venerdì 10 agosto 2018

Le “Piccole lune” di Maria Lenti



recensione di Gualtiero De Santi



V’è alcunché di singolare nel racconto breve, una ben caratterizzata performatività. Per chi lo frequenti e soprattutto ne pratichi la scrittura, è ormai un punto d’obbligo assumere concisione e misura esattamente bilanciate. Con l’uguale criterio, le frasi sezionate e centellinate anche nella previsione di una conclusione vicina rispondono a una varietà di criteri adunativi e di genere, come è evidente che sia: gli uni legati ai ricordi e, diciamo così, alle vicissitudini di un più o meno ordinato orto domestico; gli  altri con le marcature formali per esempio di un articolo che assuma corso narrativo; altre ancora sospinte  a un’escavazione intimistica e psicologica.
Impigliate in una precipua scansione formale, queste narrazioni beneficiano di un rapporto tonale con la propria materia acquisendo un po’ per volta la declinazione e il passo veloce delle short stories di tipo anglosassone. In Italia se n’è avuto un bell’esempio con due eccellenti libri di Manuel De Sica, Il mio diavolo custode (1996) e La visita notturna (2004): il primo virato su una lignée che da E.A. Poe conduce a Stephen King tutt’attraverso venti “esercitazioni crudeli”; il secondo modulato su una sorta di pattern all’inglese tra flemma, sarcasmo e mistero. In altri casi, come s’è detto, entra  in campo un modello giornalistico (tipo quello di Vietato sporgersi dai finestrini del trio Paterlini-Mietto-Monini, resoconti di “notizie” apparse su “Linus” dal 1983 al 1987).
Se si va indietro nel tempo, i due archetipi nostrani potrebbero essere i partitari paradossali di Achille Campanile e soprattutto le storielle di Zavattini (con, in entrambi i casi,  antecedenze europee in un Cami e nei suoi grotteschi “teatrali” per “investigatore deduttivo”, oppure nei cuentos y chascarillos dell’andaluso Valera e nelle greguerias di Don Ramón de la Serna). Naturalmente il parterre è di molto più affollato né si riuscirebbe a darne qui conto. Ma adesso si è aggiunta alla estrosissima brigata l’urbinate Maria Lenti che fa delle proprie pagine un canovaccio di presenze a un proprio vissuto e a una immediatezza intelligibile e senza maschere.
Una sua prima prova nel cosiddetto genere “breve” – o una delle prove d’esordio ove si considerino antecedenti apparizioni in riviste e volumi collettanei – potrebbe indiziarsi in Due ritmi una voce (Il Vicolo, Cesena 2006), e in questo caso l’ordine di significato ha imposto una forma leggermente ampliata. Arriva adesso Certepiccole lune (FaraEditore, Rimini 2017), uscito tra i vincitori dal concorso Narrabilando che prevedeva in premio il diritto di stampa, il che è avvenuto con un “libretto” editorialmente ben strutturato, agevole a leggersi e a tenere in mano (così che la lettura possa farsi magari anche camminando e in situazioni dinamiche peraltro in accordo con il brio e i quadri di movimento dell’autrice).
Le motivazioni che hanno accompagnato le scelte della giuria dicono di una precisione che si lascia apprezzare nel processo compositivo e insieme di una bella fluenza di pensieri e emozioni. La scrittura di Maria Lenti, come del resto fa avvertiti la prefazione, è nitida e accattivante. Ma essa non è unicamente un dono di intelligenza e di uno stato di grazia, sebbene di una tecnica e di una percezione sensibile. Ora non fa dubbio che una linea formale appaia necessaria anche per il racconto breve, non prefigurabile a priori, non ordinata da qualcosa di sistematico quanto all’opposto filtrata da una lestezza e spontaneità che si aprono alla parsimonia espressiva come al discorsivo (un discutere con ciò che rimane fuori di sé ma anche nel dialogo interno con la propria storia e le proprie radici).
Lenti scrive agili testi, abbozzi di novelle, miniature psicologiche e generazionali; evoca le attrici dei film della giovinezza, la Vitti dell’incomunicabilità, la tragica per quanto ironica Moreau di Jules et Jim nel mentre che intona Le tourbillon. La sua è una trama di piccoli eventi e di profili cordiali tuttavia non libera da punte d’angoscia. Il fatto è che in lei conta un sentire originale, meglio dell’origine (l’infanzia, la famiglia, le prove e le scoperte della vita), che impregna di sé le situazioni e che, allora che il racconto prende corpo e tende a fissarsi, si organizza in dato formale. Dunque, forma e sentire o, meglio, sentire e forma. Un’urgenza di contenuti palese (a differenza di tantissimi giocolieri che si sperimentano negli esperimenti di brevità), che fa appello all’esperienza e al sentimento di un ingresso nel mondo, quando di ciò si tratti, e della collegata riflessione su casi che divengono le costanti di una educazione sentimentale.
Quello stile colloquiale e  diretto, che riesce ad essere contemporaneamente intimo, e che vive i molti passaggi di un io femminile pur tentato di sondare – e assumere, almeno nella finzione narrativa – anche il lato d’ombra (o di luce) maschile, deve infine darsi le regole di un ritmo, di una modularità agile e gustosa, tuttavia non fittizia ma naturale, di una lingua efficace nel determinare la riflessione e nel ricomporre, senza troppo darlo a vedere, la pura  verità della memoria, che è quanto infine riempie l’agenda narrativa. Sullo sfondo ci sono l’incompletezza e le paure magari piccole della realtà, ma in primo piano si muovono personaggi che tentano di uscire dall’incertezza per raggiungere quella temperatura che è la compostezza del mondo e la compiutezza dell’esistere.
Ora stile discorsivo, naturalezza, una brevità che contenga materia oggettiva ma anche impeto lirico (va da sé rilevare che Maria Lenti è una riconosciuta autrice di versi), presuppongono un medium linguistico ben trattato piuttosto che retoricamente sorvegliato. Un lavoro sulla lingua d’uso che passa nella lingua scritta, quale peraltro si certifica nel testo su I miei quattro lettori. Nel quale un personaggio discute di varia letteratura e amenità ma mostra di non aver affatto compreso lo sforzo di elaborazione linguistica (“Non un cenno, né dei prescelti né di altre pagine, sulla lingua, quella lingua su cui ho lavorato perché fosse efficace, significativa nel formare la riflessione e proiettarla oltre”, osserva la scrittrice).
Infine, quell’addestramento formale che si svolge alla luce delle piccole, lenticolari “lune” del libro gioca su un piano di obbligata e salutare stringatezza di pensiero tanto quanto di scrittura. Il risultato è una compostezza che non si priva della necessaria esuberanza, un lavoro di cesello nell’intreccio tra vissuto e narrato, tra il paesaggio interiore ritrovato e una complessa coscienza del tempo.


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