la prefazione, è nitida e accattivante. Ma essa non è
unicamente un dono di intelligenza e di uno stato di grazia, sebbene di una
tecnica e di una percezione sensibile. Ora non fa dubbio che una linea formale appaia
necessaria anche per il racconto breve, non prefigurabile a priori, non
ordinata da qualcosa di sistematico quanto all’opposto filtrata da una lestezza
e spontaneità che si aprono alla parsimonia espressiva come al discorsivo (un
discutere con ciò che rimane fuori di sé ma anche nel dialogo interno con la
propria storia e le proprie radici).
Lenti
scrive agili testi, abbozzi di novelle, miniature psicologiche e generazionali;
evoca le attrici dei film della giovinezza, la Vitti dell’incomunicabilità, la
tragica per quanto ironica Moreau di Jules
et Jim nel mentre che intona Le
tourbillon. La sua è una trama di piccoli eventi e di profili cordiali tuttavia
non libera da punte d’angoscia. Il fatto è che in lei conta un sentire
originale, meglio dell’origine (l’infanzia, la famiglia, le prove e le scoperte
della vita), che impregna di sé le situazioni e che, allora che il racconto
prende corpo e tende a fissarsi, si organizza in dato formale. Dunque, forma e
sentire o, meglio, sentire e forma. Un’urgenza di contenuti palese (a
differenza di tantissimi giocolieri che si sperimentano negli esperimenti di
brevità), che fa appello all’esperienza e al sentimento di un ingresso nel
mondo, quando di ciò si tratti, e della collegata riflessione su casi che
divengono le costanti di una educazione sentimentale.
Quello
stile colloquiale e diretto, che riesce
ad essere contemporaneamente intimo, e che vive i molti passaggi di un io
femminile pur tentato di sondare – e assumere, almeno nella finzione narrativa
– anche il lato d’ombra (o di luce) maschile, deve infine darsi le regole di un
ritmo, di una modularità agile e gustosa, tuttavia non fittizia ma naturale, di
una lingua efficace nel determinare la riflessione e nel ricomporre, senza
troppo darlo a vedere, la pura verità
della memoria, che è quanto infine riempie l’agenda narrativa. Sullo sfondo ci
sono l’incompletezza e le paure magari piccole della realtà, ma in primo piano
si muovono personaggi che tentano di uscire dall’incertezza per raggiungere
quella temperatura che è la compostezza del mondo e la compiutezza dell’esistere.
Ora
stile discorsivo, naturalezza, una brevità che contenga materia oggettiva ma
anche impeto lirico (va da sé rilevare che Maria Lenti è una riconosciuta
autrice di versi), presuppongono un medium linguistico ben trattato piuttosto
che retoricamente sorvegliato. Un lavoro sulla lingua d’uso che passa nella
lingua scritta, quale peraltro si certifica nel testo su I miei quattro lettori. Nel quale un personaggio discute di varia
letteratura e amenità ma mostra di non aver affatto compreso lo sforzo di
elaborazione linguistica (“Non un cenno, né dei prescelti né di altre pagine,
sulla lingua, quella lingua su cui ho lavorato perché fosse efficace,
significativa nel formare la riflessione e proiettarla oltre”, osserva la
scrittrice).
Infine,
quell’addestramento formale che si svolge alla luce delle piccole, lenticolari “lune”
del libro gioca su un piano di obbligata e salutare stringatezza di pensiero tanto
quanto di scrittura. Il risultato è una compostezza che non si priva della
necessaria esuberanza, un lavoro di cesello nell’intreccio tra vissuto e
narrato, tra il paesaggio interiore ritrovato e una complessa coscienza del
tempo.
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