Maria Lenti, Certe piccole lune, Fara Editore, 2017
Si tratta
di esperienze brevi o brevissime, raccontate con una nitidezza ed una
precisione che rivelano una straordinaria capacità di osservazione del mondo
esterno e di analisi psicologica di sé e degli altri.
I racconti, questa è l'impressione, crescono su una
serie veloce di appunti che catturano le situazioni più varie, e dell'appunto
conservano l'eco nella essenzialità della forma. La scrittura attentissima e
concentrata, insofferente della banalità nelle scelte lessicali, con l'uso
talvolta di termini rari e insoliti, di tautologie apparenti, in realtà
sottilmente espressive (“… funzioni di supporto, di aiuto, di
soccorso…”, pag. 44; “… camminata… etologica, etopeica…”,
pag. 84; “… Il Poeta e la Signora li so ricchi di nascita, di crescita, di
vivenza…”, dove il termine rarissimo, dopo le maiuscole dei nomi comuni
che designano i personaggi e dopo la solennità della consonanza
sdrucciola, diventa la fulminante
fotografia dello snobismo dei due, pag. 66); con un ricorso frequente ed efficace allo stile nominale ed
all'accumulazione, che ne fanno risaltare gli aspetti ritmico fonetici, scolpisce
le immagini e incide le situazioni con contorni netti, senza sbavature
lirico-sentimentali. La nostalgia
che trapela è sempre controllata, contemplata con lo sguardo di chi, prima di
farne oggetto di amoroso racconto, come per pudore se ne spoglia.
Nei vari racconti, esperienze di viaggio, di lavoro,
di incontri con memorie persone luoghi e atmosfere, un
raccontare che, nonostante la nota finale “personaggi e vicende sono puro
frutto di fantasia e immaginazione”, si fa autobiografia, non solo in
senso flaubertiano.
La Grande Madre Zelinda Lenti, che nell'infanzia
continua a vivere attraverso l'eco della voce e attraverso i racconti delle
sorelle e che è scoperta “la prima volta nel… profondo” a dodici
anni nell'incontro con la toccante figura manzoniana della madre di Cecilia;
Urbino, con il colore dei suoi mattoni, con il suo palazzo, i suoi vicoli, le
colline dei suoi paesaggi, i quali conservano la stessa luce che artisti e
pittori, a cominciare da Piero Della Francesca, amarono e catturarono; l'Apsa (
di “Senza rumore”, in
equilibrio tra prosa e poesia, anzi un vero e proprio poemetto); il collegio, perdono i tratti della realtà nel momento che si
fanno mito, ma sono pur sempre carne e sangue del vissuto.
E la passione politica, l'impegno, il vasto raggio
delle letture le cui reminiscenze e suggestioni trapelano in tanti momenti.
Alcuni racconti si divertono a cogliere in piccole
situazioni ed esperienze il risvolto di una più o meno velata comicità (“Di baci al caffelatte e di un ombrello”;
“Relatività”; “Marta e Maria”; “La
pasta con il pane”; "Treni
in metafisica", dove una comicità in sordina permea in ossimoro una
situazione appunto metafisica di abbandono e solitudine, quale ci è dato
cogliere in Edward Hopper; quello
kafkiano (e come poteva essere altrimenti?) in “Una valigia a Praga” (dove antifrasticamente kafkiane sono
pure le semplici iniziali con cui vengono designati i personaggi).
Altri, nella rievocazione dei genuini sapori di un
tempo, si abbandonano con una affettuosità poetica al gusto dell'elenco di cibi
e piatti, di erbe rustiche con una acribia pascoliana (“Il mattino ha l'oro in bocca”;
“Apologhi in fotofinish”).
Esperienze autobiografiche o catturate dall'acuta
attenzione di Maria Lenti nei personaggi di incontri anche occasionali, che
diventano piccoli camei. Una raccolta, questa di Maria Lenti, snella, che
scivola veloce attraverso una piacevole varietà di situazioni sul ritmo di una
forma originale sempre intonata.
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