Domenico Dara, Appunti di meccanica celeste,
Nutrimenti, 2016
recensione
di Subhaga Gaetano Failla
Girifalco, luogo mitico e reale
che apre una crepa nello stereotipo del fatalismo meridionale, nasconde
accidentalmente l’armonia d’una pitagorica musica di sfere celesti, e oltre il
frastuono della quotidianità ne
svela la melodia. Nel dissolversi dell’illusorio caos sognato dai dormienti appare l’immanenza cosmica, sorprendente
perfino nella tracotanza della divergenza, dell’hybris che sfida il Fato, forse per affermare paradossalmente che
la sfida stessa è parte integrante del destino.
Domenico Dara accompagna il lettore in questo suo
ulteriore itinerario, nel percorso di una antropologia letteraria che abbraccia
con identico pathos esseri umani, galassie e polvere di terra, e ricerca
ancora, con rinnovata passione e impeto lirico, la sua chiave di
interpretazione del “codice dell’anima”, in un aleggiare fraterno dell’opera di
James Hillman.
La lingua utilizzata, come nel
suo precedente romanzo d’esordio Breve
trattato sulle coincidenze, è seducente e duttile, plasmata adesso in un
impasto lessicale fatto di arcaismi dialettali e al contempo di modernismi
connessi a registri scientifici, e di slanci poetici tra astrofisica, mitologia
e filosofia delle origini.
I personaggi di Appunti di meccanica celeste commuovono
e rimangono impressi, trovando un proprio spazio esclusivo nelle trame della
nostra memoria.
Dara si riconferma felicemente autore
tellurico e vertiginoso, e scrittore nostalgico, d’una insolita nostalgia: il
suo dolore, la sua algia, è lunare e rarefatto, e il suo nostos, il ritorno, ha come destinazione e destino l’intero
universo.
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